La psichedelia americana - Un sogno lisergico a stelle e strisce
Eravamo giovani, avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione!
(Abbie Hoffman)
Il termine “psichedelia” deriva dall’unione di due parole greche - psykhé (anima) e dêlos (chiaro, evidente) - e nasce con il significato di "allargamento della coscienza", ovvero rendere chiaro ed evidente ciò la nostra mente, in condizioni normali, non riuscirebbe a comprendere. La grande stagione del rock psichedelico vede la sua alba negli anni 60, un periodo storico articolato e multiforme che coinvolge diversi fattori sociali e politici, oltre che culturali e musicali. Il rock psichedelico potrebbe essere definito come una piccola ma significativa parte di quel travolgente movimento controculturale giovanile che, nato negli Stati Uniti e influenzato da vari elementi del mondo orientale, si è diffuso poi in gran parte del continente occidentale. La psichedelia rappresenta uno degli aspetti di quella generazione, forse la più rivoluzionaria e la più incompresa, quella che che ha portato alle estreme conseguenze le idee del pacifismo e della libertà individuale. Una generazione che, con il suo un forte sentimento comunitario, è riuscita a far tremare le istituzioni e la borghesia meno aperta ai cambiamenti, partendo paradossalmente dal docile mantra del peace & love.
A livello musicale, l’esperienza psichedelica rende necessario il superamento del formato radiofonico classico dei 3-4 minuti. La causa è da ricercarsi soprattutto nell'importanza dell’esperienza live e nella ricerca - quasi utopica - di trasferire le sensazioni di un concerto dal grande trasporto emotivo-sensoriale in un “banale” supporto fisico. La diffusione di questi album è di fondamentale importanza: oggi possiamo trovare tracce psichedeliche ovunque nel mercato discografico. Ma non solo, dentro quei suoni è possibile riscontrare i primi semi del rock progressivo, dell’hard-rock, della musica cosmica, del glam-rock e, perché no, anche dell’outsider music e del filone lo-fi. Ma la musica psichedelica, oltre a rompere barriere sonore, ha anche saputo unire gli Usa divisi da una guerra mal sopportata. È sintomatico che quasi tutti gli stati americani ne siano coinvolti, plasmando modi di intendere la psichedelia totalmente diversi tra loro, seppur tutti accumunati da un interesse diffuso verso la Gesamtkunstwerk, ovvero l'unione totale delle arti.
Ero interessato alla scrittura, ero interessato al cinema, ero interessato a qualunque cosa.
(Mayo Thompson, Red Crayola)
Si va dalla San Francisco dei trip iper-dilatati dei Grateful Dead o del comunitarismo dei Jefferson Airplane, al legame con l’oriente dei Kaleidoscope, al tenebroso folk antimilitarista dei Pearls Before Swine, alla Los Angeles della poesia lisergica dei Doors, passando per la New York alienata dei Velvet Underground, al virtusiosmo psicotico di Jimi Hendrix, al primitivismo dei Cromagnon, fino all’avanguardia texana dei Red Crayola. Ma le esperienze sono così varie e multicolori che elencarle tutte si rivelerebbe un’impresa titanica. È importante però sottolineare come il viaggio psichedelico abbia in comune il voler rompere ogni sorta di barriera: da una parte la voce stessa diventa strumento (Tim Buckley), dall'altra la cultura orientale si rivela uno dei mezzi fondamentali per ampliare i propri orizzonti strumentali (l’uso diffuso del sitar).
Se tutto nasce dal blues (pensiamo, ad esempio, al caso di Janis Joplin), il fenomeno psichedelico avanza per esplodere con nuove idee ed espandersi senza una meta verso l’ignoto, includendo dentro di sé sia le esperienze del passato (non solo blues, ma anche folk, country, rock’n’roll, jazz), sia i pionieristici viaggi cosmici di Sun Ra che l’avanguardia di Karlheinz Stockhausen (Jerry Garcia, Phil Lesh dei Grateful Dead e Grace Slick dei Jefferson Airplane partecipano ai suoi corsi in California), aspirando a percezioni totalmente inedite, che riflettono lo spirito dei suoi creatori. Per chi volesse approfondire consigliamo l’ascolto delle leggendarie compilation in serie "Nuggets” e "Pebbles", oggetti imprescindibili per ogni cultore della musica psych-garage, capaci di proiettare efficacemente tutto il caleidoscopio sonoro dell’epoca.
Sembra che recentemente molti musicisti pop ammettano di aver imparato molto dal mio lavoro perché sono molto interessati alla musica elettronica e al suono elettronico. Molti di loro sono stati i miei studenti, in America alcuni musicisti dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane hanno frequentato i miei corsi di composizione a Davis, in California, nel 1966-67.
(Karlheinz Stockhausen)
I semi della controcultura giovanile americana degli anni Sessanta iniziano a svilupparsi nel decennio precedente. Sono probabilmente gli scrittori della Beat Generation a fare entrare nell’immaginario collettivo pensieri e idee fino ad allora non emersi nella coscienza individuale, spalancando le porte verso un modo di vivere alternativo alle regole imposte. Se la generazione passata aveva sconfitto Hitler e pensava di aver creato il migliore dei mondi possibili (democratico, ultra-capitalista, con valori ancora tradizionali legati a famiglia e religione), la nuova leva cerca nuove strade; se il giovane statunitense degli anni Cinquanta è convinto di realizzare la propria felicità nel classico dei sogni americani (bella auto, moglie carina e devota, figli obbedienti, villetta e cane in giardino), il ragazzo degli anni Sessanta inizia a capire quanto di illusorio vi sia in questa falsa percezione della realtà. Il giovane degli anni Sessanta comprende quanto la patria della democrazia neghi i più elementari diritti, persino quello di portare i capelli lunghi; di conseguenza, sfida la falsa moralità dei propri padri che hanno creduto che il benessere economico andasse di pari passo con la felicità e con la libertà. Capiscono la differenza che passa tra il sentirsi liberi ed esserlo davvero, comprendono quanto la vera libertà faccia paura.
Che c'è di male nella libertà? La libertà è tutto.
Ah sì, è vero: la libertà è tutto, d'accordo... Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.
(Dialogo tra Billy - Dennis Hopper - e George Hanson - Jack Nicholson - nel film “Easy Rider”)
Il superamento del passato e il conseguente metaforico “omicidio” del padre e della madre (intesi come testimoni di un passato ultraconservatore da abbattere) diventano un fondamento del pensiero della generazione hippie. Non è un caso che il libro di Jerry Rubin “Quinto: uccidi il padre e la madre” sia oggi una sorta di manuale postumo indispensabile per capire gli eventi di cui stiamo parlando, e non è solo per licenza poetica che Jim Morrison nel brano capolavoro “The End” invochi l’assassinio del padre e lo "stupro" della madre.
Non fidarti mai di nessuno oltre i trenta.
(Jerry Rubin)
Come la più raffinata delle rivoluzioni, quella della Beat Generation nasce negli ambienti ufficiali e, più precisamente, in quelli accademici della Columbia University, dove hanno luogo i primi vagiti di un movimento pronto a espandere in modo rapidissimo i propri confini, ma altrettanto veloce a esaurirli. Le idee centrali della cultura Beat sono fondamentalmente gli stessi di quella generazione che dà vita al movimento hippie, che partecipa alla contestazione giovanile contro la guerra del Vietnam e che è protagonista della Summer Of Love; l’ampliamento delle percezioni sensoriali con l’uso di alcuni tipi di droghe, la critica a un modello di società ritenuta ormai superata ed eccessivamente tradizionalista, la sessualità vissuta in modo libero senza antichi moralismi (fondamentale in tal senso fu la poesia di Lenore Kandel), uno spirito comunitario e solidale che vede come restrittivo il classico modello della famiglia, l’avversione al consumismo e al capitalismo, il rifiuto assoluto della guerra, l'interesse per la religione e per la filosofia orientale. Quest’ultima, in particolare, viene percepita come una visione del mondo alternativa al modello capitalistico ma, allo stesso tempo, si tiene ben lontana dall’ideologia marxista.
Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare.
(Jack Kerouac)
Gli autori principali della Beat Generation sono Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady e Lucien Carr. È da loro che prende il via un nuovo rinascimento culturale che trova casa nella città San Francisco e, con precisione, nello storico quartiere di Haight Ashbury, luogo principale dei ritrovi di quei giovani che il giornalista Michael Fallon descrive come “dai capelli lunghi, vestiti in modo bizzarro, ascoltatori di musica rock e dediti alle droghe psichedeliche” e che battezza con la parola “hippie”. Ma la letteratura senza altri elementi non poteva bastare a far scaturire una rivoluzione culturale tanto espansiva: e infatti con ogni probabilità senza due personaggi come Albert Hofmann e Timothy Leary il movimento avrebbe avuto una storia ben più breve.
Invece di sprecare tutte queste energie e sforzi diretti a far guerra alle droghe, perché non si presta attenzione a droghe che possano porre fine alla guerra?
(Albert Hofmann)
All’inizio degli anni Sessanta, dopo aver sperimentato alcune nuove droghe in Messico, il professore Timothy Leary torna a Harvard a condurre esperimenti con la psilocibina, un principio attivo dei funghi il cui uso era consentito per fini di ricerca. Assieme al collega Richard Alpert avvia un progetto con l’obiettivo di documentare gli effetti di questa sostanza sulla coscienza umana, somministrandola a soggetti volontari e registrandone l'esperienza in tempo reale. All'epoca della ricerca di Leary e Alpert a Harvard, nulla di tutto ciò era illegale: sintetizzato per la prima volta nel 1938 a Basilea, in Svizzera, dal chimico Albert Hofmann mentre cercava uno stimolante della circolazione sanguigna, l'Lsd possedeva effetti allucinogeni, rimasti però sconosciuti fino al 1943, quando Hofmann consumò accidentalmente una porzione. Dopo questa scoperta, in ambito psichiatrico l'Lsd viene usato per altri vent’anni e i campioni gratuiti forniti dalla Sandoz Pharmaceuticals trovano una distribuzione capillare in tutto il territorio americano. Lo scandalo sopraggiunge nel 1962, quando vari membri della prestigiosa università di Harvard iniziano a preoccuparsi per i metodi di ricerca di Leary e Alpert, nonché del loro atteggiamento disinvolto e poco ortodosso nel reclutare i soggetti per i loro esperimenti. A essere messo in discussione è non solo il loro metodo scientifico ma soprattutto la loro promozione della droga per uso voluttuario. Un anno più tardi, entrambi vengono licenziati e banditi dal mondo accademico, trovando nel contempo la consacrazione come icone della controcultura. Lo slogan di Leary - "Tune in, Turn On, Drop Out" - si evolverà in breve tempo in un autentico mantra per tutti i sostenitori delle droghe psichedeliche.
I prodotti psichedelici hanno tre effetti collaterali. Il primo è un incremento della memoria di lungo termine, il secondo è una diminuzione della memoria di breve termine, il terzo... il terzo l'ho dimenticato. (Timothy Leary)
Le critiche piovono da ogni parte del mondo. Innanzitutto ricordiamo quella di Richard Nixon, che rinomina Leary "l'uomo più pericoloso d'America" dopo la sua fuga dalla prigione. Nel 1970, infatti, Leary ha la malaugurata idea di candidarsi come governatore della California: un’aspirazione politica che muore sul nascere quando viene arrestato per possesso di marijuana e condannato a dieci anni di prigione. L'ex-professore riesce tuttavia a evadere con l'aiuto di alcuni militanti, salvo poi essere rispedito in carcere nel 1973, prima di essere rilasciato dopo tre calendari grazie a un decreto governativo. Il resto è storia: Timothy Leary non riusciranno mai a farlo fuori, tanto che lo rivedremo negli anni Novanta intento persino a creare una serie di videogame e filmare in diretta la propria morte.
Negli anni successivi alla “predica” lisergica dell'indistruttibile Timothy Leary, San Francisco diventa la patria dell’Lsd. In quei giorni lo scrittore Ken Kesey, che ha da poco pubblicato il suo libro “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, arriva ad acquistare una grande fattoria dove organizza i primi acid-test. L'idea balza alla mente di Kesey nel 1960, dopo la sua esperienza come soggetto volontario di un test militare da parte della Cia (il cosiddetto Progetto MKUltra, tenutosi al Veterans Hospital di Menlo Park, in cui si sperimentavano gli effetti di alcuni farmaci psicotomimetici). In quei giorni, Kesey ruba l'Lsd e invita gli amici a provarlo con lui. Fino a quel momento tutto rimane privato ma nel 1963 lo scrittore comincia ad allestire degli eventi speciali iniziando dalla sua villa nel verde a La Honda, in California. Sempre presente è la musica dei Grateful Dead, che abbandonano il nome di Warlocks debuttando con la nuova sigla proprio in una delle feste di Kesey.
Durante questi happening, gli ospiti pagano un dollaro per ingerire della Kool-Aid corretta con Lsd e trascorrono la notte tra musica e luci stroboscopiche. Nell’elenco degli ospiti trovano spesso spazio gli Hell's Angels e, soprattutto, due beatnik come Allen Ginsberg e Neal Cassady. Proprio l’amico di Jack Kerouac diviene la guida del nuovo progetto di Kesey, probabilmente ispirato dal romanzo “On The Road”. Lo scrittore infatti acquista un dismesso autobus scolastico per rendere itineranti i suoi esperimenti. Parte quindi con tredici dei suoi amici, ribattezzati come "Merry Pranksters", alla volta di New York. Lo scopo ufficiale del viaggio è quello di promuovere il secondo romanzo dello scrittore, “Sometimes A Great Notion”, ma la vera destinazione del bus è un'altra: andare oltre, "Further", come era stato soprannominato il loro mezzo di trasporto. I Merry Pranksters organizzano feste mobili in tutto il paese, invitando le persone a provare l'Lsd e "laurearsi" in quello che consideravano un modo di pensare superiore. Persino il loro motto diventa leggenda: "You're either on the bus or off the bus” (“Sei sull’autobus o giù dall’autobus”). Il loro viaggio viene raccontato dall'autore Tom Wolfe nelle pagine del suo libro "The Electric Kool-Aid Acid Test" (1968).
L’influenza di Kesey e Leary è talmente vasta che l’improbabile duo composto dall'hippie Nicholas Sand e dal chimico Tim Scully inizia in questo periodo a studiare freneticamente la formula più pura di Lsd mai creata fino ad allora.
L'Lsd diviene illegale solo nel 1967 e, un anno prima, Kesey viene arrestato per possesso di marijuana; al fine di evitare guai, finge il proprio suicidio e fugge in clandestinità in Messico, per poi rientrare poco dopo negando tutto ciò che era successo. Mentre Kesey sconta la sua pena, le attività dei Pranksters e il successo del libro di Wolfe portano a una elevata apparizione di autobus nell'immaginario musical-popolare: si pensi ad esempio al Magical Mystery Tour dei Beatles e alla canzone "Magic Bus" degli Who. Viceversa, gli Stati Uniti non riescono invece a fermare un fenomeno in piena espansione, tanto che, nel frattempo, il movimento psichedelico converge definitivamente sulla sua capitale: Haight-Ashbury, San Francisco.
Un’evoluzione continua e la lenta fine
In questo substrato culturale nascono i primi album che verranno definiti psichedelici. È un continuo svilupparsi di idee che si sovrappongono tra loro, un influenzarsi vicendevolmente che comprende altre arti, quali cinema, pittura e fotografia. Il fenomeno si espande in tutti gli Stati Uniti, poi in Europa e in tutto il mondo. Le aree centrali sono fondamentalmente tre; due sono ovvie e sono San Francisco - la città perfetta per motivi culturali, climatici e geografici per essere la sede del movimento, tanto centrale la sua importanza da far diventare la vicina scena di Los Angeles collaterale; la seconda è New York che - seppur lontanissima dalla cultura hippie di San Francisco - rappresenta un tale melting pot culturale che la pone come centro di riferimento mondiale per la musica d’avanguardia e per le nuove forme di arte visiva.
Da questa dicotomia nascono due modi totalmente diversi di intendere la psichedelia: aggregante e comunitaria quella delle band californiana di San Francisco e Los Angeles come Jefferson Airplane, Doors, Grateful Dead o Quicksilver Messenger Service (figlia dell’Lsd), alienata e individualista quella della New York dei Velvet Underground (figlia dell’eroina). La terza è la più inattesa e scaturisce nel Texas conservatore che, con un clamoroso riscatto della periferia, dà vita ai Red Crayola - una delle band più rivoluzionarie della storia del rock - e addirittura al primo Lp psichedelico, “The Psychedelic Sound” dei 13th Floor Elevator, che nell’ottobre 1966 sono i primi a utilizzare la parola psichedelico nel titolo dell’album; a loro replicano a novembre i Blues Magoos con “Psychedelic Lollipop”.
