Dub For Dummies

Breve viaggio tra i fumi di Jah

Pochi generi, come il dub, hanno avuto un’influenza tanto longeva e trasversale nel mondo nel rock, oltre a vantare un proprio corso indipendente, con tanto di capiscuola, sotto-generi, scissioni e sviluppi intestini. Intere esperienze, dal post-punk al trip-hop a tantissima elettronica, sarebbero semplicemente impensabili senza l’ascendente dub insinuatosi sotto varie spoglie. Ancora, ignorare il dub significa perdere una corposa tradizione di musicisti e “ingegneri” che hanno spalancato nuovi mondi di visioni in moviola, spesso slegati dal substrato più strettamente religioso tipico delle sue radici reggae, e che studi appositi hanno dimostrato favorire intuito e concentrazione, nonché (ovviamente) benefici sedativi sulla psiche.
Pochi generi come il dub, inoltre, si rifanno a una genesi così precisa da ricostruire storicamente, per quanto al lordo di una certa sfocatura mitologica.
In principio era il reggae, dunque, poi arrivò il remix. In un contesto tutto sommato non difficile da immaginare: una manciata di fattoni rinchiusi in uno studio di registrazione da qualche parte in Giamaica già in tempi insospettabili (intorno al 1967), che ricicla ritmiche pre-registrate in maniera creativa ampliandone a piacimento echi e riverberi. Prima al fine di assicurare arrangiamenti originali a produzioni reggae, poi divenuti trendy al punto che buona parte dei singoli cominciò ad avere una relativa “version” nel lato b (basti pensare ai dischi di Keith Hudson), quando i fumi di Jah non fecero intuire ai prediletti le potenzialità specifiche di questo stile. Circoscriviamo qui però l’elemento leggendario e diamo nomi e volti a questi prescelti: Osbourne “King Tubby” Ruddock è l’individuo comunemente ritenuto responsabile dei primi sviluppi del dub come genere a sé. Proprietario di uno studio altamente sofisticato, Tubby diventa già nei primissimi Settanta il “re” di Kingston cui si rivolge un numero crescente di musicisti per usufruire dei suoi speciali trattamenti. Presto nascerà una vera e propria scuola tubbyana, i cui allievi diventeranno a loro volta delle vere autorità del genere: Prince Jammy, Scientist ed Errol Thompson, tra gli altri, tutti nomi che contribuiranno a nobilitare il dub e soprattutto la figura del sound engineer nel contesto reggae.
Da lì in poi tante e inattese le vie seguite dal genere o in cui si insinuerà subdolamente: dagli sciolti trip di Lee "Scratch" Perry, all’influenza sulle dancehall globali, dalle derive più spirituali alla sua reincarnazione in Occidente, in particolare nell’Inghilterra thatcheriana di Mark Stewart e della On-U Sound prima, del trip-hop e dell’ambient-techno poi. Il verbo del dub continua a pulsare. Come stile, come stato mentale, come modo di vivere e vedere la realtà. In slow-motion.

(La breve lista che segue, lungi dal pretendere di essere esaustiva, vuole rendere umilmente una panoramica del genere nei suoi sviluppi geografici e temporali, tentando di selezionare quei dischi significativi a un tempo per storia e giudizio-passione personale di chi scrive)

