Air

Air

Un lounge-party alieno

Tastiere vintage e vocoder, voci angeliche e languori psichedelici, ritornelli zuccherosi e un gusto orchestrale irresistibilmente retrò. Con un decisivo french touch a suggellare la saldatura perfetta tra passato e futuro. Gli Air hanno coniato un nuovo linguaggio electro/pop, invertendo il corso di un decennio intero. La saga retrofuturista degli spacemen francesi

di Claudio Fabretti

We are the syncronizers
Send messages through time code
Midi clock rings in my mind
Machines gave me some freedom
Synthesizers gave me some wings
They drop me through twelve bit samplers
We are electronic performers
We are electronics
(Air, "Electronic Performers")

Umiliato e offeso, spedito in esilio per un decennio come residuo di un passato sconveniente (i vacui e sintetici Eighties), il pop elettronico rinasce alla corte di Versailles alla fine degli anni Novanta e prepara una clamorosa riscossa.
Artefici del "golpe", due giovani ex-studenti apparentemente dediti a tutt'altro. Jean-Benoit Dunckel insegna matematica, ma ha studiato musica classica al conservatorio di Parigi e suona per hobby in una formazione indie-pop di nome Orange. Ed è proprio un componente della band, Alex Gopher, a metterlo in contatto con Nicolas Godin, brillante neo-laureato in architettura, pronto tuttavia a deporre righello e goniometro in nome della musica.
I due formano gli Air nel 1995. Il nome è un omaggio al grande architetto svizzero Le Corbusier, idolo di Godin, ma anche l'acronimo di "Amour, Imagination, Rêve" ("Amore, Immaginazione, Sogno"). Appassionati di tecnologia e di modernariato musicale, i due novelli corrieri cosmici setacciano vecchi Korg e Rhodes, assieme a svariati modelli di vocoder. E meditano una missione impossibile: usare la loro sapienza elettronica, temprata dall'ascolto di numi come KraftwerkJean-Michel Jarre e Vangelis, per riportare alla luce addirittura l’easy listening, le sonorità più retrò della madrepatria e non solo (Serge Gainsbourg, Françoise Hardy, colonne sonore anni 60-70, exotica, chill-out, lounge music), senza disdegnare di sporcarsi le mani con tutto ciò che, fino a quel momento, era stato messo al bando dall'indie-mondo (Euro-disco? Space-disco? Sì, perfino loro...). È un'alchimia perfetta: l'approccio più sperimentale ed elettronico di Godin si combina con la formazione più classica di Dunckel, che apporta il decisivo tocco melodico.

Il "Nouvel Beat"

Non è solo la quantità di glucosio a fare la differenza tra la crema e la melassa. È un sottile equilibrio chimico, un dosaggio mirato degli ingredienti. E gli Air possiedono questa formula magica, che in due parole si potrebbe definire "buon gusto". Anche quando ammiccano al kitsch e all'easy listening, infatti, Godin e Dunckel non affondano mai nel pantano delle banalità, anche solo per merito della straordinaria qualità dei loro arrangiamenti, imperniati su un connubio originalissimo tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali. Ma la musica degli Air può vantare soprattutto una qualità unica: è "a-temporale", incapace di farsi datare o datata, proprio perché interamente onirica e priva d'ogni aggancio con la realtà. "Quando sei immerso nel liquido amniotico non hai nessuna consapevolezza del tempo, né di dove sei. È così quando componiamo in studio", ha spiegato Dunckel. 

Nel 1996 esce il loro primo singolo "Modular Mix", seguito da "Casanova 70" e da "Le Soleil Est Prés De Moi". Sono brani raffinati e divertenti, a metà tra easy listening e pop acidulo alla Stereolab, che permettono agli Air di conquistare già una buona credibilità internazionale. Artisti come Depeche Mode e Neneh Cherry li reclutano per remixare i loro pezzi. E anche Jean-Jacques Perrey, padre della "musica concreta", li vuole al suo fianco.