Ma se il Texas ha questo inatteso primato, le acque si sono mosse già da prima. I Warlocks (i futuri Grateful Dead) nel 1965 iniziano i loro acid-test con interminabili esecuzioni live che diventano dei manuali d’istruzione per qualsiasi musicista voglia far parte della scena di San Francisco.
Da qui è un continuo susseguirsi di eventi. Sempre nel 1965 gli Holy Modal Rounders e poi i Fugs cominciano la loro opera rivoluzionaria di destrutturazione inventando l’acid-folk, proprio mentre i Charlatans nel Nevada inaugurano la lunga tradizione dei poster psichedelici. Nel 1966 Frank Zappa esordisce con “Freak Out!” (secondo doppio Lp della storia dopo “Blonde On Blonde” di Bob Dylan pubblicato appena un mese prima), capolavoro freak ma influenzato dalla scena psichedelica. I Byrds pubblicano “Fifth Dimension” (1966) che coniuga folk, psichedelia e raga. I Jefferson Airplane debuttano con “Take Off” (1967), i Red Crayola con “The Parable Of Arable Land” (1967), i Velvet Underground con “Velvet Underground And Nico” (1967). I Grateful Dead fanno più fatica a contenere - sia nel formato 45 giri sia 33 giri - la sensazione inarrivabile dei loro acid-test. Sono fondamentalmente i primi a stravolgere del tutto il formato radiofonico classico. In loro è chiaro come l’esperienza psichedelica debba essere vissuta essenzialmente dal vivo, tanto è vero che “Anthem Of The Sun” (1968) fonde esibizioni live e di studio e il loro Lp migliore è il fenomenale live “Live/Dead” (1969). Iniziano in quei giorni le prime influenze dell’avanguardia; i Red Crayola fanno largo uso di rumori e musica concreta, i Velvet Underground sperimentano, grazie alla viola di John Cale, il minimalismo newyorkese di LaMonte Young, i Jefferson Airplane in “After Bathing At Baxter's” (1967) deformano a modo loro il formato radiofonico e giocano con effetti e sovraincisioni in studio.
Il 1967 è l’anno per antonomasia della Summer Of Love, battezzato a gennaio con il raduno al Golden Gate Park (lo "Human Be-In") e la nascita del gruppo dei Diggers, collettivo anarchico che si dedica al teatro di strada e alla distribuzione gratuita di cibo e assistenza medica, tra le cui fila spicca come leader la poetessa femminista Lenore Kandel. Il climax arriva però a giugno con il grandioso Festival di Monterey a cui partecipano oltre duecentomila persone, metà dei quali ha un’età compresa tra i sedici e i venticinque anni; sembra quasi che questa sia la prima generazione di giovani pronta e unita per cambiare il mondo. Il Festival è un successo clamoroso, Jimi Hendrix brucia la sua chitarra con una tanica di benzina mandando in visibilio il pubblico. Dopo questo vertice assoluto, però, inizia rapidamente la decadenza. La polizia, la politica e i conservatori iniziano a guardare con sospetto e preoccupazione questa nuova generazione che cerca di liberarsi del proprio passato per immaginare un mondo nuovo. Il 27 settembre un poliziotto uccide un ragazzo nero causando una rivolta che dura una settimana. Gli scontri e le perquisizioni sono sempre più frequenti e violente. I media si occupano freneticamente del fenomeno tanto che gli hippie più integralisti sospettano che le loro idee possano essere manipolate da giornalisti e politici. Il 6 ottobre nelle strade di San Francisco viene inscenata una performance chiamata “Death of the Hippies”, una parodia di una marcia funebre che simula il funerale della controcultura fagocitata dal mercato.
È l’inizio di un lento declino: la cultura comunitaria e pacifista diventa sempre più individualista e violenta, al pacifismo si sostituisce la rabbia per la guerra del Vietnam e una parte del movimento crede che solo con la violenza si possa fermare il conflitto. Anche l'Lsd cede spazio alle nuove droghe: anfetamina, eroina, cocaina. Dalla decisa opposizione alla guerra del Vietnam nasce la manifestazione di protesta al Pentagono del 21 ottobre, dove i Fugs si eseguono in un loro personale esorcismo.
Nell’agosto del 1968, Jerry Rubin e Abbie Hoffman organizzano - in contemporanea alla Convention dei democratici a Chicago - il Festival Of Life che ha come idea centrale l’opposizione alla guerra: vi suona anche il cantutore Phil Ochs, sbeffeggiando le autorità con il suo proclama "The War Is Over". I politici conservatori vanno a nozze e, approfittando del lutto per le migliaia di soldati americano deceduti, accusano il movimento di antipatriottismo e chiedono agli americani di scegliere tra polizia e manifestanti: la maggioranza starà dalla parte delle istituzioni, appoggiando la violenza di quei giorni.
Nell’agosto 1969 si svolge lo storico Festival di Woodstock che diventa il canto del cigno di una stagione. È una festa immensa ma ormai la sensazione è che le prospettive del movimento siano finite. L’album che meglio racchiude gli ideali hippie di questi anni è certamente “Volunteers” (1969) dei Jefferson Airplane, perfetto esempio di vertice che preannuncia l’imminente discesa della parabola. Il Festival di Almond del 6 dicembre 1969 con l’omicidio di Meredith Hunter, il giovanissimo afroamericano accoltellato a morte dagli Hell's Angels, rappresenta la fine ingloriosa della stagione hippie.
Se volessimo trovare un album che rappresenta l’epitaffio finale potremmo trovarlo certamente nel capolavoro dell’ex-Byrds David Crosby, che nel 1971 fa il suo esordio da solista con “If I Could Only Remember My Name”, Lp che rappresenta il tramonto (ripreso anche nella cover) di un’intera stagione; non a caso partecipano alla sua realizzazione gran parte dei musicisti della West Coast (Graham Nash, Grateful Dead, Jefferson Airplane, oltre ai canadesi Joni Mitchell e Neil Young). La musica psichedelica viceversa invade il mondo, ma le sue motivazioni saranno ben diverse da quelle della sua gloriosa origine: rimane l’estetica, ma il contenuto sociale ormai è disperso assieme all'utopia del cambiamento.
La fine del movimento e i film cult
La fine del “sogno lisergico” ha trovato nel cinema uno dei suoi principali mezzi espressivi. Essendo un fenomeno artistico complesso, comprendente pittura, arti visuali, fotografia e teatro, non poteva trovare nella musica il solo mezzo per promuovere la propria visione del mondo e la propria diversità. Sono tantissimi i film dell’epoca che celebrano l’importanza dell’utopia hippie e che ne rappresentano anche il canto del cigno, in modo potente e visionario. Il più celebre e significativo resta il leggendario “Easy Rider - Libertà e paura” (1969), perfetta descrizione dei motivi della disillusione hippie. Si passa dai film più politici come “Fragole e sangue” (1970), “Medium Cool” (1969) e “Wild in the Streets” (1968), a quelli più incentrati sull’esperienza psichedelica come “Riot On Sunset Strip” (1967), “The Trip” (1967), “The Love-Ins” (1967) e “Psych Out” (1968), fino ai documentari “Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica”. Tra questi c’è da segnalare “Harold And Maude” (1971) col meritatissimo premio Oscar dato a Ruth Gordon per l’interpretazione di Maude; una pellicola che, vista in modo allegorico, è una perfetta metafora del conflitto generazionale tra i giovani degli anni 60 e la generazione di americani figli del benessere post-Seconda guerra mondiale.
La scena di San Francisco
La scena di San Francisco è quella tipicamente hippie, essendo stata la patria di elezione di tutto il movimento. La quantità di band che, nella seconda metà degli anni Sessanta, sono nate o si sono affermate nel distretto di Haight Ashbury è impressionante. Le formazioni principali, vere leggende della psichedelia mondiale, sono però i Jefferson Airplane e i Grateful Dead, tanto influenti da dar spunto e idee a una miriade di gruppi di San Francisco e oltre.
Siamo di San Francisco, dove c'è nebbia e Dio non può vedere quello che stai facendo.
(Marty Balin)
I Jefferson Airplane sono, insieme ai Grateful Dead, il gruppo simbolo della scena di San Francisco. Nessun altro è riuscito a incarnare in modo tanto autorevole e sincero un movimento, un’idea, addirittura una generazione intera. In pratica da “Surrealistic Pillow” (1967) fino a “Volunteers” (1969), la storia della Bay Area, del movimento hippie, della controcultura si è legato in modo apparentemente indissolubile a quella dei Jefferson Airplane; tanto forte il legame che, finita la storia di uno, finisce anche quella dell’altro. Dopo il 1969, infatti, terminata la “splendida illusione” - la cui fine potremmo idealmente datare con il 6 Dicembre 1969, data del tragico Altamont Free Concert - finisce anche la storia dei Jefferson Airplane che, pur passando – negli anni successivi – da aeroplano ad astronave con i Jefferson Starship, voleranno molto più basso.
La musica e la storia dei Jefferson Airplane hanno caratteristiche uniche. Il legame con le classiche origini folk-blues-rock resta sempre fortissimo; molto più forte di vari gruppi a loro contemporanei. Ad esempio – nello stesso anno – i Red Crayola con “The Parable Of Arable Land” (1967) scardinano il classico formato-canzone e quasi rinnegato le origini blues; Frank Zappa – addirittura un anno prima – con “Freak Out!” (1966) ha prodotto un album tanto originale da sembrare venuto fuori dal nulla in quanto a difficoltà di accostamento con quanto prodotto prima del 1966; i Grateful Dead prolungano a dismisura la durata dei singoli brani. Se si pensa a tutto questo, i Jefferson Airplane non possono essere assolutamente considerati pionieri della sperimentazione. In loro il formato-canzone non viene quasi mai rinnegato né superato (tranne che in “After Bathing At Baxter’s”), il ritornello “cantabile” è sempre presente. Si può persino condividere l’idea che, anche grazie a queste peculiarità, i Jefferson Airplane hanno avuto un ruolo fondamentale nel traghettare il movimento da ristretta élite a movimento giovanile di massa. Da un lato tutti i loro brani appaiono veri e propri inni generazionali; sia per i testi, sia per la voce di Grace Slick – potente e maestosa – quindi perfetta per il formato “inno”.
Dall’altro lato diventano veri emblemi del movimento anche per le critiche feroci di vari politici conservatori che guardano con sospetto – se non addirittura con paura – alla loro popolarità tra i giovani, ai loro espliciti riferimenti all’uso dell’Lsd, al loro “legittimare” culturalmente un modo “altro” di intendere la vita, la libertà, la guerra, il rapporto tra cittadino e stato. Questo ai loro occhi li rendeva non uno straordinario esempio di libertà artistica, ma uno strumento diabolico di corruzione delle menti dei giovani.
Questi motivi – insieme ad altri – hanno legato i Jefferson Airplane a tutto il movimento di San Francisco. Questo nesso tanto stretto rende inevitabile il fatto che oggi appaiano meno attuali di gruppi come Doors o Velvet Underground, la cui musica ha un linguaggio che supera una singola stagione per dilatarsi nel tempo e ambire all’eternità.
Se il primo album, “Take Off” (1966), appare ancora tanto legato al classico folk-blues rock da non sembrare essere capace di tracciare nuove vie, con il capolavoro “Surreallistic Pillow” (1967) le cose cambiano. L’arrivo della cantante dei Great Society, la formidabile Grace Slick, il ruolo maggiore di Kaukonen rispetto a Balin rendono l’album il primo passo verso l’incoronazione a simbolo di un’intera generazione. Undici brani in cui si nota chiaramente quanto la loro tecnica sia nettamente superiore alla media delle band coeve. L’ingresso di Grace Slick apre nuove strade e rende possibile la creazione di brani che – pur non superando i 3 minuti – raggiungono una potenza onirica sorprendente. È il caso della superba “White Rabbit”, che in appena due giri di orologio plasma un crescendo che la rende un caso unico e bizzarro di pop psichedelico. Iniziano a registrare anche i primi inni generazionali, ad esempio la semplice canzone “Somebody To Love”, che diventa uno dei brani più cantati nella Summer Of Love del 1967. Si continua con il blues acido di “3/5 Of A Mile In 10 Seconds”, con le melodie ipnotiche di “Today”, con l’omaggio di Kaukonen al maestro John Fahey della strumentale “Embryonic Journey” e infine con i ritmi martellanti di “Plastic Fantastic Lover”.
Alcuni elementi fanno quasi preludere al loro successivo “After Bathing At Baxter’s” (1967), quello che fa superare davvero ai Jefferson Airplane i vecchi confini. La copertina - che sarà ripresa idealmente da un'altra band di San Francisco, i Sopwith Camel - diventa l’emblema della formazione: l’aeroplanino psichedelico Jefferson sorvola, pieno di colori, la società consumistica grigia e infelice, ormai tramutata in una sorta di grande discarica di prodotti bramati con ardore ma rapidamente sostituiti da altri ansiosi di farsi possedere. Un mondo in bianco e nero dove l’uomo ha venduto la propria anima. L’idea che l’aeroplanino Jefferson sorvoli la società consumistica per andare in un “altrove” ignoto, a sottolineare con forza la propria ostentata diversità, può apparire contraddittorio se si pensa al fatto che i Jefferson Airplane sono la prima band psichedelica a esordire – già nel 1966 – con un album prodotto da una major (la Rca). La stessa major che si sfrega le mani a vedere “White Rabbit” e “Somebody To Love” nella top ten delle vendite dei 45 giri, che gode dell’inatteso successo di “Surrealistic Pillow” e del ruolo di primissimo piano dei Jefferson Airplane al leggendario Festival di Monterey, vero inno di un rock ancora (per poco) trionfante. Proprio questa contraddizione crea quell’attrito tra la band di Slick e la Rca, che getta le basi per la registrazione di uno dei migliori album acid-rock-psichedelici mai prodotti.
La Rca, conscia delle potenziali vendite, tratta i musicisti come vere e proprie star; mette a loro disposizione un’enorme villa a Los Angeles, con studio di registrazione annesso e persino un maggiordomo giapponese. Tuttavia la villa viene trasformata in un sorta di “stazione di partenza” per viaggi lisergici e quando i dirigenti della Rca ascoltano per la prima volta “After Bathing At Baxter’s” rimangono a dir poco delusi, se non scioccati. Si trovano di fronte l’album più sperimentale dei Jefferson Airplane, con forti influenze free-form e brani uniti tra loro; un disco che supera per la prima volta nella storia dell’aeroplanino il formato canzone, non scritto con l’idea di essere ascoltato in una radio, ma diviso in cinque lunghe parti da ascoltare per intero, quasi fossero cinque brevi concept: un vero incubo per la Rca.
La contraddizione di essere i paladini di un movimento anti-consumistico e l’essere prodotti da una major si conclude con uno schiaffo alla Rca e con la pubblicazione dell’album della definitiva maturità artistica. “After Bathing At Baxter’s” è in effetti sorprendente da tanti punti di vista; intanto mostra ancora una volta una tecnica dei musicisti sopra la media. È inoltre il primo album, non solo dei Jefferson Airplane, che mostra una marcatissima influenza di Frank Zappa. È proprio nella prima delle cinque parti - “Streetmasse” - che si sentono momenti che potremmo definire zappiani. Scordiamoci i brani brevi di “Take Off” e “Surrealistic Pillow”. Qui siamo di fronte a un lungo trip che preannuncia lo space-rock, la psichedelia britannica e i primi corrieri cosmici tedeschi; un capolavoro assoluto senza genere e confini.
I Jefferson Airplane sono ormai un simbolo generazionale e l’anno dopo pubblicano “Crown Of Creation” (1968), mettendo nella cover l’immagine di un’esplosione di una bomba atomica, intesa da una parte come l’avvento di una generazione di giovani ribelli, dall’altra come l'emblema di una delle paure più angoscianti di quegli anni. Il nuovo album è comunque un passo indietro, con un ritorno alla formula a metà tra “Take Off” e “Surrealistic Pillow”. Questo ritorno alle origini non nasconde però una proprietà di mezzi e risorse tecniche e creative invidiabile. Grace Slick canta un testo di Joyce nel brano folk “Lather”, Paul Kantner e Marty Balin sono superbi in “The House At Pooneil Corners” mentre “Crown Of Creation” tenta la carta dell’inno del movimento hippie. Ma l’album che può ritenersi il vero manifesto generazionale è il successivo “Volunteers” (1969), registrato dopo i disordini della Convention democratica a Chicago. Le dieci tracce, contese tra il tradizionale spirito comunitario e le nuove ondate rivoluzionarie, sono tutte dirette al cuore di chi ha creduto e vissuto gli ideali hippie, è come se i Jefferson Airplane prendessero per mano la nuova generazione ormai perduta per ridarle voce e speranza. “We Can Be Together” è il capolavoro per antonomasia, come anche la title track più incentrata sull’aspetto rivoluzionario. La storia dei Jefferson continuerà ancora ma il legame con la storia di cui stiamo parlando finisce fondamentalmente qui, essendo ad essa legato in modo indissolubile.
