Dopo aver dato inizio al movimento del "primitivismo" con "Y" (1979), uno dei capolavori della new wave inglese, e dopo essersi ripetuto ad altissimi livelli con "For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?" (leggermente più ortodosso nel rileggere il funk), il Pop Group depose le armi. Tuttavia, i suoi membri scelsero di non distaccarsi troppo da quella prima esperienza artistica: alcuni cercarono soluzioni più disimpegnate (come i Maximum Joy del chitarrista Waddington e i Pig Bag del bassista Underwood), altri privilegiarono gli aspetti più esotici e le particolarissime fragranze "jazzy" di quella sintesi fenomenale (come i Rip Rig & Panic del batterista Bruce Smith e del sassofonista Gareth Sager, autori di un trittico mozzafiato, che comprende "God" del 1981, "I Am Cold" del 1982 e "Attitude" del 1983).
Nel frattempo, Mark Stewart, già leader e vocalist di quella band seminale, si trovò quasi per caso al fianco dei Maffia, un trio composto da Keith Leblanc, Doug Wimbish e Skip McDonald. I Maffia furono uno dei primissimi collettivi dediti alla sperimentazione sulle tecniche di registrazione nell'ambito della musica da ballo. La passione di Stewart per il funk e, in generale, per la musica afroamericana, unita alle nuove tecniche di cui sopra, diede vita ad una delle saghe più avvincenti del rock degli anni 80. La sintesi "primitivista" del Pop Group venne "decostruita" e successivamente analizzata nelle sue componenti. Alla base, vi era la matrice "funk" (ma come filtrata da una violenza urticante di chiara ascendenza "industrial"); in superficie, invece, restava un magma infernale (e informale) di loop, atomi di musica concreta, voci deformate o smembrate, scosse telluriche, nebulose dub e declamazioni agit-prop.
L'aspetto "ballabile" dei brani veniva accentuato dall'uso dei "break-beat" ("re-inventati" nel 1975 dal disc-jockey giamaicano Clive "Hercules" Campbell ) e dello "scratching" (una tecnica scoperta quasi per caso, e sempre nel 1975, da un tredicenne di colore del Bronx, tale Theodore "Grand Wizard" Livingstone). Come avevano insegnato i pionieri della Sugarhill Gang già a partire dal 1979 (i nomi?: Kool Herc, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash), con queste tecniche era possibile collegare tra di loro svariati frammenti sonori (anche brevissimi). Sarà poi soprattutto per merito del solo Grandmaster Flash che il gioco inizierà a farsi davvero duro (leggi "rivoluzionario"), tanto da riuscire a scardinare confini di ogni genere (anche razziali), e tanto da giungere come un vaso di pandora nelle mani di alcuni musicisti bianchi che da sempre erano in contatto (passando per il "dub") con quella nascente realtà. Altra grande influenza, fu quella della "danza moderna" dei maestri Pere Ubu: il rituale alienante del lavoro veniva ricondotto a un grottesco ballo, anche sulla scia delle vecchie teorie del "Feks" russo, secondo le quali l'uomo è ormai ridotto a un autòma che reagisce solo a degli stimoli esterni (la società post-industriale, nel nostro caso) e che non tiene conto della psicologia. Di questo passo, si finisce per rendere "alienante" e "aliena" anche la stessa materia sonora. Lo scardinamento dell'aspetto psicologico della musica venne portato a compimento con una destrutturazione armonica spesso prossima al delirio e al caos più efferato.
"Learning To Cope With Cowardice" (1983) è, molto probabilmente, il capolavoro di questo particolarissimo quintetto (il produttore Adrian Sherwood divenne un membro a tutti gli effetti). Si tratta di un album terribilmente in anticipo sui tempi, che avrebbe fatto sentire tutto il suo peso anche, e soprattutto, su quello che tra la fine degli anni 80 e l'inizio dei 90 sarebbe stato definito "trip-hop".
L'iniziale title-track è sintomatica di come Stewart e soci riescano a tratteggiare sulle ritmiche afroamericane un ammasso deviante di astrazioni elettroniche, qui inframmezzate da ricami di trombe sintetiche. Ma, tuttavia, nulla lascia ancora presagire le successive catastrofi soniche. "Liberty City" è ancora macchiata di funk. Un sax gigione infila periodicamente un fraseggio di jazz tra la voce declamante di Stewart e il coro femminile che gli fa da contraltare "celestiale". Le catastrofi di cui sopra prendono finalmente il sopravvento nella successiva "Blessed Are Those Who Struggle", un vero e proprio "montaggio delle attrazioni" e, nello stesso tempo, un saggio di "decostruzionismo" totale e senza limiti. Il referente più prossimo è il finale di "We Are Time" del Pop Group (su "Y"): un ammasso ultra-cacofonico di suoni manipolati, di nastri stuprati e di voci immerse nell'acido. E, come se non bastasse, un uso poco convenzionale dello "scratching" ad aumentare il tasso di disfacimento armonico.