AirMa è il 1998 l'anno della svolta: arruolati dalla Virgin, gli Air pubblicano l'album d'esordio Moon Safari. Debitore di Burt Bacharach, Serge Gainsbourg ed Ennio Morricone, più che di Derrick May o Aphex Twin, il disco rielabora l'easy listening in un'ottica d'avanguardia, con una cura maniacale per i dettagli e un'orchestrazione complessa: tutti gli strumenti sono suonati dal vivo, senza ricorrere ad alcun tipo di campionamento, con arrangiamenti magistrali che diverranno il marchio di fabbrica del duo. Ecco allora chitarre acustiche e cascate di sintetizzatori analogici, voci celestiali e vocoder, Moog e violini, Wurlitzer e tuba: quella del "safari sulla Luna" è musica purissima allo stato gassoso, polvere di stelle dall’abbacinante appeal melodico. La voce caramellata dell’americana Beth Hirsch si fonde con gli archi (registrati ad Abbey Road), con i ritmi in bassa battuta del trip-hop, con inflessioni chill-out e squarci di psichedelia à-la Pink Floyd, disegnando paesaggi sonori lussureggianti.
L'iniziale "La Femme d'Argent" è una splendida intro psichedelica, con una sinuosa linea di basso che si innesta su un tappeto di tastiere analogiche, dialoga con il Moog e si lascia cullare da languori jazzati, infondendo un senso di quiete quasi “pastorale”. "All I Need" e "You Make It Easy" - i due brani cantati da Beth Hirsch - suggellano un nuovo genere di soul-pop aurorale, intriso di candida dolcezza.
Tra i suoni seventies riciclati, si segnalano il sempiterno kraut-rock ma anche qualche reminiscenza canterburyana, tangibile soprattutto nell'uso di alcuni fiati (il flauto di "All I Need", i corni di "Ce Matin Là" e di "Le Voyage de Pénélope").
La spinta electro-dance trascina i due singoli, la bugglesiana e quasi disco "Kelly Watch The Stars", omaggio alla più stylish delle Charlie's Angels, con tanto di videoclip nostalgico che riesuma il principe dei videogame d’antan (“Pong”), e l’incalzante "Sexy Boy", quasi una revisione post-moderna dell’arte bowiana dell’hook: due gioiellini vocoder-pop che spopoleranno su entrambi i lati dell’Oceano.
Il romanticismo prende invece il sopravvento in "Talisman", tenera sinfonia per archi e synth, e nella serenata conclusiva di “Le Voyage De Penelope”, dove il tremolio del Korg regala nuovi brividi galattici e il sax trasporta in qualche fumoso bistrot parigino.
L'ascoltatore rimane intrappolato nelle spire morbide di questo sound da lounge-party spaziale, da notti "retroglamour" senza fine. E alla fine, inesorabilmente, soccombe.

"Kraftwerk affogati nello sciroppo alle fragole" o "il mondo visto attraverso il vetro di una coppa di champagne" sono solo alcune tra le più curiose definizioni di Moon Safari, che venderà oltre un milione di copie in pochi mesi, conquistando anche la Victoire de la Musique come album techno/dance dell'anno, e diverrà uno dei feticci musicali più cool dei Novanta (pur essendo distante anni luce dai suoni dominanti di quel decennio).

Una riscossa che non è solo di un genere, ma di una nazione intera. Gli Air, infatti, rappresentano l'avamposto "pop" (legato alla canzone, più che al groove) di quel French Touch che sta conquistando il mondo a suon di vocoder e altre chincaglierie. A guidarlo, una folta pattuglia di musicisti-produttori-dee jay: Laurent Garnier, Daft Punk, St. Germain, Cassius, Motorbass, Dimitri From Paris i più noti. Tutti con un'idea in testa della musica dance come ibrido mutante di sonorità variegate: disco, lounge, electro, funk, exotic etc. Alcuni di loro (Cassius, Modjo, Etienne de Crecy, Saint Etienne) iniziano a citare proprio gli Air come "maestri"; mentre i cuginetti techno-house Daft Punk regalano sentiti omaggi ("Digital Love"); e sul duo di Versailles viene persino ritagliato un genere musicale su misura, dall'improbabile nome di "Easytronica".

Se il fatto musicale è rilevante, quello di costume non è da meno. Con l'estetica-Air, torna alla luce tutto un immaginario seventies rimasto sepolto sotto strati di polvere nei due decenni successivi: le tutine di Ziggy Stardust, i telefilm di Spazio 1999, gli horror cheap, i synth gracchianti di "Arancia Meccanica", le crystal-ball appiccicose, i videogiochi della prima generazione, le lavalamp colorate, nonché, ovviamente, intere cataste di organi e tastiere d’epoca. 

A suggello del momento d'oro, esce nel 1999 Premiers Symptomes, che raccoglie alcuni dei primi singoli degli Air usciti su Source, come "Casanova '70", uno degli apici romantici dell'intero revival lounge, il trip lisergico di "Brakes On", il soul eccentrico di "Modular Mix", o il pop galattico di "Le Soleil Est Pres De Moi".