Grateful Dead
Siamo come la liquirizia. Non a tutti piace la liquirizia, ma alle persone a cui piace la liquirizia piace molto la liquirizia.
(Jerry Garcia)
I Grateful Dead sono stati probabilmente il massimo gruppo della psichedelia americana, padrini di una dilatazione che si avvicina al suono dei coevi Pink Floyd uniti all’eclettismo di Zappa e alla tradizione blues. Il risultato è qualcosa che rappresenta al meglio l’epoca degli acidi lisergici, una musica capace di inni cosmici, visionari, disorientanti che dilatano le percezioni. La formazione di Palo Alto ha toccato nella sua lunga e variegata carriera molti stili, dal country al reggae, dal gospel al bluegrass. Il veicolo prediletto per una fame musicale straordinariamente onnivora sono delle lunghe, esaltanti, imprevedibili jam psichedeliche, un formato che i Grateful Dead istituzionalizzano e trasformano nel loro più celebrato e riconosciuto segno distintivo. Anche perché riconoscere la band in base alla formazione sarebbe un esercizio tutt’altro che facile: con più di dieci line-up differenti nel corso della carriera, alcune differenti anche a distanza di pochi mesi, è quasi impossibile seguire da vicino chi fossero gli improvvisatori delle loro celebri jam.
Certo, non per questo ci è difficile individuare un nucleo della formazione, un quartetto formato da: Jerry Garcia, chitarrista leggendario della psichedelia americana e forse unico possibile leader di questa formazione mutante; Bill Kreutzmann, batterista e percussionista che insieme a Phil Lesh, al basso, crea l’ideale sfondo su cui far muovere gli altri strumenti durante le improvvisazioni; Bob Weir, chitarrista ritmico che funge da partner del più istrionico Garcia, di indole solista. Intorno a questo nucleo, poi, si sono alternati numerosi tastieristi (Tom Constanten, Ron “Pigpen” McKernan), vari altri strumentisti e persino una cantante pura, cioè non impegnata anche a suonare altro, come Donna Jean Godchaux. Sullo sfondo rimane invece Robert Hunter, scrittore dei testi della band per l’intero arco della carriera.
Nati nel 1965 come Warlocks (lo stesso nome scelto da dei preistorici Velvet Underground!) dalle ceneri di un’altra band, i Mother McCree's Uptown Jug Champions, si esibiscono in piccoli concerti locali. Cambiano sigla e si esibiscono come Grateful Dead solo nel dicembre dello stesso anno, a San Jose. Dopo poco prendono l’abitudine di registrare i propri concerti, un modus operandi che costituirà nel tempo una sterminata discografia di performance live, verosimilmente la più rilevante dell’intera musica rock.
Il primo album omonimo (1967) non è che l’antipasto di quanto sarebbe arrivato in pochi mesi a sconvolgere la storia del rock, ovvero “Anthem Of The Sun” (1968). Per evitare di costruire un album di studio tradizionale, inadatto a trasmettere la dimensione live della band, i Grateful Dead optano per una soluzione altamente creativa e azzardata: fondono esibizioni live e di studio in un’opera che mette in crisi la distinzione tradizionale di lavoro di studio o di documento live. La formazione, ufficialmente di sei persone, comprende alcuni talenti indiscussi. In particolare Jerry Garcia si dimostra già qui uno dei più carismatici chitarristi del rock, un cerimoniere che guida visioni che partendo dal blues giungono a una musica visionaria, alienante, senza centro di gravità. Fondamentale anche l’apporto di Mickey Hart, che alle percussioni sciorina un tamburellare che varia continuamente e che aiuta l’ascesi lisergica tramite un uso della batteria che, pur ricordando i Velvet Underground, è meno violento e più visionario e dilatato. La formazione, completata da Bill Kreutzmann, Phil Lesh, Ron "Pigpen" McKernan e Bob Weir si impegna a suonare ogni strumento reperibile: campane, kazoo, piani preparati di cageiana memoria, timpani, gong, glockenspiel, crotales, cimbalini a dita, clavicembalo, vibraslap e tanti altri. “That’s It For The Other One”, divisa in 4 parti, dimostra subito che la formazione è un’altra rispetto all’esordio: si tratta di una suite tra folk-rock, filastrocca, assalti rumorosi e dilatazione cosmica. “Alligator” è l’apice di questa musica che perde ogni punto di riferimento fino a giungere in uno stato di ipnosi vivido: la musica dei Grateful Dead sembra qui distruggersi, trasformarsi in pura visione, senza traccia di fisicità, verso una totale astrazione: cancellati i ritmi, che diventano cangevoli e multiformi, e ridotta la chitarra a un lamento, e sfruttando in modo espressionista organo, squilli, trombe e quant’altro, la band si allontana dal mondo fenomenico approdando a quello metafisico.
“Anthem Of The Sun” di fatto inventa un concetto di musica cosmica parente di quello dei corrieri tedeschi, partendo dal un canovaccio spesso semplice di folk, country o blues e giungendo a un suono astratto e spaziale, una pura ascensione psichica verso la volta celeste. “Aoxomoxoa” (1969), è l’ideale perfezionamento formale di quanto hanno inventato con l’opera precedente. Qui si riconduce l’astrazione della jam in una forma-canzone più contenuta, ma non per questo meno acida. Ormai il viaggio mentale, che è diventato viaggio cosmico della mente, è sia fuga dalla realtà quotidiana (indotta dall’Lsd) sottilmente malinconica, che ricerca di una solitudine crepuscolare che appaghi la fascinazione per l’oscurità. I Grateful Dead hanno trasformato la musica psichedelica non solo nelle forme (la creazione di una jam blues-rock, l’immersione nell’oscurità e nell’ignoto) ma anche negli intenti: da arcobaleno di emozioni lisergiche, la loro musica diventa un inno all’espressione, alla creatività, al concetto di “alternatività” tanto caro al rock. Non a caso i Grateful Dead vivevano una doppia vita artistica: nell'album erano ingegneri meticolosi, nei live si trasformavano in cerimonieri che deformavano le canzoni in versioni chilometriche e oscure, in danze rituali per divinità del buio.
La loro musica supera così il concetto di staticità, di opera finita, diventando aperta a nuove letture e interpretazioni. La stupenda veste live viene immortalata finalmente da un documento leggendario, “Live/Dead” (1969). In queste canzoni la band sublima il gusto dell’oscuro, dell’incubo, del viaggio nell’ignoto, fra fascinazione, stupore, meraviglia e paura: questa miscela di emozioni è tanto forte che sembra potersi prolungare all’infinito nelle loro improvvisazioni senza bussola, che pian piano si distanziano dal mondo terreno per approdare a un livello metafisico.
“Dark Star” è uno dei massimi capolavori del rock, un gioco di ombre e di sussulti, di spasimi e di rituali che si allunga per 23 minutii. “Dark Star” merita di stare vicino ai grandi incubi visionari degli anni 60, come “The End” o “Sister Ray”. In un documento live eccezionale come questo, dove ogni minuto merita la massima attenzione, chiede citazione almeno il tour-de-force estremista di “Feedback”, un coacervo di fischi e di distorsioni brutali che affogano in un rumorismo psicotico e cosmico, quello che i Faust faranno maturare nella musica totale, ripulendo anche le basi di blues e rock che ancora affiorano fra le pieghe.
Dopo, nulla sarà come prima. Ai fan però rimane un archivio sconfinato di circa 2.200 concerti registrati in ogni parte del mondo, ben riassunti nelle serie “Dick’s Picks” (36 volumi, pubblicati fra il 1993 e il 2005), “Road Trips” (17 pubblicazioni fra il 2007 e il 2011) e “Dave’s Picks” (28 volumi fra il 2012 e il 2018, uno in programma per il 2019).
Quicksilver Messenger Service
Mi sento come se avessi ancora 17 anni… capisco che non è giusto, per uno della mia età, e capisco anche che questo mio stile di vita scellerato mi porterà presto nella tomba… Ma io sono felice così.
(John Cipollina, poco prima di morire nel 1989)
Uno dei gruppi leggendari della scena di San Francisco, tra quelli che più di altri hanno rappresentato il vero spirito ribelle alla ricerca di libertà di un’intera generazione, sono certamente i Quicksilver Messenger Service. Fondati alla metà degli anni Sessanta per volere di Dino Valenti, che tuttavia finisce sfortunatamente in carcere per problemi di droga, il gruppo si focalizza allora attorno al leggendario chitarrista John Cipollina, che assurge a modello da imitare per gran parte del movimento hippie, sia in termini musicali che di stile di vita. In ricordo degli anni migliori della sua carriera dice: “Credo che la band non abbia mai espresso tutto il suo potenziale. Eravamo piuttosto scadenti in studio, ma dal vivo eravamo una bomba. Guardando indietro noi non facemmo molti tour. Avremmo potuto evolverci maggiormente se ne avessimo fatti di più. Fondamentalmente componevamo i nostri arrangiamenti sul palco”. Proprio come dice lo stesso Cipollina, i Quicksilver Messenger Service sono stati un gruppo straordinario soprattutto dal vivo, caratteristica in comune con i loro grandi rivali, i Grateful Dead. Rivali in quanto molto spesso vicini nell’approccio alla musica e allo spettacolo live.
Esordiscono nel 1968 con “Quicksilver Messenger Service”, registrato dopo svariate esibizioni live di straordinario successo. L’esordio non riesce però a trasferire quelle sensazioni e impallidisce di fronte al successivo “Happy Trails” (1969), uno dei vertici di tutta la psichedelia americana. È strano notare che “Happy Trails” viene edito nel 1969, l’anno di pubblicazione di “Volunteers” dei Jefferson Airplane e di “Live/Dead” dei Grateful Dead: tre vertici di altrettanti diversi modi di intendere la psichedelia. “Happy Trials” è un Lp tipico della cultura di frontiera americana, fin dalla cover ispirata al pittore statunitense Frederic Remington, esperto nel ricreare paesaggi western che affrontano il tema della solitudine e della libertà individuale. Registrato quasi interamente dal vivo, inizia con la lunghissima cover di “Who Do You Love” di Bo Diddley, qui trasformata in straripante suite lisergica. Il brano occupa tutta la prima facciata ed è suddiviso in varie parti, alcune più inclini al blues, altre più psichedeliche. Cipollina dimostra una bravura e un'attitudine all'improvvisazione fuori dal comune (quasi jazzistica in certi momenti), degna dei migliori chitarristi di quegli anni. Notevole l’intreccio delle due chitarre di Cipollina e Duncan.
Terminato il lungo viaggio della prima facciata, si arriva a un’altra cover di Bo Diddley, “Mona”. Il capolavoro rimane però “Calvary”, ovvero il momento più sperimentale e potente della band di Cipollina. Duncan crea un’atmosfera tra western e ipnosi collettiva che è l’ambiente ideale per le scorribande chitarristiche di Cipollina. Un monumento epico e cupo del rock di frontiera americano, un inno alla libertà che ricorda i migliori Grateful Dead.
Dal 1970 rientra in formazione Dino Valenti, che dopo una breve carriera solista si riappropria della sua vecchia creatura a partire da "Just For Love" (1970).
Big Brother And The Holding Company
Conosciuti come una delle maggiori band nella scena di San Francisco, i Big Brother & The Holding Company si formano nel 1965 dall'incontro tra i due chitarristi Peter Albin e Sam Andrew. Due nomi che oggi però dicono poco, perché di fatto la band verrà ricordata per avere battezzato musicalmente Janis Joplin. Con lei al microfono, la band varca per la prima volta le porte di uno studio con l'album eponimo del 1967, anche se la vera fama sopraggiunge con "Cheap Thrills" (1968). Il disco esce in un momento in cui la popolarità della band, fresca di un'elettrizzante esibizione al Monterey Pop Festival, si trova al massimo di quello che oggi chiameremmo hype. Non a sorpresa, "Cheap Thrills" scala quindi le classifiche americane fino ad annidiarsi alla prima posizione. Inizialmente intitolato "Sex, Dope And Cheap Thrills" prima dell'epurazione della Columbia, l'album contiene sette esplosive tracce, di cui ricordiamo - oltre al leggendario singolo di "Piece Of My Heart" - le altre audaci cover di "Summertime" e "Ball And Chain", guidate dalla voce possente di Janis Joplin, che contiene nella sua gamma tutti i colori del soul e della psichedelia. Impossibile, inoltre, non ricordare la fumettistica copertina di Robert Crumb, originariamente concepita come back-cover ma promossa in prima pagina su insistenza della Joplin, quando le viene negata l'idea di fotografare tutta la band nuda e distesa su un letto.
Pochi mesi dopo l'uscita del disco, la cantante abbandona il gruppo, raggiunta subito dopo da Sam Andrew nella Kozmic Blues Band, prima di lanciare la propria carriera solista all'insegna del blues-rock. Dave Getz e Peter Albin si uniscono invece ai Country Joe & The Fish fino al 1970, quando rispolverano i Big Brother And The Holding Company con l'album "Be A Brother", uscito nell'ottobre del 1971, in contemporanea alla morte di Janis Joplin per overdose.
Kaleidoscope
I californiani Kaleidoscope sono i leggendari autori di “A Beacon From Mars” (1968), uno dei grandi classici della psichedelia di San Francisco. Formati da musicisti di primo livello, capaci di suonare senza problemi blues, country e musica tradizionale, si differenziano da altre band-simbolo di quell’epoca per le evidenti influenze etniche e orientali. I Kaleidoscope riescono più che nei loro altri lavori a creare una perfetta miscela di suoni (musica etnica, tzigana, raga indiano, psichedelia) e strumenti diversi, quali banjo, mandolini, saz, salterio, darabouka, tabla (lo strumento che i Third Ear Band resero celebre ai contemporanei), che è unica nella scena di Francisco.
Formati dal violinista e tastierista Fenrus “Maxwell Buda” Epp, dal chitarrista David Lindley, dal bassista Chris Darrow, dal cantante Solomon Feldthouse che suona i vari strumenti orientali e dal batterista John Vidican, esordiscono con “Side Strips”, Lp che si muove ancora in terreni più tradizionali (folk simil-Byrds con cenni orientali e brani di 3-4 minuti). Spicca l’esotica “Egyptian Garden” e la dichiarazione d’intenti lisergica “Keep Your Mind Open”.
Ma il loro capolavoro è il successivo “Beacon From Mars” (1968). L’album è anche da ricordare per la sua famosa copertina che riprende un vecchio poster del 1901 che pubblicizzava un’opera del pianista Raymond Taylor. Il “Segnale da Marte” che nel 1901 doveva sembrare pionieristico, diventa nel 1968 il “Faro da Marte”. “A Beacon From Mars” è fondamentalmente dominato da suoi due capolavori, due opere talmente grandi da fare ombra a tutto il resto. I brani in questione sono il capolavoro “Taxim” e la title track, due lunghi e arditi esperimenti etno-psichedelici. Il primo è una splendida contaminazione raga-folk, mentre il secondo è più accostabile a un trip lisergico alla Grateful Dead. Proprio “Taxim” è il brano migliore mai scritto dai Kaleidoscope, con un continuo accavallarsi di suoni e contaminazioni del folk occidentale con la musica orientale, quasi accostabile agli esperimenti col sitar che negli anni successivi proporranno i Popol Vuh. Il secondo capolavoro - “A Beacon From Mars” - è un lungo trip tipico della psichedelia di San Francisco, tra Grateful Dead e Doors. È in pratica un blues rivisitato, allungato a dismisura come volevano gli stilemi del rock psichedelico ma con tratti cacofonici sperimentali. Ma l’album non finisce qui; c’è il folk generazionale di “I Found Out”, brani tradizionali rivisti e l’esplosione blues di “You Don't Love Me”.
Frumious Bandersnatch
Sulla scia dei Quicksilver Messenger Service, i Frumious Bandersnatch si distinguono per il loro curioso nome (preso da una novella di Lewis Carroll) e per il loro totale disinteresse alla contestazione sociale. Il loro primo Ep omonimo (1967) si compone di tre canzoni, su cui spicca "Hearts To Cry", al confine tra garage e acid-rock, con due chitarre bramose di prendersi la scena.
Nel 1968 registrano il 33 giri di “A Young Man’s Song”, che vedrà però la luce solo nel 1996. Composto con una formazione parzialmente rimaneggiata - tra cui Bobby Winkelman e Jack King, destinati poi a prendere parte alla saga della Steve Miller Band - il disco offre un repertorio eterogeneo, che comprende i primi timidi giorni della band ("Now That You've Gone") e cavalcate chitarristiche furiose che sforano il muro dei 10 minuti ("Can A Bliss").