Lee "Scratch" Perry & The Upsetters – Super Ape (1976, Island)
Raccontare la storia dell’eccentrico Lee Perry e della sua oceanica discografia è un compito che va rimandato necessariamente ad un altro capitolo. Parte del collettivo The Upsetters fin dagli ultimi Sessanta, Lee "Scratch" Perry ha consegnato quella che è probabilmente la produzione dub più corposa e fitta di innovazioni, incluso un approccio molto personale al genere, non solo per essere tra i primi padri ad aver scritto “canzoni” vere e proprie, con vocals e struttura, ma anche per il fatto di esprimere sulle macchine le emozioni e gli aneddoti privati, rendendo i suoi dischi indubbiamente i più affascinanti della prima stagione. “Super Ape” rappresenta per molti aspetti il punto più alto del suo percorso: registrato nei mitici Black Ark Studio, il disco riesce nell’intento di ricreare una intricatissima jungla, grazie soprattutto alle complesse stratificazioni ritmiche e al dialogo con le linee basse – che per una volta condividono il primo piano egualmente con le percussioni - e ai campionamenti di alcuni classici reggae mandati continuamente in in- e out-fade. L’effetto psichedelico è ai massimi, ma a differenza di altre produzioni perryane più coraggiose (basti pensare ai bellissimi “Roast Fish, Collie Weed & Cornbread” e “The Return Of Pipecock Jackxson”) l’ascolto è sempre godibile, l’andamento sempre morbido e liquido in stile roots, merito anche di una band di primo livello (Boris Gardiner al basso, Skullying alle congas, Mickey Benbow alle percussioni, Chinna alla chitarra). Ogni brano è praticamente storia, con “Croaking Lizard” e “Dread Lion” tra i classici più raffinati del genere. Se, senza falsa modestia, Lee Perry si fa fotografare spesso con in testa una corona da re, un motivo ci sarà pure.

ScientistScientist – Scientist Rids The World Of The Evil Curse Of The Vampire (1981, Greensleeves)
Tra i pupilli di King Tubby, Overton Brown aka Scientist, è sicuramente il producer più dotato e originale. I suoi dischi fanno uso di echi e distorsioni in maniera ancora più estrema rispetto alla già alta media dei suoi contemporanei, al fine di rendere il suono “il più alieno possibile”, come una musica fatta per comunicare coi marziani. Riferimenti mostruosi che abbondano in particolare nella parte centrale della sua discografia, quasi una grottesca saga sugli incontri ravvicinati del quinto tipo, che in “Scientist Rids The World Of The Evil Curse Of The Vampire” si fanno ancora più bislacchi per il fatto di essere stato inciso, tradizione vuole, negli studi di King Tubby a mezzanotte esatta di un venerdì tredici. “Scientist Rids The World” è per molti versi il disco più riuscito di Scientist (assieme forse al di poco precedente “Scientist Meets The Space Invaders”) combinando una manciata di bassi unti e potenti, voci comico-orrorifiche da notte dei morti viventi (come recita anche uno dei titoli) con un lavoro di missaggio a dir poco magistrale. Probabilmente il trip più divertente.

Dub Syndicate – Tunes From The Missing Channel (1984, On-U Sound)
Tra le parentesi più importanti di casa On-U Sound – l’etichetta britannica “dub” per eccellenza – Dub Syndicate è la creazione più “acida” del guru Adrian Sherwood e del batterista Style Scott (dei Roots Radics e collaboratore di Perry e Bill Laswell, nonché fondatore della Lion&Roots). Formati sul finire dei Settanta e formalmente ancora attivi, Dub Syndicate hanno approfondito forse per primi la dimensione più “electro-ambient” del dub, già abbozzata dai Creation Rebel. Gli album “One Way System” e “The Pouning System”, presentato come “ambience in dub”, hanno coniato stilisticamente questa forma che però giunge a maturazione solo in questo “Tunes From The Missing Channel”. Pur preservando il tipico umore chilled, in “Tunes” la sezione ritmica si presenta radicalmente asciugata e gli spazi si svelano ancora più ampi, lasciando entrare una variegata serie di elementi “alieni” ad arricchire un trip dai colori verde erba e grigio metallo: il raga di “Ravi Shankar", chitarre e synth abrasivi, tambureggiamenti (“Over Board”), echi esasperati (“Forever More”) e rilassate rievocazioni “roots” (“Jolly”). “Tunes From The Missing Channel” è l’ideale punto di incontro tra i sentori tribal sviluppati parallelamente dagli African Head Charge e la matrice pesantemente industriale indagata a nome Missing Brazilians nel non meno miliare “War Zone”.
Disco che funziona su più livelli e che aggraderà i palati più diversi.