The dark side of the Moon Safari

Un anno dopo, il duo di Versailles viene ingaggiato da Sofia Coppola, figlia di Francis Ford e astro nascente di Hollywood, per comporre la colonna sonora del suo primo lungometraggio, The Virgin Suicides (2000). Tratto dal romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides e basato su una storia vera, accaduta in una periferia di Detroit (Michigan) nel 1974 (il suicidio collettivo delle cinque sorelle Lisbon), il film è un ritratto tragico dell'adolescenza, nonché il primo capitolo di una sorta di trilogia sulla solitudine femminile che la regista americana completerà con i successivi "Lost In Translation" e "Marie Antoinette". La colonna sonora degli Air ne è architrave portante, decisiva nell'insinuarsi nelle pieghe degli eventi e nell'acuirne la dimensione onirica e surreale.
La sfida più delicata, per i due spacemen francesi, era quella di calare la loro luccicante astronave nel buco nero dell'angoscia, senza tuttavia smarrire la "levità" del tocco. Una sfida vinta a mani basse. La chiave, stavolta, è la psichedelia più soffusa dei 70, quella dei Pink Floyd di "The Dark Side Of The Moon": gli Air la trapiantano nelle atmosfere funeree del film, insufflandole, paradossalmente, nuova vita.
Godin e Dunckel si circondano di una gamma di strumenti ancora più ricca. Basso e batteria (quest'ultima suonata da Brian Reitzell) imbastiscono una sezione ritmica implacabile, che pulsa sangue negli intarsi rarefatti delle tastiere vintage (Moog in particolare), mentre le chitarre, sempre molto gilmouriane, disegnano trame torbide, contrappuntate da spettrali volute d'archi.
L'overture "Playground Love" è l'unico pezzo vocale (interpretato in inglese dall'outsider Gordon Tracks), e si distende in una delle loro tipiche ballate sinuose e avvolgenti, con un bel solo di sax in evidenza. È anche l'unica concessione alle forme del pop: le altre dodici tracce, infatti, tutte strumentali, sono concepite in un'ottica quasi progressive, con la reiterazione di spunti e temi che accompagna idealmente il crescendo drammatico del film. Una tensione che comincia a crescere già dalla seconda traccia, "Clouds Up", ovvero le paranoie dei Faust evaporate tra le nuvole, e che infiamma sottopelle i riff di chitarra elettrica di "Bathroom Girl". Il "Cemetary Party" è già smarrimento psichico: voci femminili operatiche sepolte nel mixer, battiti meccanici, colpi d’organo quasi impercettibili. Dopo la quiete densa di segnali sinistri ("Dark Messages"), si prepara l'ineluttabile tempesta ("The Word 'Hurricane'"): la voce campionata risuona asettica, in un vuoto pneumatico riempito da effetti e distorsioni.
Da qui in poi, è una rapida discesa nel baratro. "Dirty Trip", stupenda cavalcata lisergica di oltre sei minuti, viene sospinta da un basso pulsante lungo un sentiero lastricato di synth, che stridono e urlano, fino all'orrorifica accelerazione finale. "Highschool Lover" - praticamente una versione strumentale di "Playground Love", con una citazione dalla floydiana "The Great Gig In The Sky" - e "Afternoon Sister", col suo uso controllato di Moog e archi, sembrano fluire placidamente, ma le detonazioni di chitarra e l'organo da chiesa di "Ghost Song" sono già campane a morto. La casa si svuota della vita ("Empty House") e il ritrovamento dei cadaveri ("Dead Bodies") è una terrificante apoteosi: clavicembali impazziti, vortici di synth e un drumming che infuria con foga inusitata. L'epitaffio di "Suicide Underground" - una voce processata al computer che narra la storia su una coltre di organi funerei - chiude il disco nel segno di quella stessa mestizia incredula che il film infligge allo spettatore.
Mai più così drammatici, epici e struggenti, gli Air di The Virgin Suicides coronano un'impresa di cui non tutta la critica comprenderà la portata. Se i Pink Floyd non fossero ormai solo una sigla lucrosa, oggi, forse, suonerebbero così.

La colonna sonora porta al successo l'opera prima di Sofia Coppola e contribuisce enormemente al suo crescente "hype". Ma gli Air non si riposano sugli allori e, posti di fronte al dubbio se ritornare ai refrain zuccherosi di Moon Safari o sviluppare le intuizioni atmosferiche di The Virgin Suicides, scelgono una terza via, non meno ambiziosa.

Do androids dream...

Con 10.000 Hz Legend (2001) Dunckel e Godin confezionano un album "solido" e posato, più esplorativo dei precedenti, ma ben ancorato al singolare gusto melodico della coppia. L'irrequietezza naif che li ha sempre contraddistinti è ben presente tra questi solchi, che ispessiscono le dolcezze di Moon Safari in un turbinio di elettronica "seria", spandono qualche cupezza analogica ma poi riportano tutto a casa con improvvise accensioni di archi e melodie in viaggio attraverso il tempo.
Alla base del disco c'è l'idea di un altro pianeta, pieno di megalopoli popolate da androidi. Autoironici fino all'eccesso, gli Air raccontano di amori venusiani e di situazioni inverosimili. Le influenze musicali più evidenti sono i Kraftwerk e i Pink Floyd, tra lo splendore della quadrifonia e la supremazia dei macchinari. Le frivolezze miste a miele sono riservate a un paio di pezzi, giusto la strumentale "Radian", con le sue eteree arpe che introducono fiati gentili, e "People In The City", che rivanga i fasti del passato senza troppa nostalgia.
Il resto dell'album accantona la poetica delle loro ballate in favore di un sound più maturo, che incrocia asperità elettroniche e delicatissimi archi, tensioni e melodie. "La forma-canzone, che sta alla base dell'idea di pop, continua a ossessionarci, ma abbiamo deciso di renderla più secca, diretta, priva di abbellimenti fini a se stessi", spiega a proposito del disco Nicolas Godin. E' il caso di "Electronic Performers", manifesto programmatico dell'album, che inserisce arpeggi di chitarra su una solida base ritmica; di "Radio #1", esecuzione corale dal gusto vagamente kitsch ma intrigante all'eccesso, che vive di ritmiche tastiere e termina in un inaspettato tripudio percussivo. Ed è il caso soprattutto dei tre esperimenti finali: "Wonder Milky Bitch", "Don't Be Light" e la meno riuscita "Caramel Prisoner", che pulsano di elettronica attraversata da spruzzi nervosi e poi improvvisamente rilassati sul suono di chitarre arpeggiate con malizia, mischiano colonne sonore anni 70 e avanguardia, rock sinfonico e pop leggero con una disinvoltura forse eccessiva, ma comunque gradevole.
L'uso della tecnologia è dosato con intelligenza: l'elettronica, infatti, è inframmezzata da chitarre acustiche e archi. "L'album è una lettera d'amore alle nostre macchine - spiega Godin - Devi amarle per sapere davvero come usarle nel modo giusto".
Numerosi i contributi esterni, tra cui quello di Beck, che apporta il suo tocco di funky deviato in "The Vagabond". Da lodare infine lo sforzo produttivo e di messa a fuoco del suono operato dai due parigini: tutto in 10.000hz Legend è perfettamente rifinito e serio, a marcare un ulteriore elemento di distinzione rispetto ad analoghi gruppi che affrontano simili tematiche con più faciloneria.
Un disco che non rinnova i fasti del "safari lunare", insomma, ma che conferma il talento cristallino del duo. "La nostra musica è onirica, le nostre canzoni sono come sogni, vogliamo fuggire dalla realtà", raccontava agli esordi Jean Benoit Dunckel. Ora è invece Nicolas Godin a dare la misura del nuovo corso del duo parigino: "Siamo passati dalla fase onirica a quella del reale, dove i contorni delle cose si sono fatti più precisi". 