Fifty Foot Hose
Nati a San Francisco nel 1967, i Fifty Foot Hose sono il gruppo californiano che più si è contaminato con l'avanguardia, con cenni pionieristici di musica elettronica (perlopiù ignota nelle sponde della West Coast), col freak-rock di Zappa e Don Vliet, lo sperimentalismo dei Red Crayola e certamente con l’avanguardia dell’amato Edgar Varese. Formati dal bassista Louis "Sughero" Marcheschi, dal chitarrista David Blossom e dalla moglie, la cantante Nancy Blossom, hanno registrato un solo album - il magistrale “Cauldron” (1967) - che rimane come uno degli esempi più autentici e sinceri trip di una psichedelia che inizia a cercare nuove strade a cui aprirsi. Il colossale trip psichedelico “Fantasy” è certamente il loro lascito più significativo, ma anche le sperimentazioni di concrete music della title track sono assolutamente anomale nel panorama delle psichedelia californiana, animate da una sincera voglia di andare oltre i classici canoni della musica giovanile. Anche quando si accostano al classico formato-canzone (“Opus 777”) lo fanno in modo anomalo arricchendo una semplice melodia da canzoncina beat romantica con una serie di effetti elettronici originalissimi per l’epoca. “The Things That Concern You” è un selvaggio richiamo al freak più estremo, mentre “If Not This Time” è una classica ballata psichedelica di grande qualità. Proprio per questo l’esperienza dei Fifty Foot Hose resta una delle più originali e significative dell’epoca.
Steve Miller Band
Il chitarrista Steve Miller, dopo una lunga esperienza in Texas come bluesman, approda nella scena californiana dove, insieme al chitarrista Boz Scaggs, fonda la sua personale band. Il titolo del suo primo Lp “Children Of The Future” (1968) è tipico delle idee nascenti a San Francisco, di una generazione pronta alla nascita di un uomo “nuovo”. Miller è bravissimo nel far convivere il suo blues a sonorità da pop psichedelico molto ben arrangiate (“In My First Mind”), blues e persino avanguardia (“The Beauty Of Time”), giocose tastiere lisergiche (“Baby’s Callin’ Me Home”), assoli hendrixiani (“Steppin’ Stone”). È un album figlio dei suoi tempi ma anche capace di guardare oltre. Miller replica pochi mesi dopo con “Sailor” (1968), Lp con tratti più ambiziosi (l’intro macabra di “Song For Our Ancestors” o l’onirica ballata pop di “Dear Mary”) che sfociano poi in blues più canonici.
Steppenwolf
I leggendari Steppenwolf sono uno dei gruppi più duri e abrasivi dell’epoca e della costa di San Francisco. I “lupi della steppa” ridondano di energia blues in ogni loro brano, con un’aggressività bilanciata da una capacità melodica che ha permesso loro di registrare uno di quei brani che possono definirsi inni generazionali.
Il primo album omonimo del 1967 contiene “Born To Be Wild” che diventa l’emblema di una generazione che rinnega le proprie origini e rifugge da un destino già scritto dai propri padri e dai politici di varia estrazione (studio-lavoro-casa-famiglia), diventando peraltro la colonna sonora del film-inno di un’epoca “Easy Rider”. I testi duri di “The Pusher” (ne esiste una fantastica versione live di 20 minuti pubblicata nel live “Early Steppenwolf” del 1969), quasi una “I'm Waiting For The Man” in versione blues psichedelico rallentato, sono un’esaltazione degli effetti della marijuana, non delle droghe “pesanti” viste come porte per disperazione e sofferenza. Ma la carica blues è presente anche nelle memorabili “Sookie Sookie” e “Hoochie Coochie Man”.
Charlatans
I Charlatans sono una band seminale nello sviluppo della scena psichedelica e, non a torto, vengono spesso annoverati dalla critica come uno dei primi gruppi a suonare nello stile di San Francisco. La loro produzione si limita all'album omonimo, che non sarebbe tuttavia stato pubblicato fino al 1969, quando ormai il periodo d'oro della band era giunto al capolinea. Formatosi già nell'estate del 1964 per volere del musicista di avanguardia George Hunter e del bassista Richard Olsen, il primo nucleo dei Charlatans veniva completato da Mike Wilhelm (chitarra solista), Mike Ferguson (tastiere) e Sam Linde (batteria), presto sostituito da Dan Hicks (batteria, voce). Il gruppo era noto per il suo stile di abbigliamento, un mix tra i dandy vittoriani e i pistoleri dei film western. Nel giugno del 1965, i Charlatans iniziano un lungo tour al Red Dog Saloon di Virginia City, nel Nevada, appena oltre il confine con la California settentrionale. Al fine di promuoversi, la band progetta un manifesto che riceverà il soprannome di "The Seed" poiché considerato il primo poster psichedelico di sempre. Artefici del reperto sono George Hunter e Mike Ferguson, che danno inconsapevolmente il via a una tradizione visiva destinata a diventare, verso la fine del decennio, un pilastro della scena musicale di San Francisco.
Un altro motivo per cui la permanenza dei Charlatans al Red Dog Saloon è importante è il massiccio uso che fanno dell'Lsd, che dirotta il loro suono verso una musica improvvisata e intrisa di feedback, che avrebbe spalancato le porte all'acid-rock. Prima di allora i Charlatans si muovevano sul crinale tra folk e blues, non disdegnando neanche qualche arrangiamento da jug band. Nell'estate del 1965 i Charlatans tornano a casa con una nuova consapevolezza, che li fa arrivare alle porte della Autumn, che però si trova sull'orlo della bancarotta e in procinto di essere rilevata dalla alla Warner Bros. Alla fine i Charlatans firmano di fretta con la Kama Sutra Records nei primi mesi del 1966, ma l'odissea per registrare si rivela infinita, complice anche la scelta di pubblicare il singolo di debutto "Codine" che incontra il veto della casa discografica, a causa dei riferimenti lisergici non troppo celati.
A seguito di un improvviso cambio di line-up e del nervosismo per la mancata distribuzione di alcuni singoli, nel 1968 Mike Wilhelm e Richard Olsen decidono di sciogliere il gruppo, riformandosi poco dopo senza tuttavia invitare Hunter. Con un nuovo tastierista (Darrell DeVore) il primo album omonimo viene finalmente pubblicato dalla Philips nel 1969. Troppo tardi, ormai, tanto che il suono della band appare all'ascoltatore di allora già obsoleto: le frontiere acide di un brano come "Alabama Bound", concepito nel 1966, a tre anni di distanza, dimostrano di essere già state ampiamente superate. I pezzi migliori rimangono stranamente inediti fino al 1996 (“The Amazing Charlatans”). Dopo lo scioglimento, Mike Wilhelm diviene un membro dei Flamin’ Groovies e Dan Hicks fonda gli Hot Licks; Richard Olsen tenta invece la carriera di produttore, mentre George Hunter si fa strada nel mondo del design di Globe Propaganda, con le sue opere apparse su molte copertine, tra cui "Happy Trails" dei Quicksilver Messenger Service e "Hallelujah" dei Canned Heat.
Mad River
La storia dei Mad River si muove attraverso quella del frontman Lawrence Hammond, fondatore del gruppo e autore della maggior parte del repertorio contenuto nei due album pubblicati. Tutto inizia nel 1965 quando Hammond si iscrive per studiare medicina presso una nota università dell’Ohio. Qui fa amicizia con Tom Manning (basso), David Robinson (voce, armonica) e Gregory Dewey (batteria) e inizia a esibirsi per locali. Adottato il nome di Mad River Blues Band, cominciano a riscuotere abbastanza successo nella comunità, finché l'università non li costringe ad andare tutti a Washington per seguire un programma di studio.
Nel 1966 ritornano a casa ed entra nella formazione il chitarrista Rick Bockner, con il quale accorciano il nome in Mad River. Con questo assetto giungono infine a San Francisco nella primavera del 1967, ritrovandosi a spartire il palco con molte band famose, attirando anche l'attenzione dello scrittore Richard Brautigan.
Dopo un primo Ep autoprodotto, il disco d'esordio omonimo (1968) viene pubblicato dalla Capitol, con una produzione un po' frettolosa se si pensa soprattutto che l'album viene distribuito con le tracce accelerate per essere contenute sul supporto. Delle sette canzoni, tre oltrepassano la frontiera di 7 minuti ("Eastern Light", "War Goes On", "Wind Chimes"), mentre i brani più brevi hanno titoli già da soli sufficientemente eloquenti ("Amphetamine Gazelle", "High All The Time"). Tutto funziona all'insegna di un rock acido piuttosto lento, ispirato ai raga indiani. Gran parte della musica ruota attorno alla voce di Hammond (rovinata dalle accelerazioni), ma le digressioni strumentali danno luogo a paesaggi sonori abbastanza avventurosi. Prima dello scioglimento i Mad River fanno in tempo a pubblicare "Paradise Bar And Grill" (1969), album decisamente più variegato che mischia l'acid-blues con atmosfere più convenzionali, ma anche questa volta il successo non arriva e il gruppo decide di sciogliersi. Lawrence Hammond tornerà poi alle sue radici folk nella propria carriera solista.
Fire & Ice, Ltd.
Il disco improvvisato dei Fire & Ice, Ltd. nasce dall'incontro di una serie di musicisti presso un happening nell'estate del 1966 e si erge come uno dei primi album psichedelici mai registrati. A guidare gli impulsi ci pensano il tastierista Tony Scott e il flautista/cantante Paris Sheppard, che in mezz’ora di musica conducono l’ascoltatore in una “nuova e strana avventura di una musica-manifestazione della mente”, come recita la scritta di copertina. “The Happening” è un viaggio forse un po’ datato ma sicuramente suggestivo, capace di portare alla mente le atmosfere più esoteriche di un kraut-rock non ancora nato (“Summertime”) e di trasportarle con letizia nella West Coast. Un regno dominato dall’organo e dal flauto, in cui le voci solo soltanto apparizioni al servizio del caos e dell’anarchia.
Oxford Circle
Gli Oxford Circle passano in queste pagine di cronaca psichedelica più per la leggenda dei loro spettacoli che per la loro esigua discografia. Solo un singolo pubblicato ("Foolish Woman/Mind Destruction" nel 1966, con un lato B di puro avant-psych) ma basta ascoltare poche note per capire come devono essere stati elettrizzanti i loro concerti. Originari della città universitaria di Davis, ma consacrati in quel di San Francisco, gli Oxford Circle nascono all'inizio degli anni Sessanta come gruppo surf sotto il nome di Hideaways, per poi cambiare moniker e suono all'avvento della British Invasion. Le loro esibizioni teatrali e il loro carisma in breve tempo li portano all'Avalon, facendo divenire i loro live act tra i più seguiti della Bay Area. Arrivano ad aprire per Captain Beefheart e i Grateful Dead, ma all'inizio del 1967 interrompono le esibizioni e si recano a Los Angeles per un concerto al Troubadour e registrare un paio di demo con l'aiuto di Dr. John. Qui avviene lo sfacelo: il batterista Paul Whaley si unisce a Dick Peterson per fondare i Blue Cheer, mentre Gary Lee Yoder e Dehner Patten entrano nei Kak. Solo nel 1997 vedrà la luce il famigerato "Live At The Avalon" del 1966.
Kak
L'unico album omonimo datato 1969 dei Kak è un oggetto raro da collezione, specialmente per gli amanti della psichedelia più votata all'hard-rock.
Il disco inizia con una risata, prima dell'attacco fulmineo di "HCO 97658".
Brani come "Everything's Changing" ed "Electric Sailor", tra riff e cori, ci fanno in seguito capire che stiamo bazzicando nel territorio di Iron Butterfly e dintorni.
Gli otto minuti di "Trieulogy", divisa in tre sezioni distinte, spostano invece l'asticella verso l'acid-blues grazie alle continue variazioni ritmiche e a una sensazione generale molto surreale e onirica (enfatizzata dall'utilizzo di bonghi e maracas).
Moby Grape
La nascita dei Moby Grape è stata uno di quei tentativi delle case discografiche di sfruttare economicamente il fenomeno hippie. Formati da cinque ottimi musicisti, tra cui l’ex-Jefferson Airplane Alex Spence, si conoscono proprio tramite il manager Matthew Katz. Questa genesi, che tradisce ogni legame autentico con i valori della controcultura, non viene perdonata ai Moby Grape che al festival di Monterey sono contestati.
Rimangono due buoni album, il primo omonimo del 1967 e il secondo “Wow/Grape Jam” del 1968, legati al blues psichedelico più virtuoso ma penalizzati dalla mancanza di un vero legame con ogni movimento culturale dell’epoca.
Ad ogni modo le improvvisazioni blues di “Grape Jam” rimangono tra le piccole perle del genere.
Le vittime di due clamorosi plagi
Si tratta di una bella fregatura, i Led Zeppelin ci hanno fatto un sacco di milioni e non ci hanno mai detto neanche grazie, né ci hanno offerto una parte dei soldi incassati. Si tratta di un punto dolente per me.
(Randy California, chitarrista degli Spirit)
È una storia poco nota, che meriterebbe di essere raccontata più spesso, anche per ricordare quanto sia significativa la portata storica e culturale di tutta la scena psichedelica americana - anche quella meno celebrata. È la storia di due band californiane cadute nell’oblio che però, tramite due loro piccoli brani minori, hanno messo le basi per due dei capolavori più conosciuti della scena hard-rock che sarebbe nata da lì a pochi anni. Parliamo degli It's A Beautiful Day e del loro “Bombay Calling” che i Deep Purple stravolgeranno nella monumentale “Child In Time”, e degli Spirit che - saccheggiato l’arpeggio della loro “Taurus” - hanno loro malgrado regalato ai Led Zeppelin, maestri nel trasformarla da brano anonimo a capolavoro, il loro classico “Stairway To Heaven”.
Se nel primo caso è lo stesso Ian Gillan ad ammettere che l’introduzione di “Child In Time” nasce da un’elaborazione di Jon Lord di “Bombay Calling”, il caso di “Taurus” e “Stairway To Heaven” continua a essere discusso tutt’oggi nelle aule dei tribunali, senza che Jimmy Page ammetta (come era sua usanza in effetti) di avere elaborato e trasformato un brano scritto da altri, che lui aveva sentito durante il tour del 1968/69 suonando proprio con gli Spirit.
Ne nasce una diatriba infinita in cui è comprensibile la rabbia del chitarrista Randy California, morto del 1997 senza essere riuscito a trovare giustizia: “Si tratta di una bella fregatura, i Led Zeppelin ci hanno fatto un sacco di milioni e non ci hanno mai detto neanche grazie, né ci hanno offerto una parte dei soldi incassati. Si tratta di un punto dolente per me”. Indipendentemente dalla parola “plagio”, ci sono due elementi da sottolineare; i brani sono certamente ripresi da due gruppi californiani ma sono tanto stravolti e migliorati da potersi considerare originali, anche se in entrambi i casi sarebbe stato più dignitoso inserire nelle note di copertina un chiarimento (questo varrebbe in particolare per Jimmy Page, che di accuse di plagio ne ha avute, giustamente, tantissime). Altro elemento fondamentale è che la storia degli It’s A Beautiful Day e degli Spirit non è certamente riassumibile in questi due accadimenti, ma ha una sua importanza che va molto oltre queste tristi storie e affonda le radici nella parte più autentica del movimento psichedelico americano.
Per quanto riguarda gli It’s A Beautiful Day c’è almeno un album da considerare significativo, il loro esordio omonimo del 1969. Nati a San Francisco nel 1968 da un progetto dell’estroso violinista e cantante David La Flamme, si pongono fin da subito come band al confine tra psichedelia e un primordiale neo-prog, anche considerata la conoscenza della musica classica del fondatore. A lui si aggiungono la cantante Pattie Santos, molto simile sia vocalmente che esteticamente alla leggendaria Grace Slick, e la tastierista Linda LaFlamme (moglie di David).
L’album contiene sonorità tipicamente californiane (la ballata hippie “White Bird”) arricchite da variegati cenni di musica popolare, jazz e sonorità tzigane. Più onirica la lenta ballad blues di “Hot Summer Day”, dove è il violino a rendere il suono diverso da ogni altro gruppo californiano dell’epoca. La traccia più importante è senz’altro il calderone di idee di “Time Is”, che coniuga psichedelia, folk, improvvisazione e contaminazioni orientali degne dei Kaleidoscope.
Gli Spirit nascono a Los Angeles grazie al chitarrista Randy California. A differenza degli It’s A Beautiful Day, la loro carriera è più duratura con ben quattro album degni di nota, caratterizzati da una capacità compositiva diversa e originale rispetto al movimento psichedelico classico. La preparazione musicale del fenomenale chitarrista Randy California e del bassista Mark Andes è più legata al blues, quella del tastierista John Locke e del grande batterista Ed Cassidy più vicina al jazz, addirittura il secondo tastierista Jay Ferguson proviene da studi di musica classica. Questa differenza di formazione mette le basi per la nascita di una band che si trova necessariamente al confine tra la psichedelia e il futuro progressive, fino persino ai sentori glam-rock del loro quarto album “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicous” (1970).
Il loro esordio “Spirit” (1968) contiene la famosa “Fresh Garbage”, i bizzarri arrangiamenti di “Mechanical World”, la vittima predestinata di Jimmy Page “Taurus” e la jam sul crinale tra jazz e psichedelia di “Eljiah”.