eastoftherivernileAugustus Pablo – East Of The River Nile (1978, Message)
L’immagine più celebre di Augustus Pablo, che è anche la cover di questo disco, vede il musicista rannicchiato sulla sua melodica immerso in un paesaggio naturale, come in riva a un fiume (il Nilo del titolo?). La profonda spiritualità del musicista originario di St. Andrew è uno dei pochi fatti noti di questo misterioso personaggio, la cui vita semi-eremitica e il suo pensiero sono racchiusi quasi esclusivamente nella sua musica.
Quella di Augustus Pablo è una personale versione di instrumental reggae che in qualche modo invoca un senso di purezza mistica, di partecipazione e immersione negli eterni cicli degli elementi naturali e che, grazie anche alla completa assenza dell’elemento vocale, riesce a muoversi in una sorta di a-temporalità.
Ogni traccia dice tutto di sé nei primi tre secondi, tra bassi amplificati e melanconiche frasi di melodica o tastiera. Ma al tempo stesso non dice nulla, trascinandosi costantemente in un movimento circolare potenzialmente interminabile, senza colpi di scena e preoccupazioni profane. Semplicemente fluire.

Linton Kwesi Johnson – Forces Of Victory (1979, Island)
Linton Kwesi Johnson viene spesso citato per essere uno dei due soli poeti viventi pubblicati dalla Penguin Classics. La sua è una vita di battaglie contro le più diverse forme di razzismo, impegnato alla guida di diverse organizzazioni e autore di versi pungenti frutto di una speciale mistura di beat e militanza di sinistra. “Forces Of Victory” è il manifesto del suo dub-poetry, uno stile riconoscibilissimo dall’impalcatura dub-reggae minimale ma vigorosa e da un cantato-parlato che enfatizza lo spelling “arrotondato” dell’inglese giamaicano e che rimanda ad una sorta di rap ante-litteram. Attivismo, storie di oppressione, filosofia si intrecciano in una forma colta ed elegante che costringe a tenere i piedi ben piantati a terra e, come tale, vero unicum nella storia del dub, di cui ha cambiato sensibilmente le sfumature. Oltre ad aver cambiato anche molte vite.

newagesteppersNew Age Steppers – Action Battlefield (1981, Statik / On-U Sound)
Sorta di super-gruppo messo su da Adrian Sherwood, con Bim Sherman e l’indimenticata Ari Up (ma tra le cui fila transiteranno Neneh Cherry, Eskimo Fox, Style Scott e anche Mark Stewart), i New Age Steppers inaugurarono l’epoca d’oro della On-U Sound con un trittico che risente del background “punk” di buona parte dei suoi membri e incentrato su un suono più caldo e live rispetto ai futuri progetti partoriti dall’etichetta di Sherwood. “Action Battlefield” rimane ad oggi la gemma del gruppo, sette canzoni rag-electro dai bassi ingombranti, eredi evidentemente delle illuminazioni del Pop Group, piene di effetti e con umori diversi, dalla malinconia evocativa di “Observe Life” al motivetto naif di “My Love”, fino alle più nervose “Problems” e soprattutto “Nuclear Zulu”, con l’inconfondibile mano di Stewart. I New Age Steppers ricompariranno solo nel 2012 con il più sbiadito “Love Forever” e alcuni vocals postumi di Ari Up, nel frattempo portata via da un cancro all’età di quarantotto anni. Disco atipico e irripetibile.

CongosThe Congos – Heart Of The Congos (1977, Black Art)
Se e come le musiche “nere” dell’America centro-settentrionale riflettano gli schemi del loro passato africano pre-schiavista è da tempo oggetto di dibattito accademico. Senza porsi questioni di natura teorica, i Congos cercano di (ri?)unire nella loro musica la ricca scena reggae della Giamaica dei primi Settanta con la tradizione vocale dell’Africa centro-occidentale. Una lunga discografia che, pur tra diverse pause, si estende per tre decenni e in cui “Heart Of The Congos” rappresenta un episodio tutto speciale. Anzitutto per chi si cela in cabina di regia, il solito Lee Perry, garanzia di produzione ricca e (per l’epoca) estremamente sofisticata. Ma anche e soprattutto per le dieci splendide canzoni, che brillano di calore e commossa spiritualità “crossover”, con “Congoman” come esplicita dichiarazione d’intenti del trio. Un disco per altro a un passo da un ipotetico successo commerciale: un contratto pronto con la Island, affondato da Perry per alcuni dissapori con la major e pubblicato per la sua (finanziariamente) più modesta Black Art.
I Congos sono riemersi poi nel 2012 per il progetto di Sun Araw e M. Geddes Gengras “Icon Give Thank”.