10.000 Hz Legend consolida la fama del gruppo anche al di fuori della cerchia musicale. Lo scrittore Alessandro Baricco, ad esempio, li ingaggia per musicare alcuni passi del libro "City". Ne scaturiscono un suggestivo spettacolo teatrale, in cui i landscape vellutati del duo francese donano nuove suggestioni alla narrazione, e un disco (City Reading) che suona però più velleitario che altro. 

Tokyo e fior di ciliegio

AirE nel segno di collaborazioni prestigiose nasce anche il nuovo lavoro in studio degli Air. Registrato tra Parigi e Los Angeles, Talkie Walkie (2004) reca le stimmate della produzione di Nigel Godrich (già al fianco di Radiohead e Beck), ma anche degli arrangiamenti orchestrali di Michel Colombier, celebre in Francia per aver lavorato a lungo con Serge Gainsbourg. Tutto è ancora più soffuso e dilatato: lo strumento-principe di questo nuovo corso è una sorta di "cantilena spaziale", che gli Air ci propinano soffusamente dalla prima traccia all'ultima.
Nell'iniziale "Venus", la voce dell'altro mondo è avvolta in un tappeto di sintetizzatori e circondata da piano, clap e una tastierina soft. Più suggestive, semmai, le atmosfere dream-pop della successiva "Cherry Blossom Girl", che è anche il singolo, con tanto di videoclip girato da un regista di film hard e dedicato alla pornostar americana Tracy Lords. Qui il gusto retrò prende il sopravvento, tra coretti leziosi alla Stereolab, una chitarra acustica, un flauto esotico, suoni sintetici d'antan e varie amenità, incluse voci campionate in stile Art of Noise.
Il gioco delle vocine in loop si rinnova nella successiva "Run", in cui vibrazioni elettriche e tastiere sempre più liquide assecondano una bella sovrapposizione vocale, che cita apertamente i 10cc della storica "I'm Not In Love". Il ticchettio straniante e vagamente industrial di "Universal Traveler" non basta a spezzare questa atmosfera rilassata da cocktail lounge al cognac, tra chitarre arpeggiate e cori femminili pruriginosi. Ma è semmai "Mike Mills" la vera impennata del disco, e non solo per la trovata del titolo, ispirato dal regista di video newyorkese che i due dividono con Beck e Beastie Boys: gli Air azzeccano una melodia di razza, maestosa e avvolgente, oltre a una sonata di piano che incrocia il minimalismo di Wim Mertens e i Sigur Rós più struggenti.
I Beach Boys si trasformano in astronauti nel midtempo di "Surfing On A Rocket", mentre "Another Day" è una "Sexy Boy" al ralenti. Quindi, c'è spazio per un motivetto da fischiettare ("Alpha Beta Gaga"), tra allegre mandolinate e gorgoglii elettronici, e per la discesa nella tetra vertigine di "Biological", con strali di Moog e un altro mandolino, stavolta più teso.
Il viaggio ci lascia soli a Kyoto, tra leggere brezze elettroniche, aromi orientali e scrosci di onde ("Alone In Kyoto", il bel brano presente nella colonna sonora del secondo film di Sofia Coppola, "Lost In Translation").

Talkie Walkie è un sottofondo ideale per viaggi notturni in auto o per incontri romantici. Un carillon fatato che nel complesso seduce, ma qualche volta gira a vuoto. Forse anche per questo, Jean-Benoit Dunckel si concede una divagazione solista, con il moniker Darkel, e ritrova il sodale Godin solo per comporre e produrre il delizioso "5:55" di Charlotte Gainsbourg.