Il successivo “The Family That Plays Together” (1969) è ancor più vario e - fin dal titolo - pienamente dentro lo stile di vita californiano. È uno dei lavori più elaborati della scena psichedelica, ricco di elementi jazz, prog, arrangiamenti orchestrali, tanto vari da far impallidire buona parte delle band coeve. Brani come “Drunkark” o “It Shall Be” li pongono a livelli ineguagliati di fantasia e creatività, in un insieme di elementi diversi dove il rock appare il meno presente, se non nella traccia iniziale “I've Got A Line On You”. “Clear Spirit” (1969) è solitamente considerato minore semplicemente perché - a differenza dei precedenti - è più accostabile a una scena rock tradizionale. Ad ogni modo la varietà delle soluzioni sonore di California (a volte hendrixiano, altre volte dilatato à-la Garcia) valgono l’ascolto di un album che ha la sola colpa di trovarsi in mezzo a tre lavori storici. “Twelve Dreams Of Dr. Sardonicous” (1970) è un altro ottimo Lp ma ormai lanciato abbondantemente nel nuovo decennio.
La scena di New York
Se a San Francisco e Los Angeles nasce una forma di psichedelia che vede l’uso dell’Lsd come mezzo per ampliare le proprie esperienze percettive, per aprire le “porte” della percezione, ispirata a ideali di uguaglianza, pace e comunitarismo, a New York le cose sono completamente diverse. Cupa, fredda, caotica, multirazziale, futuristica, New York ha dato vita a una psichedelia decadente, cinica e alienante (Velvet Underground), contaminata da sonorità etniche e orientali (Devil’s Anvil), altamente innovativa e violenta (Cromagnon), legata più all’avanguardia che al blues (United States Of America), con momenti di antimilitarismo angosciato e poetico (Pearls Before Swine). Più che produttrice di sogni, di speranze da Lsd, quale poteva definirsi a grandi linee la psichedelia di San Francisco, la versione newyorkese si alimenta di incubi da eroina, atmosfere cupe, decadenti, ciniche, egoistiche e senza speranza. La speranza non è nemmeno richiesta in quanto non necessaria, il tossicodipendente descritto dai Velvet Underground non chiede aiuto, non cerca la salvezza, vuole solo avere la possibilità di continuare il viaggio nel suo sogno/incubo, senza che nessuno glielo impedisca. Egli non cerca aggregazione come facevano gli hippie californiani, è invece un solitario alienato.
Mettevamo occhiali neri sul palco perché non potevamo sopportare la vista del pubblico.
(John Cale)
Il gruppo principale della scena di New York sono certamente i Velvet Underground, con una line-up che non avrebbe bisogno di presentazioni: Lou Reed (voce e chitarra), John Cale (viola, basso, pianoforte), Sterling Morrison (chitarra, basso) e Maureen Moe Tucker (batteria). Iniziano a suonare dal vivo nel 1965, proponendo versioni iniziali di brani che diventeranno loro grandi classici. Dopo l’incontro con Andy Warhol, suonano nei musei di New York, prima con uno spettacolo intitolato “Andy Warhol Up-Tight”, poi con “Exploding Plastic Inevitable”, che diventa una leggenda dell’underground. Grazie a Warhol fa ingresso nella band la futura musa gotica Nico.
Il loro primo album (“Velvet Underground And Nico” - 1967), prodotto da Andy Warhol, è uno dei più influenti della storia del rock e può essere considerato un disco d’avanguardia, vista l’enorme influenza che il minimalismo di LaMonte Young ha avuto su Cale. È un lavoro talmente importante da essere difficilmente inquadrabile in un genere specifico come la psichedelia. I mondi dipinti da Lou Reed e compagni descrivono i quartieri cupi e ostili di una metropoli tentacolare e pericolosa, i veri protagonisti sono gli ultimi della società, gli emarginati; gli ambienti non sono le belle spiagge californiane assolate, bensì i quartieri malfamati dove la droga, in particolare l’eroina, è vista come l’unica via di fuga dalla realtà. Il brano che descrive al meglio tutto ciò è certamente “Heroin”.
Nulla sembra accomunare questi scenari oscuri con la fervida vitalità della West Coast. Ma quasi tutte le tracce sono fondamentali; dalla descrizione sadica di “Venus In Furs”, all’ossessiva ripetizione di “I'm Waiting For The Man”, alla melodia da carillon ipnotico di “Sunday Morning”, restano pochi dubbi sul fatto di trovarsi di fronte a un vertice di un modo diverso di intendere il trip psichedelico.
Dopo un esordio tanto importante, pur praticamente inosservato ai contemporanei, nel 1968 è la volta dello storico album nero (“White Light/White Heat”), lavoro ancor più duro e a tratti indigeribile, che oggi suona come un Lp pionieristico con una svolta dissonante e cacofonica, con suoni duri e distorti, che trova nel lungo trip da incubo di “Sister Ray” il suo principale lascito.
United States Of America
Gli United States of America sono stati il gruppo principale newyorkese dopo i Velvet Underground. Formati nel 1967 dai compagni di college Joseph Byrd (musica elettronica, clavicembalo elettrico, synth), Dorothy Moskowitz (voce), Gordon Marron (violino elettrico, modulatore ad anello), Rand Forbes (basso) e Craig Woodson (batteria), sono stati tra i gruppi più sperimentali nati negli anni nella stagione psichedelica americana. Già dalla formazione si evince l’anomalia: l’assenza della chitarra, strumento praticamente imprescindibile in ogni gruppo sia delle East che della West Coast. Anomala era anche la loro formazione, più prossima al jazz e all’avanguardia che al rock. Da molti punti di vista simili ai californiani Fifty Foot Hose, hanno creato una miscela di musica circense, concrete musique, Zappa, Doors, Velvet Underground, Jefferson Airplane che ancor oggi appare pionieristica. Alcuni critici hanno addirittura pensato che dentro il loro unico Lp (“USA” del 1968) siano già presenti i semi del futuro movimento del post-rock. Probabilmente questa affermazione è esagerata, ma brani come la cantilena ipnotica di “American Metaphysical Circus”, la vaudeville “I Won’t Leave My Wooden Wife For You, Sugar” o il rock alla Doors di “Hard Coming Love” sono esempi di musicisti con uno sguardo ben oltre quello della maggior parte dei loro connazionali.
Tra i progetti collaterali vale la pena segnalare l’album solista di Joe Byrd con i Field Hippies. Il risultato è “The American Metaphysical Circus”, edito nel 1969 e che si distingue per essere stato uno dei migliori tentativi di collisione tra il rock psichedelico e la musica elettronica, la musica colta e l’universo hippie.
Cromagnon
Uno dei dischi più estremi, violenti, barbari, radicali, spaventosi e totalmente avulsi da qualsiasi logica commerciale è l’unico album dei Cromagnon, “Orgasm” (1968). Ascoltarli oggi rende chiaro quanto la scena americana sia stata fervida di libertà e creatività. La creatura del duo Austin Grasmere e Brian Elliot mostra quanto oltre sia riuscita a spingersi la controcultura, quali estremi abbia toccato. Il ricordo storico dei Cromagnon ha, in un certo senso, più valore della loro opera singola. Sono vari gli aspetti da sottolineare; la quasi totalità dell’album sembra costituita da happening, senza dubbio figli della musica concreta e gestuale; la morbosità dei contenuti, la blasfemia, la violenza, portano nel mondo pop (o della cultura giovanile) l’idea di ribellione (marcusiana) alla civiltà, con uno sguardo al mondo primitivo dell’uomo libero di manifestare il proprio autentico “Io”, non schiacciato dalla civiltà industriale, esente da moralismi siano essi politici o religiosi. “Orgasm” è quindi un prodotto estremo ma tipico della controcultura psichedelica o di parte di essa; lo conferma il fatto che l’album sia prodotto dall’etichetta Esp.
Infine, va riconosciuto ai Cromagnon di essere terribilmente anti-convenzionali, di documentare al meglio uno degli aspetti principali dello sperimentalismo come ricerca del nuovo, l’esigenza di superare il pop e il rock’n’roll, la musica stessa in quanto forme espressive “asservite al mercato”. I Cromagnon sono un inno precoce alla contraddizione più essenziale della controcultura. Tra i brani si segnala “Caledonia”, tanto pionieristica da potersi considerare il primo esperimento black metal della storia, quattordici anni prima dei Venom e quindici prima dei Bathory.
The Devil's Anvil
Nati nel 1966 nel mitico Greenwich Village di New York, i The Devil’s Anvil testimoniano quanto la psichedelia americana sia stata un movimento di ampio respiro sociale e culturale, capace di inglobare dentro di sé persino le tematiche dell’eterno conflitto arabo-israeliano. La band era formata da tre musicisti arabi - Jerry Satpir, Kareem Issaq, Eliezer Adoram - polistrumentisti conoscitori della musica tradizionale araba, turca e greca. A loro si aggiungono i due statunitensi Felix Pappalardi (ex-Cream, Mountain) e Steve Knight (Mountain), grazie ai quali registrano il loro unico Lp “Hard Rock From The Middle East” (1967).
Lavoro di grande complessità e varietà (cantato in turco, greco, arabo, solo un brano in inglese), colpisce per la sua multiculturalità, capace di spaziare dagli assoli hendrixiani, alle melodie beat fino alle tradizioni arabe. È un modo di vivere l’Oriente differente dall’immaginario collettivo che pensa subito a sitar e santoni meditabondi; è invece un Oriente aperto alla modernità, in un sincero scambio culturale. È probabile che la band sia caduta nell’oblio anche per la sfortunata coincidenza della Guerra dei sei giorni (giugno 1967), avvenuta proprio durante la pubblicazione dell’album, evento che ha certamente ostacolato la promozione commerciale di un Lp cantato in arabo e suonato da arabi. È paradossale che mentre la sperimentazione musicale si apriva senza limiti, i muri creati dalla politica diventavano sempre più saldi. La storia dei Devil’s Anvil è paragonabile, in piccolo, a quella più grande dell’intero movimento psichedelico e controculturale destinato al suo canto del cigno proprio per questa contraddizione. Ci rimane un’idea forte di rispetto tra culture che si interscambiano e si rispettano; se cercate i progenitori di band moderne come i Tinariwen o musicisti come Bombino, è qui che dovete cercare.
Blues Magoos
Spesso il confine tra il garage rock e la musica psichedelica è una linea di demarcazione piuttosto sottile. Lo è anche nel caso dei Blues Magoos, che nel 1966 pubblicano il loro “Psychedelic Lollipop“, anticipando di qualche mese l’esplosione psichedelica. Passati alla storia per i loro show a luci stroboscopiche e i bizzarri costumi di scena, i newyorkesi conquistano un successo immediato, grazie soprattutto al singolo “(We Ain’t Got) Nothin’ Yet”, punta di diamante di un disco che annovera anche alcune cover esplosive (“Tobacco Road”, “I’ll Go Crazy”) e un inno subliminale all’Lsd (“Love Seems Doomed”).
Per gli amanti delle statistiche, è interessante notare come questo riconoscimento di uno status “psichedelico” si ratifichi nello stesso anno anche altrove. Nel 1966, infatti, altri due dischi porteranno nel proprio titolo la nuova etichetta: in aprile esce “The Psychedelic Moods Of The Deep“ dei Deep, disco creato ed elaborato in studio da Rusty Evans ma, soprattutto, viene pubblicato “The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators” dei 13th Floor Elevators.
Paradossalmente, il disco più psichedelico dei Blues Magoos è il secondo, “Electric Comic Book” (1967), con brani lisergici quali “Pipe Dream”, “There’s A Chance We Can Make It” e “Summer Is The Man”. Dal terzo album la musica dei Blues Magoos abbandona i suoi “lecca lecca psichedelici” per un più convenzionale blues-rock.
Pearls Before Swine
Nell’area più radicalmente antimilitarista vi è senz’altro la creatura del formidabile Tom Rapp, folksinger di enorme talento che entra in modo tangenziale ma significativo nel mondo della psichedelia americana. Rapp è originario del Nord Dakota, ma si trasferisce a New York con la famiglia dove forma i Pearls Before Swine, che fin da subito si presentano come un’anomalia rispetto alla grande maggioranza delle band coeve. La strumentazione lo conferma: sitar, arpa, corno inglese, vibrafono, banjo, flauto, testimoniano quanto di originale vi sia nelle idee di Rapp.
Ci lasciano due album di folk psichedelico di grande complessità e fascino. Il primo è “One Nation Underground” (1967) che fin dal titolo segna un tentativo di differenziarsi dal potere politico ufficiale ritenuto intrinsecamente violento e corruttore. La speranza non sta in alto ma in basso, l’underground è l’unica sponda in cui sperare di ricreare la libertà più autentica. L’esordio dei Pearls Before Swine mostra un folk maturo che, pur partendo da giganti come Bob Dylan e Leonard Cohen, se ne distanzia per le atmosfere fiabesche e surreali, per ritmi spesso lenti e lisergici e per una strumentazione tanto vasta e originale da sconfinare nell’avanguardia. Rapp è uno dei poeti della generazione hippie, un’anima semplice ma capace di emozionare con un insieme sorprendente di semplicità (chitarra e voce) e complessità (arrangiamenti fantasiosi e imprevedibili) tanto eccentrico da saper dosare le più disparate esperienze musicali, dal jazz alla musica orientale. L’antimilitarismo è presente nella ballata folk generazionale “Dropout” o nel poetico folk intimista della commovente “Another Time”. “Morning Song” accentua molto di più l’aspetto lisergico e ci porta in un mondo fatato simile a quelli di Donovan, mentre l’eccentrica “I Shall Not Care” passa rapidamente da ritmi beat forsennati a canti da sciamano fino a primordiali sperimentazioni elettroniche. Chiude quest’album imperdibile la surreale ballata di “Surrealist Waltz”, sorta di folk per fantasmi con canto alienato.
Rapp ha già dimostrato di essere quasi estraneo a buona parte della sua generazione, ma supera ancora se stesso col successivo “Balaklava” (1968), ispirato alla battaglia della guerra di Crimea del 1854, capolavoro assoluto del folk antimilitarista. L’atmosfera è quella funerea della guerra e della morte, lontanissima dall’ottimismo nella nuova generazione dei Jefferson Airplane. È il capolavoro impressionista di Rapp, formato da una serie di “dipinti” al confine tra il surreale e l’onirico, che mostrano i paesaggi della natura sconvolta dalla prepotenza delle armi. Il vertice è la funerea “Ring Thing” con cornamuse lontane e scenari tetri e disperati. Tutto è etereo sino all’inconsistenza (la voce anni venti di “Guardian Angels”, il flauto e il canto degli uccelli di “Images Of April”, i bizzarri arrangiamenti orchestrali di “I Saw The World”), arricchito da una qualità di registrazione volutamente di bassa qualità che dà all’intero album una sensazione di retrò che carica ulteriormente di tensione ogni brano.
The Deep
Nell'estate del 1966, l'eccentrico bohémien Rusty Evans si presenta al produttore Mark Barkan con la proposta dichiarata di registrare il primo album psichedelico. Evans aveva appena sperimentato l'Lsd e, galvanizzato da quella esperienza, aveva deciso di reclutare alcuni amici del Greenwich Village per formare una band. I Deep nascono così, nella mente lisergica di Evans, e poco si conosce della loro storia: sappiamo, ad esempio, che per registrare si dirigono con una macchina fatiscente da New York a Philadelphia e che proprio durante quel viaggio scrivono la seconda metà dell’ Lp d'esordio, "Psychedelic Moods Of The Deep". A loro va la palma della prima registrazione di un disco con il termine "psichedelico" in copertina, ma le stranezze non finiscono qui. L'album viene registrato in soli quattro giorni, mentre la band vive giorno e notte dentro gli studi, in preda alle idee più bizzarre. Il produttore chiede persino a un musicista di portare la sua ragazza in studio in modo da poterli registrare mentre fanno sesso: il risultato è la mistica sensualità di "When Rain Is Black", corredata da sospiri, flauti e xilofoni.
Subito dopo l'uscita dell'esordio, Evans firma per la Columbia per il suo nuovo progetto a nome Freak Scene. Nasce in questo modo "Psychedelic Psoul" (1967), disco dalle atmosfere molto simili al proprio predecessore, seppur più orientate verso il garage-pop. Tracce come "A Million Grains Of Sand" e "My Rainbow Life" sono invece testimoni dell’influenza orientale che stava contagiando la musica di quei giorni, anche se la proposta più originale rimane quella di “The Subway Ride Through Inner Space", con i suoi ritmi duri e alienanti. Se i testi affrontano i problemi dell’epoca, la musica di Evans si sta già muovendo verso il suo step successivo, segnato dalla effimera esperienza dei Third Bardo, combo psych-garage che pubblica nel 1967 il singolo “I'm Five Years Ahead Of My Time”.
