Pop Group

Y

1979 (Radar)
funk-punk

Di "Y" colpiscono l'utopia, l'urgenza espressiva, la catarsi che si protrae al di là del semplice brano; le idee rivoluzionarie e la musica che di quelle idee si veste, come se non ci fosse nient'altro capace di darle un valore più alto, il prodigio di speranze che resteranno tali, e perciò ancora più vere, più umane. Con Mark Stewart & co. il palco diventa un luogo di riconciliazione col mondo: la scenografia si tinge degli sguardi accecati dall'attimo che si apre nel suo mistero, delle laceranti traiettorie del sax di Gareth Sager, delle voragini dub che simulano un'oscurità impenetrabile dietro tanta dissoluzione armonica.

Il Pop Group non è una band qualunque. Anzi, in fondo non è nemmeno una band… E' un "progetto impossibile": il progetto di una consapevolezza estrema; estrema perché condotta lì dove solo l'emozione pura può giungere. Perché essere consapevoli, in fondo, è dedicarsi a ciò che del mondo sembra "solo" superficie e semplicità. Essere consapevoli significa anche non disperdere i propri sogni; non farne un qualcosa di concreto, ma renderli sempre più nostri, sempre più rarefatti, della stessa materia del cielo. "Don't Sell Your Dreams" è il messaggio definitivo della compagine di Bristol, Inghilterra.

La voce di Mark Stewart è fioca come la luce di una candela. Ma la sua passione è imperiosa, senza compromessi: è una continua esplosione, un geyser psichico che deflagra l'intarsio già fragilissimo tra i singulti del basso e gli scricchiolii circolari della chitarra. In fondo, bisogna immaginare tutta la scena come se si fosse in un teatro vuoto, il palcoscenico discretamente illuminato e una maschera che si dibatte tra rabbia e stupore. Ascoltare "Savage Sea" significa calarsi psicologicamente dentro un collage di immagini del nostro tempo; scoprirne le contraddizioni; restare impotenti, a occhi chiusi. Continuare, poi, a ripetere dentro di sé un equilibrio perfetto tra richiami di corno, sussulti vocali e note di piano lasciate andare alla deriva. E, ancora, avere la forza per ritornare alla celebrazione della vita, allo scontro con gli dei, al furto della luce e del fuoco che porta ancora impresso il marchio ribelle di Prometeo. Ecco perché il funk di "Thief Of Fire" è furibondo: furibondo come ogni atto di riappropriazione. La furia si tramuta in vertigine, dipanandosi tra feroci vocalizzi di sax e sciami ritmici apertamente debitori dell'Africa nera.

Rigurgiti free-jazz (Cecil Taylor?) e rumorismi fradici di elettronica sono, invece, gli elementi cardine attorno i quali viene organizzato il cabaret schizofrenico di "Snowgirl". Una struttura incredibilmente "mutante", dissolta dalla sua stessa carica eversiva. D'altra parte, non possiede la stessa carica il disco-funk grottescamente rallentato di "Blood Money", proteso nel finale verso un abisso di schianti armonici e di urla mostruosamente filtrate? E non è roba da far venire la pelle d'oca a James Chance il prodigio funk di "We Are Time"? Solo che del funk restano le macerie, perché qui tutto è predisposto per la dissoluzione, per la tortura reiterata fino al collasso.

In un delirio sovraumano di creatività, viene destrutturata anche la sezione ritmica, relegando il basso in una zona d'ombra in cui il funk si fa tessuto connettivo tra voce e sax, mentre l'impeto percussivo di Bruce Smith viene ridotto in frammenti sempre più piccoli, sempre più microscopici. Alla fine, la sperimentazione finisce per degradare l'originaria matrice funk a semplice brandello di un disegno caotico più ampio, organizzato secondo i "dettami" dell'improvvisazione free-form.

In mezzo a tante vibrazioni inconsulte, Stewart riesce comunque a liberare parole che sono sputi: "Your world is built on lies" ("Il vostro mondo è costruito sulle menzogne"): ogni parola viene elevata a un livello superiore di significazione; ogni parola viene pronunciata ponendo un'enfasi selvaggiamente "teatrale" sul suo suono.

Ma lo schifo non è roba che possa svanire in un attimo: "Words Disobey Me" ne è testimone. Eccezionale mosaico di paranoia e di dissonanze atroci. Lambendo territori sempre più "pericolosi" lungo la strada che conduce a una "fusion totale" tra tribalismo, musica colta urbana e nevrosi postmoderne, il Pop Group, di brano in brano, appare sempre più come un evento unico e irripetibile nella storia del rock. Lo confermano anche "Don't Call Me Pain" e "The Boys From Brazil", altri esempi di ibridazione apocalittica tra generi apparentemente lontani e inconciliabili. Sono brani che, in sostanza, si presentano come fetide carcasse musicali su cui si accanisce la violenza corrosiva di un tormento interiore: un tormento che pone la sua unica redenzione nell'atto della creazione artistica. Tutto "Y" è il racconto vibrante ed "eccessivo" di questa redenzione.

06/11/2006

Tracklist

  1. Thief Of Fire
  2. Snowgirl
  3. Blood Money
  4. We Are Time
  5. Savage Sea
  6. Words Disobey Me
  7. Dont Call Me Pain
  8. The Boys From Brazil
  9. Dont Sell Your Dreams