La collezione d'affreschi pop di Darkel (2006) non può essere relegata alla voce manierismo, così come non è da annoverarsi fra le cosiddette svolte epocali. Jean Benoit, insomma, mostra di possederne d'idee, specie quando cerca di ritagliarsi un canzoniere il più possibile distante dell'ingombrante Air-style, per approdare felicemente a un soave pop anni 60. Vanno in questa direzione il delicato singolo "At The End Of The Sky" e la frizzante "My Own Sun", assimilabili più all'indie-pop trasognato degli Austin Lace che non ai rarefatti intrecci del più noto dei French touch. Intrecci che di contro riappaiono, invero appesantiti da cliché un po' abusati, nella salmodia floydiana di "Pearl", nel downtempo chill-out di "Bathroom Spirit" e nell'atmosferico brano per piano e sussurri "Some Men".
In mezzo ai due estremi, convivono ispirazioni attigue, ma mai esternate prima. È il caso dell'accattivante solennità di "Be My Friend", coi suoi fremiti gobliniani, dei contagiosi boogie elettronici "TV Destroy" e "Beautiful Woman", e del royksoppiano inno proto-ecologista "Earth". La perla nascosta è la struggente ninnananna "How Brave You Are" che, pur essendo con ogni evidenza scippata dal repertorio storico, mantiene intonsa anche la splendida innocenza dei tempi migliori.

Ormai ricercatissimi in tutto il mondo, gli Air si concedono persino lo sfizio di una compilation da cocktail lounge in cui rivisitano quattro decadi di musica pop condensati in 18 brani (Late Night Tales, 2006). Operazione tanto narcisista - sono francesi, dopo tutto, glielo si può concedere - quanto non priva di sorprese (tra queste, persino una sorprendente versione "soft" di "Planet Caravan" dei Black Sabbath!).

Una sinfonia tascabile

Dopo tre anni di sconfinamenti, Godin e Dunckel tornano alla casamadre Air per un nuovo, ambizioso progetto. Una "sinfonia tascabile", nata dalla frequentazione di mondi diversi: il Giappone e i compositori à-la Glass. Vale a dire scale di pianoforte che rubano piccoli spazi, innestandosi sul taglio electro-pop.
Pocket Symphony (2007) si innesta in modo concettualmente perfetto nella loro storia. Sia formalmente, sviluppando uno spunto, quello di "Alone In Kyoto", nel modo a loro più congeniale. Sia sostanzialmente, confermando la loro capacità di cesellare delicatessen in salsa pop.
Binari di piano e batteria elettronica fanno da sfondo al singolo "Once Upon a Time", suadente impasto pop-soul sussurrato da voci trattate e arrangiato soavemente (con sofisticate spolverate di fiati e cristalli). Equamente battuta è un'altra strada: strumentali (o semi-strumentali) in progressione armonica o in reiterazione di paesaggi sonori. Gli Air, però, riescono ancora a spiazzare. È il caso di "One Hell Of A Party", intensa emozione affidata alla voce di Jarvis Cocker: base sonora scheletrica (percussioni e qualche synth) ricoperta da un delicato rivestimento di strumentazione orientale. Ma è anche il caso di "Redhead Girl" e del suo soffice giro di piano, alternato ad eterei vocals. Spunti di livello possono assaporarsi poi in "Napalm Love" e nelle carezze melodiose di "Somewhere Between Waking And Sleeping" (con la complicità di Neil Hannon).
Ciò che resta è mestiere. Servito a volte con grande abilità, come in "Space Maker": bacchette, chitarre acustiche e synth a disegnare un paesaggio in evoluzione. Altre volte meno, come quando si indugia nella banale soluzione melodica di "Photograph", sospesa senza grande equilibrio fra inquietudine e dolcezza. Una sola volta in modo atipico, quando, in "Mer Du Japon", è preponderante la presenza di profumi Stereolab.

Forti di una classe superiore e di un’autorità morale ormai indiscussa sulle nuove generazioni electro/pop, Jean-Benoet Dunckel e Nicolas Godin si accingono a chiudere il loro secondo decennio con qualche ruggine sui loro Moog, ma con stampato sul volto il sorriso di chi ha vinto una scommessa, e delle più temerarie.
Potere del liquido amniotico...

Peccato, però, che Love 2 (2009) spezzi l'incantesimo, consegnandosi a un suono stereotipato e autoindulgente, da chill out fuori tempo massimo.
Autoprodotto dal duo francese, il disco è registrato nel loro Atlas Studio di Parigi, con gran dispiego di strumentazione analogica e il supporto del batterista Joey Waronker. Che manchino gli hit di "Moon Safari" si poteva intuire anche solo dai due singoli scelti ad anticipare l'album: lo sci-fi di "Do The Joy", col suo vocalizzo robotico avvolto in una melodia di synth da B-movie, e "Sing Sang Sung", ninnananna spaziale lontana anni luce dalla soave levità d'una "Kelly Watch The Stars".
Il resto dell'album non si discosta troppo da questa sofisticata vacuità. Prendiamo una "Love", ovvero il battito bossa-disco della "Rock Your Baby" di George McCrae anestetizzato tra sospiri zuccherosi da lounge-music, o la non meno convenzionale "So Light In Her Footfall", dove tra chitarre acide e synth retrò si inneggia all'Inghilterra con tanto di citazione dal "Canterville Ghost" di Oscar Wilde, nonché quello che forse è il numero più ambizioso del lotto: "Tropical Disease", quasi sette minuti di electro-psych-jazz da bicchiere di Bacardi, che assemblano sax, piano, xilofono e flauto, nonché uno dei più terribili versi mai sussurrati da Dunckel ("Woman/ Make me feel... warm inside"). E a riaccendere le luci delle lavalamp non bastano i tentativi di rinfrescare il sound con la wave sincopata di "Missing The Light Of The Day", la pulsazione afro-exotica di "Night Hunter" o i languori be-bop da club parigino di "African Velvet".
Va un po' meglio quando i due alzano il ritmo, come nel mantra kraut di "Be A Bee" - chitarre spaghetti-western e vocoder che ronza cupo tra i synth distorti, per un esperimento bislacco ma sicuramente apprezzabile - o nell'incalzante strumentale di "Eat My Beat", che pare uscito da un film di James Bond degli anni 60. "Heaven's Light", poi, sprigiona una melodia struggente, mentre un possente rullante prelude a un tripudio di tastiere, in una ideale ascensione verso la luce.
Non si può, tuttavia, non dimenticare i troppi passaggi a vuoto di un disco che si colloca al punto più basso della loro carriera stellare.