Autosalvage
Gli Autosalvage fanno a tempo a pubblicare solo un album prima di sciogliersi. In principio, suonano qualche concerto arrivando ad aprire per artisti come Frank Zappa (è proprio lui a consigliare il nome alla band).
Il disco di debutto omonimo (1968) viene registrato con tecniche all’avanguardia, lasciando la band libera di sperimentare al massimo delle sue possibilità. Il risultato è un disco atipico persino per l'eccentrica psichedelia americana, capace di combinare musica concreta ("The Great Brain Robbery"), rumorismo hard-blues ("Our Life A We Lived It") e innesti raga-rock ("Ancestral Wants"). Troppo per il pubblico di allora, che li accoglie con un paio di discordanti recensioni e tanti saluti.
Mystic Tide
Da Long Island, gli energici Mystic Tide del chitarrista e cantante Joe Docko pubblicano solo vari 45 giri senza mai dar vita a un Lp. Il suono è certamente influenzato dal garage ma contiene vari elementi psichedelici presenti anche in tempi molto precoci, già nel 1965. Se il loro primo 45 giri del 1965 è chiaramente beat (“I Wouldn't Care”), la successiva "Stay Away" mostra i primi collegamenti con i 13th Floor Elevator.
Nel 1967 pubblicano il loro miglior 45 giri; il lato A contiene il brutale psych-garage di “Frustration” che gli dona una certa visibilità, ma soprattutto nel lato B si trova un colossale trip psichedelico ("Psychedelic Journey - Part 1") che ha tutte le carte in regola per essere definito inno generazionale, ai livelli delle danze anarchiche degli Amon Duul. Ormai totalmente dentro la psichedelia pura, pubblicano subito dopo un successivo 45 giri clone del precedente. Nel lato A il garage di "Running Through The Night" e nel lato "Psychedelic Journey - Part 2" prolungamento ancor più lisergico del precedente trip, che unito al primo è senza dubbio il loro lascito più importante. I loro 45 giri sono stati raccolti nel 1994 nella compilation “Solid Sound/Solid Ground”.
Godz
Dietro ai Godz si celano il grafico Jay Dillon, il venditore ambulante-bassista Larry Kessler, il commesso-chitarrista Jim McCarthy e l'improvvisato batterista Paul Thornton. Per tutti loro, gli strumenti musicali sono solo veicoli con cui esprimono tutto ciò che non possono plasmare consapevolmente in altro modo: un modo di suonare ingenuo come quello delle Shaggs, che esordiranno solo qualche anno più tardi. Nell’atto creativo non siamo propriamente nei territori della psichedelia, piuttosto in quelli della outsider music, anche se il risultato può essere in qualche modo accostabile a quello dei freak Holy Modal Rounders e Fugs.
Il primo album dei Godz esce nel 1966 con il titolo di "Contact High", contrassegnato da un modo di suonare libero e primitivo, scevro da vecchie strutture e regole imposte. A distanza di un anno l'uno dall'altro usciranno "Godz 2" (1967) e "The Third Testament" (1968). Tutti e tre i dischi fondono una sgraziata crudezza proto-punk a stranezze compositive derivanti da un approccio molto lontano da quello dei musicisti/creatori coscienti.
Scena di Los Angeles
A Los Angeles si forma una scena che potrebbe definirsi una succursale di quella più nota di San Francisco. Le idee e le aspirazioni sono più o meno simili, vista anche la vicinanza geografica. Tuttavia vi è al suo interno una minore omogeneità, con band molto diverse tra loro, con suoni molto duri (Iron Butterfly, Seeds, Love), col tentativo di rendere il rock psichedelico più spendibile, pur mantenendo una buona qualità (Electric Prunes, Strawberry Alarm Clock, Chocolate Watchband). Sembra che le influenze di gruppi californiani come i Byrds, del blues, del rock-blues d'oltremanica (Rolling Stones) siano state maggiori qui che altrove. Ma tutta la scena vive senz'altro all’ombra di una band fondamentale, i Doors.
Ci sono cose che si conoscono e altre che non si conoscono. Esiste il noto e l'ignoto, e in mezzo ci sono le Porte.
(Jim Morrison)
Tra i nomi destinati a riscuotere più fortuna presso il pubblico figura ovviamente quello dei Doors. Il nome della band è un doppio tributo: a un verso di una poesia di William Blake e, per reazione osmotica, anche a un saggio di Aldous Huxley (“Le porte della percezione“). La formazione definitiva si plasma attorno alla metà del 1965 dall’incontro tra il leader Jim Morrison e il tastierista Ray Manzarek, entrambi studenti di cinema presso l'Università della California. Colpito da un pezzo del testo di “Moonlight Drive” che il giovane Morrison gli fa ascoltare sulla spiaggia di Venice, Manzarek decide di fondare un gruppo con Robby Krieger (chitarra) e John Densmore (batteria). La consacrazione arriva al Whiskey-a-go-go, dove vengono notati dalla Elektra di Jac Holzman nel 1967. Il disco di debutto omonimo dei Doors arriva in un momento in cui la controcultura è al suo apice. La prima cosa che colpisce di questo album è come il volto di Jim Morrison irrompa dalla cover-art, con i suoi compagni in formato mini relegati in secondo piano – e questa è una metafora sorprendentemente accurata di come il gruppo sarà percepito dalla storia.
Basta ascoltare le prime note di “Break On Through (To The Other Side)“, arrotolate come un cobra, per capire come i Doors siano una novità assoluta. L’assenza del basso venne risolta con un curioso espediente: Manzarek usa la mano sinistra per la parte di basso sul piano Fender Rhodes, mentre la mano destra si occupa di suonare nelle zone alte della tastiera dell’organo Vox Continental (poi sostituito con un Gibson G101) su cui è appoggiato il Rhodes, dando quel taglio narcotico che ha reso la musicalità dei Doors così ben identificabile. Dalla voluttuosa “Light My Fire“, passando per la mefistofelica “End Of The Night”, i Doors con il primo album mostrano un repertorio che sembra fare parte di qualche rito ancestrale. Presto detto, il finale del disco è la lama fredda brandita da Morrison per il sacrificio finale: “The End“, ovvero i Doors nella loro apoteosi, in una vivisezione della drammaturgia greca. Registrato in un’unica ripresa, senza sovraincisioni, costruito inesorabilmente verso una escatologica conclusione, questo è l’opus magnum del melodramma di Morrison, della sua capacità sciamanica di recitar-cantando, creando una suspense che è insieme mistica e violenta come il teatro di Antonin Artaud.
“Strange Days” viene pubblicato nel settembre del 1967, ripetendo la formula vincente dal debutto. Vi è inoltre l’inserimento di un bassista come ospite, Doug Lubahn, che a quel tempo è un membro di un altro gruppo della Elektra, i Clear Light. Ancora una volta, a spiccare è la curiosa e circense immagine di copertina, opera del famoso fotografo Joel Brodsky. La title track apre le danze in una grande atmosfera sperimentale, illuminata da uno dei primi utilizzi del sintetizzatore Moog nel rock, suonato da Jim Morrison con l’aiuto di Paul Beaver. C’è spazio anche per ballate nostalgiche (“You’re Lost Little Girl”, “Unhappy Girl”) e numeri di rock straniante (“Love Me Two Times”, “People Are Strange”) timbrati dal marchio di riconoscimento delle tastiere di Manzarek. Emerge anche la passione di Morrison per la poesia sperimentale in “Horse Latitudes”, un collage criptico che guarda nelle acque agitate di Jim. Per il capitolo conclusivo di “When the Music’s Over” Jim insiste affinché il brano venga registrato a presa diretta in studio, per preservarne il più possibile la carica emotiva: una canzone rivoluzionaria, che cresce di intensità come la melodrammatica “The End” dall’album precedente, e che termina anch’essa in un potente climax.
“Waiting For The Sun” avrebbe dovuto essere il loro grande album, ma il progetto venne parzialmente sventato dall’interno: la serenità della foto di copertina è in realtà l’istantanea della quiete prima della tempesta. Paul Rothchild riceve diversi pressioni dalla Elektra per produrre un altro disco di successo: il fulcro di questo album doveva essere il lungo poema teatrale di Morrison, “The Celebration Of The Lizard”, ma alla fine soltanto un suo frammento sarebbe stato utilizzato (“Not To Touch The Earth”). Nel novero ricordiamo il valzer di “Wintertime Love”, il flamenco di “Spanish Caravan” e la chiusura con il botto di “Five To One“, un pesante hard-rock con Morrison completamente ubriaco. Si è spesso discusso anche sulla proporzione 5:1: interrogato sulla questione, Jim Morrison non chiarì mai il significato dell’espressione utilizzata nel testo, e disse che il verso non era espressamente politico, nonostante l’utilizzo di toni critici verso il movimento hippie, che secondo Morrison era “sostanzialmente un fenomeno piccolo borghese“.
Metà dell’album successivo “The Soft Parade” (1969) porta la firma di Robbie Krieger, dato che Jim continua ad assumere acidi: come risultato ci vogliono addirittura 11 mesi per ultimare “The Soft Parade”. I Doors iniziano a guadagnarsi la reputazione di band immorale e alla fine del 1969 Jim annuncia di voler mollare la band, ma Ray lo convince a restare per altri sei mesi, anche se il suo alter-ego Jimbo sia ormai dominante. Alla fine del decennio, i Doors si esibiscono in location sempre più grandi: il comportamento di Jim raggiunge l’apice della provocazione quando nel concerto di Miami del 1° marzo 1969, in seguito a un accesissimo discorso, Jim inizia a togliersi i vestiti, prende in braccio un agnello e invita tutti a salire sul palco. Verrà denunciato dalle autorità e ritenuto colpevole di atti osceni in luogo pubblico.
Nello stesso anno i Doors ritornano alle radici blues con “Morrison Hotel” (1970), ma è col successivo “L.A. Woman” (1971) che ci regalano il lisergico canto del cigno di “Riders On The Storm”. Concluse le registrazioni di “L.A. Woman” Jim e Pamela annunciano di volersi trasferire a Parigi. Per un po’ le cose sembrano andare bene, poi nel 1971 la morte bussa alla porta di Jim Morrison.
Love
Mi è stato detto da Dio: che amore sulla Terra sia.
(Arthur Lee)
Tra i migliori gruppi della West Coast e del rock psichedelico, i Love sono stati la band del geniale Arthur Lee. Coinvolto nel mondo della musica sin dalla giovane età, verso la metà degli anni Sessanta, Lee aveva già ottenuto i primi piccoli successi come compositore e produttore a Los Angeles. A 18 anni prende parte all'album dei Lags e compone "My Diary", canzone interpretata da Rosa Lee Brooks e caratterizzata dai riff di un chitarrista ancora poco conosciuto, Jimi Hendrix. Con l'avvento del movimento folk-rock nel 1965 viene ispirato a fondere il sound dei Byrds con i Rolling Stones, trovando la ricetta perfetta per la sua creatura: i Love. Sotto la sua guida diventano molto popolari nei club di Los Angeles e vengono reclutati dalla Elektra per l’album di debutto omonimo (1966). Lee diviene il punto focale come cantautore, anche se il chitarrista ritmico Bryan MacLean si ritaglia una fetta bella del songwriting, prendendosi anche la scena sulla cover di "Hey Joe". L'altro rifacimento presente sul disco è un eccellente arrangiamento di "My Little Red Book" di Burt Bacharach, in chiave quasi punk ante-litteram. L'unicità della band traspare chiaramente nelle numerose ballate dell'album: "A Message To Pretty", "Mushroom Clouds", che dà una visione perfetta della mentalità politica di Lee, e in particolare "Signed DC", presumibilmente un tributo al primo batterista dei Love, Don Conka, ormai schiavo della tossicodipendenza. Il contributo di Bryan MacLean è l'elegante "Softly To Me", che rivela uno stile personale di scrittura che culminerà in quella che è forse la più nota canzone dei Love: "Alone Again Or", da "Forever Changes".
Nei sette pezzi che compongono il secondo "Da Capo" (1967) la parola d'ordine è quella di una psichedelia impossibile da incasellare, sovente fomentata da strutture jazz o acid-blues (alcune sezioni della lunga jam di "Revelation", "Stephanie Knows") o persino barocche con clavicembalo e flauto ("She Comes in Colors"). Il singolo di maggior fortuna "7 And 7 Is" è invece ancora all'insegna del proto-punk, dimostrando quanto la band fosse unica ed eclettica, capace di arrangiamenti delicati quanto di divagazioni chiassose. Il vero capolavoro arriva con il terzo "Forever Changes", pubblicato nel 1967 nel bel mezzo dell’estate dell’amore, quasi fosse chiaro che era arrivato il loro momento. Nonostante ciò, i temi della solitudine attraversano quasi ogni traccia, dall'oscura "A House Is Not A Motel" all'inquietante lirismo barrettiano di "The Red Telephone". Arthur Lee era d'altronde un alieno: un musicista nero (come il chitarrista John Echols) in contatto con la delicata situazione politica e culturale del tempo, parte di una scena musicale a maggioranza bianca e chiaramente esausto di tutto quel floreale ottimismo. Gli arrangiamenti musicali, tra folk, classica, r&b e rock psichedelico aprono quasi la strada al progressive, catturando la paranoia dei tempi come nessun altro ha saputo fare in quegli anni. Come fosse tutto parte di una unica lunga suite, ogni traccia si fonde con la successiva grazie agli arrangiamenti costruiti in modo tale da accompagnare l'ascoltatore fino a farlo disorientare in un labirinto di suoni.
Registrato in presa diretta in oltre 60 ore di lavoro in studio, "Forever Changes" rappresenta uno dei vertici della psichedelia californiana, destinato però a segnare la fine della formazione classica dei Love. Il quarto "Four Sail" esce con una line-up rimaneggiata, la stessa sorte subita dalla loro musica nel doppio "Out Here" (1969) e "False Start" (1970), che virano progressivamente verso un sound meno psichedelico e più rock-oriented. Maggiormente degna di nota rimane l’appendice solista di Lee (“Vindicator”, 1971), che arriva dopo l’album registrato in coppia assieme Jimi Hendrix e mai pubblicato: in “False Start” dei Love è tuttavia presente “The Everlasting First”, che ci svela come doveva suonare l’inedito duo.
Ma l’amore a volte non basta: la saga dei Love si rivelerà infatti un'autentica maledizione. Oggi l’unico sopravvissuto è il batterista Michael Stuart, ormai ripiegato a nuova vita come fotografo. Arthur Lee se n’è invece andato nel 2006, dopo diversi anni trascorsi in carcere per possesso di armi da fuoco.
Iron Butterfly
A San Diego, nel 1966, nasce un quartetto formato da Doug Ingle, Jack Pinney, Greg Willis e Danny Weis, a cui si aggiunge in un secondo momento Darryl DeLoach. Quando la formazione si trasferisce nella megalopoli losangelina, Jerry Penrod e Bruce Morse prendono il posto di Willis e Pinney. Abbandona anche Morse, per problemi familiari, sostituito da Ron Bushy. Un biennio travagliato quello '66-'68, che comunque conduce la band al suo tanto sospirato esordio, dal profetico titolo “Heavy” (1968). Si tratta di un'opera opaca, che propone soprattutto brani di psych-rock con inflessioni blues. Due elementi si distinguono: la chitarra di Danny Weis, soprattutto in "Gentle As It May Seem" e "Look For The Sun"; l'organo di Doug Ingle, soprattutto in "Stamped Ideas". Ma l'opera rimane nella storia per l'epico “Iron Butterfly Theme”, una distorsione di chitarra che potrebbe rubare la scena ai primi Black Sabbath, coprotagonista di un visionario brano strumentale assieme all'organo, ben in mostra nell'assolo centrale. Il finale, terremotante, è una delle più sfrontate manifestazioni di potenza che il rock avesse mai proposto. Tutta la formazione, tranne Ingle e Bushy, lascia la band dopo le registrazioni, con DeLoach e Weis che diventano membri dei Rhinoceros. Entrano alla chitarra Erik Brann (a volte indicato come Braunn) e al basso Lee Dorman, a supporto del tour d'esordio e poi protagonisti dell'opera per cui gli Iron Butterfly sono entrati nella storia.