Si ha come la sensazione di trovarsi di fronte a un unico, immenso nastro trasportatore, sul quale si succedono eventi musicali di ogni tipo. "None Dare Call It A Conspiracy" continua il massacro. Sullo sfondo si agita un pulviscolo funk, sfiancato ripetutamente da colate dadaiste di sibili, voci filtrate e tremolii metallici. Il programma "agit-prop" di Stewart trova un terrificante corrispettivo estetico nell'uso fortemente destabilizzante delle manipolazioni sonore. In sostanza, tutti i brani di "Learning To Cope With Cowardice" non riescono mai ad acquietarsi in una forma definitiva. Infatti, il quintetto è interessato non tanto alla "forma", quanto ai procedimenti usati nello sviluppo di quella. In un secondo momento, poi, questi procedimenti vengono ulteriormente "stratificati": il risultato è un suono che implode continuamente su se stesso.
Introdotta da trombe bibliche (che si ripetono lungo tutto il brano ad intervalli regolari), "Don't You Ever Lay Down Your Arms" sfodera un battito "dub" possente e le solite snervanti fratture soniche. Il brano ha uno sviluppo altalenante: voce, ritmica e disturbi elettronici non hanno mai lo stessa intensità sonora, ma vengono predisposti per prevalere sugli altri in determinati momenti. Il "reggae" fa la sua comparsa in grande stile nella fanfara di "The Paranoia Of Power" (con grande sfoggio di poliritmi). Su "To Have The Vision" viene attuata la trasfigurazione del "reggae", resa ancora più malefica dalle torture cui viene sottoposta la voce di Stewart, in alcuni momenti declassata a vera e propria "bolla chimica". "Jerusalem" assembla rumori di folla, urla screziate di nero, campionamenti "orchestrali" e percussioni rutilanti. Tutto il brano è avvolto in una spirale onirica: una lente deforme che ne evidenza sempre e solo gli elementi apparentemente secondari.
L'album raggiunge il suo culmine sperimentale nei 12 minuti di "The Wrong Name And The Wrong Number", senza dubbio uno dei loro collage più devastanti (il primo nome che viene in mente è quello degli americani Negativland). Il procedimento compositivo ricorda molto da vicino quello con cui Grandmaster Flash mise a punto la sua leggendaria "Wheels Of Steel": solo che, mentre in quest'ultimo caso ci troviamo di fronte ad un accumulo di "sampler" delle più diverse canzoni (e delle più diverse band), con Stewart e soci viene cancellato ogni riferimento meta-musicale, essendo adoperati solo "sampler" di voci e suoni "trovati" e di frammenti musicali appositamente creati per l'occasione. E, allora, si susseguono, in rapida successione, campionamenti di ogni tipo (dal traffico cittadino a trasmissioni radiofoniche), "scratch" acidissimi, sirene elettroniche, ronzii alieni e polluzioni rumoriste che, molto probabilmente, appartengono alla "Arable Land" dei Red Crayola. L'accumulo aleatorio di materiali sonori eterogenei è finalizzato, in ultima analisi, a creare un effetto tematico riassuntivo: come nel montaggio predicato dai futuristi, tutto quello che conta è l'effetto di "sintesi". Il Pop Group è ormai lontanissimo; ma, in fondo, gli obiettivi restano sempre gli stessi: primo fra tutti, quello di rappresentare le nevrosi e le paranoie dell'era tecnologica.
Nella traccia finale, "High Ideals And Crazy Dreams", il caos viene del tutto rimodellato sulle slabbrature e sul battito "dub". L'incedere è pesante, mastodontico. All’esplosione vitale del "funk" viene contrapposto il pulsare ipnotico del "dub": ne risulta un paradossale effetto di sfasamento psichico. Tutto sommato, quindi, l'aspetto psicologico della musica più che essere scardinato viene solo riorganizzato per contrapposizioni dialettiche. Qua e là, sirene industriali circoscrivono spazi urbani desolati, gelidi. In controluce, l'Inghilterra dell'epoca sotto una pioggia implacabile di paure e di speranze.
Cosi come "Y", questo è un album di denuncia. In mezzo alle strutture esplose dei brani, i testi politici di Stewart acquistano una carica ancora più eversiva. E, sia nell'uno che nell'altro caso, l'assalto al sistema viene rinvigorito da una miscela sonora tumultuosa e, a dir poco, innovativa. In definitiva, "Learning To Cope With Cowardice" continua lì dove "Y" si era fermato. La rotta è verso una sintesi sempre più scheletrica, brutale e, perché no?, "poetica".
12/11/2006