Ritorno sulla Luna

A distanza di tre anni, rieccoli in pista con Le Voyage Dans La Lune, lavoro basato sull'omonimo capolavoro del cineasta francese George Méliès e pensato come colonna sonora del film. Un passo in avanti rispetto al predecessore. Il senso di "sofisticata vacuità" che lasciava l'ascolto del disco, però, non si palesa in questo nuovo lavoro dei parigini dalla patinatura argentata. Il format più pop della loro musica, in questo lavoro, lascia strada e partitura più fluide, meno legate alla forma canzone e comunque alimentate delle dilatazioni sognanti tra la psichedelia e la cosmogonia che li hanno innalzati a divinità della scena electro-pop degli ultimi vent'anni.
Poco più di mezz'ora di una musica che, al solito, scivola via carezzevole tra synth dal gusto Eighties e paesaggi notturni fluttuanti. Il viaggio sulla Luna degli Air vede la luce con l'incedere pesante ed acidulo di "Astronomic Club", per decollare definitivamente nella collaborazione con Victoria Legrand, vocalist di quei Beach House che degli Air non possono che essere debitori. L'intermezzo al piano tipicamente Air "Retour Sur Terre" fa da ponte verso le patinature spaziali, anche queste fin troppo risentite nel corso della carriera dei parigini, di "Parade". Un'orchestrazione dark in slow motion avvolge il docile piano di "Moon Fever", prima che con "Sonic Armada" i nostri dissolvano la loro zuccherosità in una marcia psichedelica che sa quasi di math (!). La misteriosità tremolante delle Au Revoir Simone si presta alla perfezione per la sinistra "Who Am I Now?". Il morbido ponte "Decollage" fa da apripista al galoppo etereo "Cosmic Trip". Siamo alla fine del viaggio con la ballata sibillina "Lava".
Cesellature raffinate, ghirigori curatissimi, una produzione impeccabile. Gli Air danno nuovo sfoggio della loro classe cristallina. Talmente perfetta da risultare artefatta. D'altronde, si tratta di un viaggio sulla Luna, mica della Luna in sé, cosa volevate pretendere?

Nonostante l'ideazione ad uso museale (specificatamente per il Palais des Beaux-Arts di Lille), quella plasmata dal duo francese in Music For Museum è un'elettronica morbida che aderisce e poi scivola via da ogni contesto dove avvenga una qualche forma di sospensione temporale.
Un nuovo allunaggio ("Land Me") ci introduce con onirica delicatezza nelle sale di questo museo immaginario, seguito a ruota dall'evanescente Moog di "Reverse Bubble", che sparge soffioni acustici per tutta la stanza. "The Dream Of Yi" viaggia quasi sulle stesse frequenze di "Discreet Music" – semmai in una più accomodante formula bedroom-electronica – ma in altri episodi sembra risuonare anche l'idilliaco "Pavilion Of Dreams" di Harold Budd, con l'ausilio di vocalizzi senza parole ma solo, appunto, vocali melodiose.
Seguono "Angel Palace", una luminosa e illuminante meditazione alla Stars Of The Lid, e "Art Tatoo", quindici minuti di alienazione minimal-kraftwerkiana in forma di giocondo cortocircuito.
Nessun senso di colpa nel lasciare in sottofondo questa visita immaginaria. Ciò, tuttavia, senza sminuirne il valore musicale, oltre che "terapeutico": riconosciamo agli AIR il ruolo di custodi di una memoria rassicurante, di una quieta joie de vivre le cui fascinazioni più d'uno troverà essere innocue, ma che in fondo rappresentano l'essenza dei nostri (trascurabili?) momenti felici.

Nell'estate 2016, a venti anni esatti dalla pubblicazione del primo singolo "Casanova 70", Godin e Dunckel si cimentano nel loro primo lavoro antologico. Due Lp (in un'edizione limitata ce n'è anche un terzo contenente diversi remix) equamente distribuiti: nel primo i singolo "storici" della fucina di Versailles, nel secondo b-side, outtake da colonne sonore, inediti.
La scaletta del disco antologico tocca un po' tutti i capitoli in studio degli Air, con particolare predilezione per i primissimi album: "Moon Safari" (ben cinque canzoni, in pratica metà album), "Talkie Walkie", "10 000 Hz Legend", la soundtrack de "Il giardino delle vergini suicide". 
In quanto al secondo Lp, trovano posto alcuni featuring (con Jarvis Cocker e Charlotte Gainsbourg nella ballad "The Duelist", con Francoise Hardy nella splendida "Au Fond du Reve Doré"), brani inediti su album ma già impiegati come colonne sonore ("Adis Abebah"), versioni live, un ottimo remix di "Remember" firmato da David Whitaker e un paio di estratti da vecchie session ("Crickets" e "The Way You Look Tonight").