Il secondo album, “In-A-Gadda-Da-Vida” (1968) è infatti uno dei primi esempi di heavy-psych, uno stile che unisce la propensione allucinata alla passione per suoni duri e spigolosi, dominati da imponenti riff di chitarra. Una mutazione stilistica subito mostrata in “Most Anything You Want”, l'ideale fusione di canzone psichedelica e potenza hard-rock. “In-A-Gadda-Da-Vida” non sarebbe però mai entrato negli annali se non per la title track, uno dei più definitivi deliri psichedelici di tutti i tempi. La leggenda inizia con lo stravagante titolo, secondo una curiosa storiella una storpiatura "stupefacente" del più comprensibile “In The Garden Of Eden”. Poi, dopo il titolo, c'è il brano: 17 minuti di orgia strumentale, il cui pretesto è un breve tema musicale esposto all'inizio. In 3 minuti scarsi la canzone è diventata una jam incendiaria, dalle regole lasche, che ridottasi a una più essenziale forma attorno al sesto minuto lascia spazio a un lungo, tribale assolo di batteria, quindi a un organo liturgico e infine a un violento ritorno del motivo principale della chitarra, per concludere con una febbricitante danza tribale. Insieme a Blue Cheer, Steppenwolf e pochi altri, gli Iron Butterfly diventano i padri del lato più duro della psichedelia con questo torrenziale brano. Una versione semplificata della lunga “In-A-Gadda-Da-Vida”, senza gli assoli e di appena 2:53, diventa inaspettatamente di successo. L'album diventa il primo disco di platino della storia della RIAA, aggiungendo a quel riconoscimento altri tre premi equivalenti negli anni successivi: l'incredibile cifra di 30 milioni di dischi venduti consente di annoverare “In-A-Gadda-Da-Vida” fra i bestseller di tutti i tempi.
Il compito di “Ball” (1969) non è facile: seguire un album importante per l'evoluzione storica del rock e di grandissimo successo commerciale. Diciamolo subito: non ci provano neanche, a replicare il brano torrenziale. Il suggestivo e lugubre mix di hard-rock e psych-rock di In “The Times Of Our Lives” e la similare ma più solare “It Must Be Love”, insieme alla danza in tempi dispari di “Her Favorite Style”, segnano la prima parte dell'opera, anche tentata da diversi momenti di retroguardia, decisamente meno heavy. L'“Iron Butterfly Theme” trova un'erede in “Filled With Fear”, mentre tracce dello spirito della jam arriva solo nella conclusiva “Belda-Beast”. Dopo i colpi di scena di “In-A-Gadda-Da-Vida”, però, questa sembra un'opera insolitamente timida e pacata.
Chocolate Watchband
I Chocolate Watchband sono stati una delle principali garage-band della scena di Los Angeles. Più che verso la psichedelia, il loro interesse era rivolto a un rude e selvaggio rhythm'n'blues, a un garage rock più ispirato ai Rolling Stones che ai Doors o ai Grateful Dead. Si fanno notare nei loro energici e vibranti live dal famoso produttore Ed Cobb. Quest’ultimo, interessato a cavalcare il successo della nascente psichedelia di San Francisco, cerca di influenzare le scelte della band in modo molto deciso. Sceglie tutti i brani dell’album, ne scrive alcuni (il loro primo singolo “Sweet Young Thing”) e li arrangia. Arriva persino a imporre altri musicisti che non compaiono nel quintetto ufficiale, tra questi il cantante Don Bennet che sostituisce in alcuni brani Dave Aguilar. L’impressione è che in alcune tracce ci sia solo il nome della band. Questo non può che provocare dei durissimi contrasti, in particolare col chitarrista Mark Loomis. Le premesse sono davvero pessime, ma il risultato finale è sorprendentemente buono.
Nell'esordio "No Way Out" (1967) si vedono chiaramente le due anime, quella originale rhythm & blues e quella “imposta” psichedelica, e a volte non si è certi se a suonare siano davvero i Chocolate Watchband. Ad ogni modo i brani imposti da Ed Cobb sono buoni, in particolare le psichedeliche “Dark Side Of The Mushroom” e “Expo 2000” che, pur nella loro brevità e nella poca sincerità (prodotto creato ad arte per seguire una strada tracciata da altri), ricreano scenari lisergici interessanti. Energia e vitalità scaturiscono dai brani che vengono direttamente dal rock’n’roll e dal rhythm'n'blues, quali “Let’s Talk About Girls” (cover di un brano dei Tongues Of Truth), “In The Midnight Hour”, coinvolgente cover del bellissimo brano di Wilson Pickett, “Come On”, riuscita cover di Chuck Berry (anche i Rolling Stones ne fecero una nel 1963) e “Gone Passes By”, caratterizzato dalla presenza del sitar.
L’esperienza dei Chocolate Watchband lascia un po’ l’amaro in bocca, in quanto sono stati un gruppo con grandi potenzialità svanite in pochi anni. La loro colpa è di non essere riusciti ad acquisire un’autonomia artistica e di essere rimasti eccessivamente legati a un produttore che - più che cercare di far emergere le loro vere caratteristiche - li ha comandati a bacchetta. Seguono "The Inner Mistique" (1967), in cui spicca la psichedelica "In The Past", e "One Step Beyond" (1969).
Electric Prunes
Provenienti da Seattle e formati da James Lowe (voce), Ken Williams (chitarra), Jim Spagnola (chitarra ritmica), Mike Weakley (batteria) e Mark Tulin (basso), gli Electric Prunes si fanno notare a Los Angeles col loro primo album omonimo del 1967 e soprattutto con la hit “I Had Too Much To Dream” (già pubblicata come 45 giri nel 1966). L’esordio contiene pochi aspetti psichedelici, ma soprattutto una carica vicina al garage arricchita di melodie pop e dei primi effetti elettronici. Il secondo Lp “Underground” è decisamente superiore, con un tasso lisergico ben più potente. Pur sempre legato al formato-canzone di 3 minuti, “Underground” ha una compattezza che rende ininfluente il fatto di non contenere una hit memorabile, in quanto tanti brani sono dei piccoli tasselli sconosciuti da inserire nella storia della scena psichedelica americana.
Il garage è presente nei pochi momenti più selvaggi (“Long Day's Flight”), ma è stemperato da alcune ballate lisergiche, come ad esempio le dilatate “I” e “Wind-Up Toys”, o da vari brani in stile Byrds (“Big City”). Non mancano anche momenti più originali, come la bizzarra, al limite dello zappiano, “Dr. Do-Good”. Si poteva aspettare un nuovo album ancora più maturo, ma il destino riservava ben altro al quartetto di Seattle. Il loro produttore Hassinger cerca di convincere la band alla registrazione di una messa rock cantata in latino, quella che diventerà la “Mass F Minor” (1967). L’idea non piace a nessuno degli Electric Prunes e il produttore, incredibilmente, li sostituisce con altri quattro musicisti canadesi (gli ex-Collectors). La Messa in Fa Minore ha il merito storico di essere il primo tentativo di coniugare musica religiosa e rock, ma se paragonata a tentativi successivi, per esempio il capolavoro “Hosianna Mantra” dei Popol Vuh, non può reggere il confronto, anche se varie fughe psichedeliche con cenni orientali sono un frutto tipico della controcultura americana del periodo e quindi degne di nota in questa monografia. “Kyrie Eleison” ha anche l’onore di far parte dello storico film “Easy Rider”.
Beat Of The Earth/ Electronic Hole
Un caso strano, quello dei californiani Electronic Hole di Phil Pearlman, che dopo aver pubblicato nel 1967 un disco di primordiali jam con i Beat Of The Earth, nel 1969 decide di allestire un'altra band per gioco, ritrovandosi a suonare assieme nelle ore libere. Poco si conosce di entrambi i dischi. L'album omonimo degli Electric Hole viene stampato in sole 300 copie, a dispetto degli intenti ludici il disco si rivela una piccola gemma della psichedelia underground più esoterica, a metà strada tra Velvet Underground e Amon Duul II, prefigurando in certi frangenti la neopsichedelia degli Spacemen 3. Tra i pezzi vale la pena segnalare le cinque parti di "The Golden Hour", dove spicca la presenza del sitar nella seconda sezione. In mezzo figura anche una barbarica cover di Frank Zappa ("Trouble Every Day"). Nel wall of sound dato dalle chitarre, gli Electric Hole inghiottono l'ascoltatore in un buco nero elettrificato tra avanguardia, raga, psichedelia e noise rock.
Nel 1975 Pearlman ci riprova con i Relatively Clean Rivers, con un album tuttavia più legato a scenari di folk bucolico, con cui neanche stavolta riuscirà a trovare la fama: questa arriverà inaspettatamente solo per vicende extra-musicali, quando il figlio Adam legherà mortalmente il suo nome ad Al Qaeda.
Strawberry Alarm Clock
Gli Strawberry Alarm Clock sono solitamente inseriti nella scena psichedelica di Los Angeles, ma la loro vera provenienza è Santa Barbara. Nati nel 1966 come gruppo dedito principalmente a cover, formati da Lee Freeman (voce, chitarra), Ed King (chitarra), Gary Lovetro (basso), Gene Gunnels (batteria) e Steve Rabe (chitarra solista), hanno prodotto un album destinato a restare uno dei classici della psichedelia americana (“Incense And Peppermints” del 1967) e un secondo Lp, il successivo “Wake Up... It's Tomorrow” del 1968, che rappresenta un precoce canto del cigno in termini di idee, qualità e soprattutto in quanto a legami col movimento da cui erano nati (nonostante altri due album successivi). L’originalità della band è stata quella di esser riuscita a coniugare quel sound lisergico tipico della West Coast con le nuove sonorità pop della Merseybeat di Liverpool e di quella che passerà alla storia come la British Invasion. I due brani “The Worlds On Fire” (8 minuti, quasi una suite psichedelica) e la classica ballata onirica alla Byrds “Rainy Day Mushroom Pillow” rappresentano i momenti più significativi e lisergici della loro carriera. Altrove si alternano momenti garage ad altri più vicini al pop britannico. Il brano “Incense And Peppermint” diventa il loro più grande successo ma è in effetti un brano psych-pop di 2 minuti molto leggero e tipico del loro sound.
Scena texana
Per quanto il Texas possa essere considerato una provincia rispetto ai centri pulsanti del rock psichedelico (San Francisco, Los Angeles e New York), ha paradossalmente dato vita al primo album dichiaratamente psichedelico, l’esordio dei 13th Floor Elevators. La psichedelia texana è stata un movimento particolarmente estremo ed estraneo a compromessi commerciali, almeno nei suoi due maggiori esponenti. I dominatori della scena sono senz’altro i rivoluzionari Red Crayola, a cui seguono i pionieri 13th Floor Elevators.
Non eravamo hippie, non eravamo interessati a quella folla di giovani che si presumeva avrebbero conquistato il mondo, non c’entravamo nulla con la controcultura. Volevamo marcare la differenza tra noi e chiunque altro.
(Mayo Thompson)
I texani Red Crayola sono stati un caso assolutamente unico all’interno della scena psichedelica americana, tanto unico da alimentare il dubbio se sia possibile davvero inserirli all’interno di questo movimento.
Il progetto Red Crayola nasce e si sviluppa tipicamente dentro la cultura dell’underground giovanile americano del periodo. Il geniale fondatore Mayo Thompson è più interessato alla sperimentazione, al free jazz e a Frank Zappa che alla psichedelia californiana, ma tante delle sue intuizioni sono comunque riconducibili alle idee e ai movimenti culturali del ‘68 (in primis il leggendario brano antimilitarista “War Sucks”). Circa le sue influenze dice: "Avevamo pochi eroi, ci piacevano John Fahey e Country Joe And The Fish. Albert Ayler è stata una figura davvero influente per noi. Il suo “Bells” o “The Ascension” di John Coltrane, quelle sono state vere influenze. I trip dei Grateful Dead non ci portavano da nessuna parte, il virtuosismo alla Jimi Hendrix non ci ha mai interessato".
Il loro esordio “The Parable Of Arable Land” è una di quelle opere senza tempo che sembrano venute fuori dal nulla, tanto sono avanti rispetto alla propria contemporaneità, opere straordinarie che “vedono” il futuro decenni prima (in questo caso la sperimentazione noise, la new wave e l’imminente rock tedesco). Già pronto nel 1966, ancora prima della pubblicazione di “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators”, Lp storicamente considerato il primo album di rock psichedelico, “The Parable Of Arable Land” è un inaudito connubio tra avanguardia, rock free-form, rumorismo, cacofonia alternata a momenti ritmati da basso e percussioni, anni luce avanti rispetto la musica “giovane” contemporanea. Mayo si trova perfettamente a suo agio con gli ideali hippie, pur non essendolo in senso stretto, in quanto dotato di un carattere schivo se non addirittura settario. Probabilmente più che della musica psichedelica subisce il fascino di Stockhausen, Varese o Cage; se di rock si deve parlare, certamente lo attirano più Frank Zappa o i Velvet Underground. Proprio da Zappa prende l’idea della Familiar Ugly (dalle Mothers Of Invention), gruppi di musicisti e non musicisti (sino a 100 persone) con il compito di battere, colpire, far vibrare qualunque oggetto avessero tra le mani. È l’apoteosi del rumore e il vertice ideale di un’idea di rinnovamento che passa alla storia come freak-out. Un inno assoluto alla libertà stracolmo di capolavori, dagli intermezzi free-form all’antimilitarista “War Sucks”, dai ritmi di basso di “Hurricane Fighter Plane” all’armonica desolata di “Transparent Radiation”. Tutto è grande e inarrivabile. Se la psichedelia nasce così, allora può dirsi che nasce grande fin da subito.
13th Floor Elevators
I texani 13th Floor Elevators passano alla storia, più che per le loro capacità musicali, per essere gli autori di quello che può essere considerato il primo disco di rock psichedelico, che è anche il primo a inserire esplicitamente la parola "psichedelico" nel titolo. Il loro album d’esordio - “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators” (Ottobre 1966) - anticipa di pochi giorni “The Psychedelic Moods Of The Deep” dei The Deep e “Psychedelic Lollipop” dei Blues Magoos. I 13th Floor Elevators anticipano quella che poi diventerà una lunga ondata lisergica che attraverserà tutti gli States da una costa all’altra e poi il mondo intero. Figli diretti del blues, della carica energica delle band garage a loro contemporanee e dei primi concetti di ripetizione, riescono, grazie a un intuito notevole, a vedere prima degli altri quello che già era nell’aria. Fin dalla copertina appare chiara l’appartenenza al movimento psichedelico di cui sono pionieri a tutti gli effetti. Tanti brani restano dentro coordinate garage, ma in altri momenti - come nella memorabile “Roller Coaster” - il trip lisergico parte dopo pochi secondi. La voce urlata del cantante Roky Erickson, grande appassionato di occultismo e letteratura horror e di fantascienza, è uno degli elementi caratteristici dei texani. Altro elemento curioso è la creazione dell’electric jug, sorta di strumento autocostruito, consistente in una bottiglia suonata dall’imboccatura, ma elettrificata.
“The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators” è fin da subito apprezzato con una raffica di recensioni entusiastiche. Il loro lavoro successivo, “Easter Everywhere” (1967), è persino più maturo e cerca di arricchire i suoni aspri degli esordi con quelle filosofie orientali che tanti gruppi stavano influenzando. Purtroppo, le dipendenze e l’insorgente schizofrenia di Erickson rappresentano la pietra tombale della carriera futura della giovane band. Negli anni 80 il cantante incide dischi di pregevole psichedelia schizofrenica, abitata da zombie, alieni e ogni altro essere che ormai aveva preso possesso del suo corpo.
Euphoria
Da Houston, i dimenticatissimi Euphoria del chitarrista Hamilton Webb hanno pubblicato un solo album per la Capital, “A Gift From Euphoria” (1969), salvo poi scomparire del tutto nell’oblio dopo la sua pubblicazione. Nonostante la stagione psichedelica classica fosse già nella sua fase terminale, gli Euphoria si sono fatti notare per i loro eclettici mix orchestrali (“Lisa”, “Hollyville Train”), alternando ballate country (“Stone River Hill Song”), rock’n’roll caotico (“Did You Get The Letter”), cantilene folk (“Lady Bedford”) e psichedelia distorta (“Suicide On The Hillside, Sunday Morning, After Tea”). A questo risultato approdano grazie alla Capital, la quale non interferisce durante le registrazioni del disco, ma neanche spende troppa energia per promuovere quello che probabilmente considera un passo falso.
Moving Sidewalks
Da Houston, i Moving Sidewaks vengono ricordati nelle cronache più per essere stati il primo gruppo di Bill Gibbons (ZZ Top) che per la loro fugace storia musicale. Il chitarrista dà prova delle proprie abilità già nell’hit single “"99th Floor”, il cui successo li porta alla pubblicazione del primo e unico album “Flash” (1968) per la Tantara. Intriso di blues-rock e allucinazioni psicotrope, il disco raggiunge il culmine nei due brani finali (“Eclipse” e “Reclipse”), che danno vita a intriganti sperimentazioni in linea con le tendenze del periodo.
Nel 1968 i Moving Sidewalks vengono chiamati ad aprire il tour americano di Jimi Hendrix, dividendo anche il palco con 13th Floor Elevators e Doors. La loro fortuna, però, svanisce velocemente come era iniziata, quando Tom Moore (tastiere) e Don Summers (basso) vengono arruolati nella marina, mentre Gibbons troverà più fama e denari con gli ZZ Top.