Mad Prof.Mad Professor – Dub Me Crazy (1982, Ariwa)
Mad Professor, al secolo Neil Fraser, è tra i nomi di punta dei dubber della seconda generazione, quelli cioè trapiantati e cresciuti in contesti altri rispetto al luogo d’origine (nel caso di Fraser, la Guyana). Fortemente influenzato dall’elettronica e permeato dal massiccio uso dei campionamenti, Mad Professor crea di fatto una concezione nuova di dub, la cui influenza sul decennio a venire sarà a dir poco decisiva (si pensi ai Renegade Soundwave e al Wild Bunch, fino ai primi Massive Attack). Con il suo passo ubriaco e straniante “Dub Me Crazy” fu il primo disco ad aprire queste nuove porte e lancerà Mad Professor nell’olimpo dei remixer di grido, tanto alla corte dei “padri” (Lee "Scratch" Perry, Horace Andy, Sly & Robbie) quanto a quella dell’universo più pop (da Sade agli stessi Massive Attack).

Creation Rebel – Starship Africa (1980, 4D Rhythms)
Messo su dai bassisti Tony Henry e Lizard e i rinomati percussionisti-prezzemolino Eskimo Fox e Style Scott, Creation Rebel è un progetto che merita attenzione anche solo a partire dai credits. “Starship Africa”, in particolare, è un esperimento che resta tra i più audaci mai azzardati in territorio dub. Sganciatesi dall’impalcatura più tipicamente dub-reggae dei predecessori (in particolare “Dub From Creation”), le due quasi-suite di “Starship Africa” decollano a esplorare le galassie, portando per la prima volta il dub in ambienti spacey e astrattassimi. Ogni elemento sembra seguire geometrie proprie, si de-compone in combinazioni sempre diverse per riaggregarsi occasionalmente al resto dello scenario in architetture robuste ma inafferrabili. Tra Jarre e sentori “kraut”. Alto rischio di trance. Maneggiare con cautela.

Rhythm & SoundRhythm & Sound – w/ The Artist (2003, Burial Mix)
Dopo un decennio, i Novanta, in cui il dub, in particolare nella sua veste più elettronica, ha continuato a strisciare nelle sembianze più disparate (bastino nomi tanto distanti come Orb, Jah Wobble, Basic Channel), nei Duemila tornano a fremere vibrazioni più “roots”, grazie ai lavori di Deadbeat sul versante più techno (si sentano “Roots & Wire” e “Radio Rothko”), e di Vladislav Delay e Moritz von Oswald su quello più ambient-avant. Proprio Moritz von Oswald è il curatore del progetto Rhythm & Sound, di base a Berlino, la cui ricetta snellisce e rallenta la formula dub-techno e si sospende in un battito minimale e sotto-cutaneo attraversato da bassi sensualissimi.
Una folta serie di singoli ed Ep (una trentina in tutto), molti dei quali con Tikiman ai vocals, rilasciati tra il 1996 e il 2006 e raccolti in quattro compilation, di cui questo “w/ The Artist” ne seleziona e remixa i migliori duetti, inebriando sensi, mente e piedi.
Il dub di oggi passa anche, inevitabilmente, da queste parti.

Discografia

DUB FOR DUMMIES
Lee 'Scratch' Perry & The Upsetters - Underground
(da "Super Ape", 1976)
Scientist - Cry Of The Werewolf
(da "Scientist Rids The World Of The Evil Curse Of The Vampires", 1981)

Dub Syndicate - Ravi Shankar
(da "Tunes From The Missing Channel", 1984)

Augustus Pablo - Nature Dub
(da "East Of The River Nile", 1978)

Linton Kwesi Johnson - Reality Poem
(da "Forces Of Victory", 1979)
New Age Steppers -Observe Life
(da "Action Battlefield", 1981)
The Congos - Congoman
(da "Heart Of The Congos", 1982)
Mad Professor - Tumble Down
(da "Dub Me Crazy", 1982)
Creation Rebel - Space Movement [part 1]
(da "Starship Africa", 1980)
Rhythm & Sound - Queen In My Empire
(da "w/The Artist", 2003)
Pietra miliare
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