Nicolas Godin in libera uscita: da "Contrepoint" a "Concrete and Glass"

Nel settembre del 2015 scocca anche per l'altra metà degli Air, Nicolas Godin, l'ora di esordire in veste solista. Elaborato fin dal 2007, "Contrepoint" contiene otto tracce che, prendendo spunto da alcune composizione di Johann Sebastian Bach, e dalle relative riletture di Glenn Gould, si tuffano in territori retrofuturisti. Musica classica, rock, jazz, lounge, persino pattern latini si fondono e si danno il cambio tra le pieghe dell'album. La veloce parabola di "Orca" strizza l'occhio alle fughe bach-iane, mentre sul versante opposto "Elfe Man" contiene tracce morriconiane e sinfonie leggere. In "Widerstehe doch der Sunde" si rinnova la collaborazione con Thomas Mars dei Phoenix, mentre "Quei Due", con voce recitante in italiano, è un aperto omaggio a Gainsbourg su testo scritto per l'occasione da Alessandro Baricco. Lo spin-off di Godin dagli Air assomiglia a un esercizio di stile nel quale la musica colta è spogliata di ogni manierismo e assoggettata a uno sguardo (post)moderno, un capitolo volutamente lontano dalle logiche dell'industria musicale - o di ciò che ne rimane. 

L'estate del 2018 vede Godin impegnato nella colonna sonora della seconda stagione di "Au Service de la France". Il compositore di Versailles si cimenta in una soundtrack che mescola la tradizione francese, nelle sue varie sfumature (la chanson, il beat, il french touch), con sonorità jazz e world. L'immaginario, in particolare, risulta inedito al Nostro, per quanto vicino a livello culturale e ambientale: un tappeto sonoro per spy stories che rimandano sì al genere poliziesco, ma con una spiccata connotazione francese, tra rimandi inevitabili alla Pantera Rosa di Peter Sellers ("Dans la Brume" è molto più di un semplice omaggio) fino a tuffi plastici nella chanson del Dopoguerra. C'è infatti tutto un immaginario da Costa Azzurra nei languori balneari di "Clayborn" o nel sixties beat di "Twist à Saint Germain", con una "Les Rues de Paris" che si assesta tra i vicoli di Montmartre nel fraseggio melanconico e popolare di chitarre e fisarmonica, impersonando un altro omaggio alla tradizione filtrato attraverso l'ormai imprescindibile lezione di Yann Tiersen. La breve durata dei brani (sedici, per un totale di quaranta minuti) li fa apparire più come sketch che alla stregua di una canonica colonna sonora, con i limiti e i vantaggi che tutto ciò può comportare. E per quanto "Au service de la France" abbia tutta l'aria di una parentesi all'interno di un cammino appena intrapreso, per Godin rischia di rappresentare la chiave di accesso verso nuove avventure. In tuta spaziale o in smoking, in fondo che importa?

Il gennaio del 2020 vede Godin tornare sui suoi passi, a livello artistico e concettuale. Il terzo album solista si intitola Concrete And Glass, letteralmente calcestruzzo e vetro. Elementi primari, senz'altro fondamentali per costruire un edificio moderno, in grado non solo di stare in piedi, ma anche di fornire una permanenza piacevole e dotata di ogni comfort. Che è esattamente ciò che si prefigge Godin in questo terzo lavoro in studio, il più prossimo a livello di sound al ventennio di scorribande spaziali con gli Air. In tutto: nei suoni sintetici, nel retrofuturismo che si insinua in apparente assenza di gravità nella struttura delle canzoni, nel mood sottilmente introspettivo e malinconico che permea il tutto a mo' di marchio di fabbrica. Con in aggiunta, osiamo dire, la capacità più unica che rara di stemperare la componente intellettuale in atmosfere pop leggere e assolutamente sostenibili. 

Quello di "Concrete And Glass" è dunque un Nicolas Godin al meglio - o quasi - delle possibilità, un architetto di suoni in grado di realizzare spazi ariosi, confortevoli, contraddistinti da colori caldi. Caratteristiche che calzano a pennello a canzoni come "The Foundation" (ispirato al Case Study House #21 di Pier Konig) e ancora più alla gemma "The Border", un brano che rimanda ai migliori album scritti a quattro mani con Jean-Benoit Dunckel. Un leitmotiv del disco è la presenza di featuring, pressoché sempre azzeccati, come nei casi della eterea "We Forgot Love" con Kadhja Bonet alla voce, di "Time Is On My Hands" con l'australiano Kirin J Callinan al microfono e alla chitarra, della sofisticata "Catch Yourself Falling" con Alexis Taylor degli Hot Chip a metterci il timbro. L'alternativa è fornita dal ricorso al vecchio e caro vocoder ("Concrete And Glass", "What Makes Me Think About You"), un altro degli elementi caratterizzanti di quel french touch che Godin in prima persona ha concorso a plasmare e incastonare nell'immaginario collettivo. 

"Cité radieuse" chiude i giochi in stratificazioni sintetiche che si esauriscono nelle venature jazz del sax, come un avamposto futuristico che non può fare a meno di ritornare sui propri passi. Che è un po' quello che Nicolas Godin da sempre traduce in musica: la tentazione di andare avanti, sempre, senza rinunciare a guardarsi indietro, e attorno. Retrofuturismo per palati fini.

Nel giugno 2022 anche Jean-Benoît Dunckel giunge alla pubblicazione di un disco solista, il terzo dopo Darkel del 2006 e H+ del 2018, intitolato Carbon.

JB Dunckel è degli Air la mente, per così dire, più sofisticata, quella che ha fornito alle loro peculiari composizioni elettroniche quel tocco elegante che ha costituito il trait d'union tra visioni retrò e languori futuristici, amalgamati in un coacervo di sensazioni psichedeliche, carezzevoli vocalità e quel dannato e inequivocabile french touch. In "Carbon" è di casa il lussurioso groove à-la Moon Safari carico di sintetizzatori, archi, clavicembali e vocoder ("Zombie Park", "Sex UFO" e "Space", quest'ultima con il featuring di Heather D'Angelo delle Au Revoir Simone), ma c'è anche la forte influenza del kraut-rock dei Neu! ("Corporate Sunset") o quello più techno-dance dei Kraftwerk ("Dare") ed è possessore di un quantitativo consistente di contenuti lirici, ben più di quanto ci si possa aspettare dal coautore di successi magnetici come "Sexy Boy".

È palese come Carbon non abbia la caratura per aggiungere alcunché di straordinario all'insigne bacheca di JB Dunckel e che non sia un prodotto di massa dotato di prestante attrazione, ma non erano certamente questi i propositi principali previsti del talentuoso musicista di Versailles. Piuttosto, è la sana dimostrazione della classe e della proverbiale raffinatezza di uno dei cervelli della formazione elettropop transalpina e forse la testimonianza più chiara di chi sia il principale generatore delle particolari sonorità gustate nel corso della loro epoca d’oro.

Nel gennaio del 2024 JB Dunckel si ripresenta sulle scene con Paranormal Musicality, un album composto da 18 improvvisazioni di solo pianoforte.
Se in “Carbon” l’ambientazione era quella sintetica e spaziale delle origini, “Paranormal Musicality” torna alla radice di tutto, al minimo comune denominatore, al primo amore: il pianoforte.

 Al di là di un titolo piuttosto roboante, infatti, l’opera seconda del parigino è una lunga teoria di improvvisazioni ai tasti (18 i brani, un’ora la durata complessiva) senza aggiunta alcuna. Una riduzione ai minimi termini che la copertina, al solito minimale e virata su tonalità bianche e nere, ben sintetizza tramite uno scatto al carboncino del Nostro, di bianco vestito e scalzo, impegnato a tenere a bada un pianoforte dalla forma sinuosa.

 

Fughe, fraseggi, momenti estatici si alternano in questa scaletta di brani che sgorgano dalle mani di Dunckel, mai così dedito a mostrare il suo lato più malinconico ed emozionale, nel quale è necessario a nostra volta entrare in punta di piedi, lasciando fluire le note che si inseguono. Un repertorio, dunque, che va preso per quello che è, nella implicita natura di improvvisazioni messe nere su bianco che magari non sempre colpiscono per l’espressività del risultato, ma riescono a raggiungere talvolta risultati significativi (“Playjoy”, “Égérie”, “Melo Walk”, “Sun Stone”…), stagliandosi rispetto al contesto.


Contributi di Rudie/Aktivirus ("10.000 Hz Legend"), Marco Bercella ("Darkel"), Ciro Frattini ("Pocket Symphony"), Marco Pagliariccio ("Le Voyage Dans La Lune"), Michele Palozzo ("Music For Museum"), Fabio Guastalla ("Contrepoint", "Twentyears", "Au Service de la France", "Concrete and Glass", "Paranormal Musicality"), Cristiano Orlando ("Carbon").

Air

Discografia

AIR
Moon Safari (Astralwerks, 1998)

8

Premiers Symptomes (Astralwerks, 1999)

6,5

The Virgin Suicides (Astralwerks, 2000)

8

10.000 Hz Legend (Astralwerks, 2001)

6,5

Everybody Hertz (remix, Astralwerks, 2002)
City Reading (Tre storie western) (Astralwerks, 2003)

5

Talkie Walkie (Astralwerks, 2004)

7

Late Night Tales (Azuli / Audioglobe, 2006)
Pocket Symphony (Astralwerks, 2007)

6,5

Love 2 (Emi, 2009)

5,5

Le Voyage Dans La Lune (Astralwerks, 2012)

6

Music For Museum (The Vinyl Factory, 2014)

6,5
Antologie
Twentyears (Aircheology / Parlophone, 2016)7
DARKEL
Darkel (Source, 2006)

6,5

NICOLAS GODIN
Contrepoint(Because, 2015)6,5
Au service de la France Ost (Because, 2018)6,5
Concrete and Glass(Because, 2020)7
JEAN-BENOIT DUNCKEL
H+ (Sony/Prototyp, 2018)
Carbon (Prototyp, 2022)6,5
Paranormal Musicality(Warner Classics, 2024)6
Pietra miliare
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