Fever Tree
Texani ma molto californiani nello spirito e nell’iconografia tipicamente hippie sono i Fever Tree, band al confine tra folk e blues, con arrangiamenti orchestrali simili ai Love. Il loro Lp principale è l’esordio omonimo del 1968 in cui spicca la ballata psichedelica “San Francisco Girl”, che testimonia la loro vicinanza ideologica, più che geografica, alle istanze delle scene californiane (il disco è stato registrato a Los Angeles).
Nel resto del catalogo la presenza degli strumenti a fiato e gli arrangiamenti di stampo classico allontanano di fatto i Fever Tree dallo zeitgeist psichedelico, rendendo la loro parabola una sorta di appendice a sé. Un disco invecchiato forse malino, ma apprezzabile per il gusto e per la ricercatezza delle melodie.
Golden Dawn
Uscito per l'etichetta International Artists, "Power Plant" è stata l'unica creatura discografica partorita dalla mente dei Golden Dawn, tra le cui fila spicca il vocalist George Kinney, che vanta un passato come partner di Roky Erickson nei Fugitives. E proprio mentre l'ex-compagno prende il "tredicesimo ascensore" verso il cosmo, Kinney fonda la sua band e registra nel 1967 il leggendario "Power Plant", che per ragioni sconosciute vede tuttavia la luce nei negozi soltanto l'anno successivo. La loro "alba dorata" viene quindi eclissata dall'uscita nel mese antecedente di “Easter Everywhere”, album con il qualche ha più di qualche similitudine e con cui la critica di allora insiste ad accostare. Un peccato, perché sono molti i momenti interessanti nel disco dei Golden Dawn: dallo psych-punk di "Evolution" al blues con armonica di "I'll Be Around", fino all'acido giro chitarristico di "My Time". Un album di canzoni brevi e orecchiabili, che patirà la sfortuna di una pessima campagna pubblicitaria.
Jimi Hendrix
James Marshall "Jimi" Hendrix, nato Johnny Allen Hendrix, è il chitarrista rock più importante di sempre, quello che ha elevato la chitarra a strumento principe di questo genere. Con lui la chitarra diventa il simbolo di un culto, una creatura sacrificale, un totem, un simbolo fallico, uno strumento che indica potenza, lo scettro dei grandi cerimonieri del rock. Essenziale per l’hard-rock e l’heavy-metal, che nella sua tradizione di guitar hero instancabili vede in lui un capostipite assoluto, Hendrix è riuscito a irrobustire il blues-rock con distorsioni assordanti, selvagge, graffianti e dinamitarde, ampliando le possibilità dello strumento, fino a renderlo totale, capace di melodia, riff tellurici e persino rumori assordanti, astratti e, cosa per noi di particolare interesse in questo frangente, psichedelici. Proprio nella psichedelia Hendrix fa la figura del gigante: alcune sue sperimentazioni distorcono, deformano, modellano, affettano, trasfigurano il suono della chitarra fino a conferirgli qualità visionarie inedite, che evocano profondità siderali, gorghi cosmici e i terrificanti bombardamenti del Vietnam. L’elenco di effetti che promosse a costanti del rock è lunga e nutrita: wah-wah, distorsione fuzz e un uso fantasioso del feedback sono forse i tre maggiori esempi. Lui è il primo poeta della chitarra psichedelica e il più influente. Con la sua prematura scomparsa nel 1970 a 27 anni si chiude simbolicamente anche l’epoca maggiore della psichedelia e, di fatto, ben minori e faticose sono state le innovazioni nella chitarra sviluppate in tutta la musica acida dopo la sua scomparsa.
Esiste poi un’influenza meno ovvia di Hendrix sulla psichedelia americana, di matrice culturale e simbolica: l’integrazione nei concerti di rituali voodoo, il “sacrificio” della chitarra a fine concerto (che veniva sfasciata, persino incendiata), una propensione quasi romantica al ritorno disperato alle origini, quelle degli istinti primordiali sessuali, ma anche infantili, saranno tutte direttrici su cui si muoveranno le formazioni contemporanee o successive al guitar hero.
Dopo le prime registrazioni nel 1964, una breve militanza nella band di Little Richard, negli Isley Brothers e in altre formazioni, Hendrix fonda una sua band nel 1966, i Jimmy James and the Blue Flames, finché la ragazza di Keith Richards, Linda Keith, non lo nota al Greenwich Village.
È l’inizio di un’ascesa inarrestabile: una band costruita intorno a lui nello stesso 1966, la Jimi Hendrix Experience, e l’occasione di impressionare Eric Clapton in uno studio londinese (“Se ne andò [dopo aver suonato], e la mia vita non fu mai più la stessa” ha affermato Slow-hand nel 1989); il successo in Uk e l’entusiasmo di spettatori d’eccellenza come John Lennon, Paul McCartney, Jeff Beck, Pete Townshend, Brian Jones, Mick Jagger e Kevin Ayers che lo videro esibirsi al Bag O’Nails nel novembre 1966 (“Tutte le star erano là, e ho sentito dei commenti importanti, sai, tipo “merda”, “Gesù”, “cazzo” e altre parole anche peggiori” riporta Ayers nella sua testimonianza); il primo singolo, "Hey Joe", nel dicembre 1966 e il successo ancora maggiore con “Purple Haze” e “The Wind Cries Mary”; l’incendio della prima chitarra, per superare la spettacolarità degli Who; il primo leggendario album, “Are You Experienced” (1967), grande successo in Uk e Usa e libro sacro della chitarra psichedelica (bastino la title track e “Third Stone From The Sun” a dimostrarlo); il Monterey Pop Festival, con la sua esibizione storicamente e letteralmente incendiaria; un secondo album, “Axis: Bold As Love” (1967), con nuovi esperimenti sul feedback, il primo esempio registrato di stereo phasing, nuove invenzioni compositive di matrice psichedelica; “Electric Ladyland” (1968) e i definitivi capolavori come “Voodoo Child”, 15 minuti di psichedelia senza compromessi; “Woodstock” e l’inno americano distorto in segno di protesta (secondo Al Aronwitz del New York Post “the single greatest moment of the sixties”); la morte prematura nel 1970.
Tutta la breve ma fulminante carriera di Hendrix affianca e influenza la psichedelia, tanto negli Stati Uniti quanto in Gran Bretagna. Grazie a lui la chitarra ha potuto diventare uno strumento dalle infinite possibilità, perfetto per descrivere i viaggi lisergici più audaci.
Tim Buckley
Timothy Charles “Tim” Buckley III è stato in grado di traghettare la sperimentazione più intransigente nella musica tradizionale statunitense, fondendo folk, rock e psichedelia secondo una logica sbilenca, perennemente tesa alla ricerca di soluzioni innovative, atipiche e azzardate. La sua carriera è, in questo senso, una parabola sensazionale di evoluzioni portentose, che fanno assomigliare la sua discografia al percorso che alcuni grandi musicisti compiono nell’arco di diversi decenni. Tim Buckley questo percorso l’ha però sviluppato fra il 1966 e il 1975, quando muore ad appena 28 anni per overdose di eroina, lasciando i figli Taylor e Jeff, quest’ultimo destinato a una carriera musicale e una vita altrettanto brevi.
Tim Buckley ha dato alla voce quello che Jimi Hendrix ha dato alla chitarra: l’ha trasformata in uno strumento dalle infinite possibilità. Non più solo lo strumento asservito al testo, ma anche un portentoso veicolo melodico e struggente canto poetico, specchio dell’anima tormentata. C’è astrazione, nel canto di Tim Buckley, un’emancipazione dal contesto sociale e politico che pure era al centro dei cantanti coevi; ma lui era più interessato allo spazio infinito che si estende nei due cosmi, quello esteriore e quello interiore. In questo, l’arte di Tim Buckley è sovrumana: cerca di rappresentare il tutto e le sue contraddizioni, le più sconfinate bellezze dell’anima e dell’Universo. Per inseguire questo obiettivo irraggiungibile ha sperimentato sulla voce unendo il popolare all’avanguardistico, in un gioco di equilibri impossibili.
Padrone di una tecnica sopraffina, un controllo totale sulla propria voce, Tim Buckley è stato anche un compositore d’eccezione, che ha fatto suoi linguaggi profondamente differenti, fondendo free-jazz e gospel, folk e psych-rock, latino-americano e musica orientale, scheletrico cantautorato e maestosa musica da camera.
Come per alcuni artisti particolarmente creativi, è difficile inserirlo in una sola categoria, genere o stile. Sicuramente la ricerca psichedelica di rappresentare il visionario e l’onirico passa dall’uso innovativo della voce di Buckley, ben rappresentato dalla doppietta irripetibile del 1970, gli album “Lorca” e “Starsailor”. Figura tragica e commovente, Buckley rappresenta il lato più oscuro dei sogni di fine anni 60, una devastante discesa nell’abisso della solitudine e del malessere, compensata con allucinazioni, sogni e droghe, inevitabilmente seguite da dolore, delusioni e infine la morte. La sua parabola artistica è, anche in questo, paradigmatica del sogno americano del periodo, destinato a diventare un deludente incubo.
Alexander Spence
Abbandonati i Moby Grape, dopo le iniziali esperienze con Quicksilver Messenger Service e Jefferson Airplane, il chitarrista/batterista con seri problemi psichiatrici (nel 1967 dopo aver abusato di Lsd aveva tentato di colpire con un’ascia i Jefferson Airplane) Alexander Spence pubblica il suo unico album solista. La storia di Spence è molto particolare, per tanti versi simile al britannico Syd Barrett. Simile l’abuso di droghe, simile la diagnosi di schizofrenia e simile anche il folk sghembo del suo Lp “Oar” del 1969. Il risultato di quest’album registrato in poco più di 24 ore - dove Spence suona tutti gli strumenti - ha del miracoloso. Blues sgangherato, country con venature spaziali, canto psicotico, folk per ubriachi all’ultimo stadio, tutto in un susseguirsi senza sosta di tredici brani di un’originalità spiazzante. Tra questi spiccano “War In Peace” dal canto psichedelico estremo, il folk macabro di “Broken Heart”, il blues di “Little Hands”, il canto febbrile di “Diana” e la finale “Grey/Afro” capolavoro folk sommerso da fiumi di Lsd.
Bruce Palmer
Bruce Palmer inizia la sua carriera come parte di una delle leggende più note del folk-rock: i Buffalo Springfield. Palmer non rimane a lungo in quella band, complici problemi legali per il possesso di marijuana, ma riesce a ottenere facilmente un accordo per registrare un album per la Mgm. Bassista schivo, al punto da rivolgere spesso le spalle al pubblico durante i concerti, rivela una personalità unica con il suo unico disco solista.
“The Cycle Is Complete” (1970) arriva in un momento in cui le grandi case discografiche lancerebbero davvero qualsiasi cosa considerata psichedelica sul mercato discografico e Palmer si rivela abile a cogliere la palla al balzo. Lo fa, però, a modo suo. Chiama così a sé diversi musicisti ospiti, tra cui ben quattro membri dei Kaleidoscope. Questi non suonano tutti insieme, ma lavoravano a strati, sovrapponendo parti improvvisate su ciò che era già composto in studio. Il risultato finale è un suono molto libero, precursore di gran parte della world music e non dissimile da certi dischi sperimentali della Germania coeva. Se questo risultato fosse stato intenzionale o semplicemente accidentale, non ci è dato saperlo: Bruce Palmer ci ha così regalato un capolavoro di eclettismo psichedelico, tra liturgiche manipolazioni vocali ("Calm Before The Storm") e divagazioni di ethno-free-jazz (“Oxo”) dove la sezione ritmica gioca un ruolo fondamentale, creando un tappeto sonoro tribale in cui flauto e chitarra rifiniscono soltanto i dettagli di un paesaggio mozzafiato.
La nascita dell'acid-folk
Due gruppi in particolare sono stati fondamentali nella nascita dell'acid-folk, mescolando poesia e musica con sonorità dissacranti e anti-armoniche, lo sfondo perfetto per testi fortemente eversivi. In loro non c'è tuttavia la volontà di vivere l'esperienza musicale come un trip multi-sensoriale; anzi, si può dire che la musica sia solo la minima parte di un rituale arcano di esorcismo verso i mali della società. Influenzata da Allen Ginsberg e dai movimenti studenteschi, questa corrente troverà linfa musicale nell'eredità degli Holy Modal Rounders e dei Fugs, unita a quella più "mistica" di Pat Kilroy, gettando le basi per tutto quel folk allucinogeno ed esoterico, mistico quanto selvaggio, che si legherà poi alla concezione della musica come "esperienza" psichedelica.
Holy Modal Rounders
Nel 1964 a New York inizia la saga di un avveniristico duo, gli Holy Modal Rounders, composto da Peter Stampfel (violino, banjo, voce) e Steve Weber (chitarra, voce), che pubblicano su album omonimo una raccolta di brani tradizionali riarrangiati in chiave contemporanea, assieme a un paio di pezzi originali. Tra le molte riletture, bisogna menzionare la loro acre versione di “Hesitation Blues“, in cui vi è il primo uso del termine “psichedelico” nella musica popolare (“Got my psychedelic feet/ in my psychedelic shoes“): la loro iconoclastia del folk getta le basi per la musica più audace degli anni a venire, a cominciare da quella degli irriverenti Fugs, progetto in cui due degli Holy Modal Rounders confluiscono brevemente nel 1965. Stampfel e Weber continueranno poi a incidere fino agli Ottanta con la loro vecchia creatura, sfornando dischi degni della sbandatissima musica indipendente lo-fi degli anni Novanta (ricordiamo, a tal proposito, un disco come "Indian War Whoop" del 1969).
Fugs
Se non vuoi che l'America giochi un ruolo di secondo piano/ uccidi per la pace!
("Kill For Peace")
Nel frattempo, un anno prima, i Fugs emergono in quel di Manhattan guidati dai poeti Ed Sanders e Tuli Kupferberg, divenendo ben presto una parte fondamentale della controcultura americana, anche grazie alla loro amicizia con i fondatori degli Youth International Party, gli Yippies Abbie Hoffman e Jerry Rubin. Il primo incontro tra Sanders e Kupferberg avviene nella libreria "Peace Eye", luogo una volta sede di una macelleria Kosher. Il nome della band deriva da un sotterfugio usato da Norman Mailer nel suo romanzo "Il nudo e il morto", dove la parola era stata usata per aggirare la censura inevitabile di "fuck". Ovviamente, anche i Fugs si rivelano una band fortemente satirica, che non solo protesta apertamente contro la guerra in Vietnam, ma intinge anche le sue canzoni di testi umoristici e profani riguardanti temi tabù come il sesso e la droga. Il divertimento, però, non è fine a se stesso: i Fugs sono tra i più intransigenti attivisti e ambientalisti, fortemente critici nei confronti dell'autorità in generale.
Circondato da un vasto assortimento di rifugiati della scena folk newyorkese (tra cui Steve Weber e Peter Stampfel degli Holy Modal Rounders e il batterista Ken Weaver), il gruppo incarna l'approccio perfetto del do-it-yourself ancora prima dell'exploit punk di fine anni 70. L'approccio spesso schietto della band agli affari politici causa inoltre una reazione ostile persino dell'Fbi, che menziona più volte i Fugs per le loro canzoni "volgari e ripugnanti".
L'esordio noto come "Virgin Fugs" o "First Album", a dispetto della poca originalità del titolo, nasconde al suo interno una stravaganza fino ad allora probabilmente mai esistita all’interno del rock, anticipando quella che sarà la corrosiva satira musicale di Frank Zappa e il proto-punk di David Peel. Il debutto dei Fugs è scandalosamente schietto, una rumorosa baraonda di acidi lamenti e canti bellici, una guerra al perbenismo affrontata a muso duro tra poetici riverberi della Beat Generation e prodromi di musica punk, nel mezzo di lampanti citazioni di William Blake (“Ah, Sunflower Weary Of Time”) e scabrosi inni sessuali (“Boobs A Lot”). L'album omonimo del 1966, registrato con nuovi musicisti e con le note di copertina firmate da Allen Ginsberg, mostra uno stile meno grezzo e più compatto, sintetizzato dalla feroce ballata di protesta "Kill For Peace". Nel repertorio vale la pena menzionare anche "Virgin Forest", uno dei primi brani-collage della storia.
Nel 1967 la band firma brevemente con la Atlantic Records mettendo insieme un album che non è mai stato pubblicato, mentre la precedente label, la Esp, recupera alcuni nastri e mette a punto un disco a nome "Virgin Fugs". Quello stesso anno, i Fugs conducono un coinvolgente esorcismo nei pressi del Pentagono, suonando sul retro di un camion.
Prima che la saga dei Fugs termini con la rottura nel 1969, la band registra altri quattro album per la Reprise Records, tra cui "Tenderness Junction" (1967), "It Crawled Into My Hand, Honest" (1968), "The Belle Of Avenue A"(1969) e il live "Golden Filth" (1970). Negli anni tra la separazione e la reunion della band nel 1984, i fondatori dei Fugs hanno continuato a produrre importanti opere soliste, musicali e letterarie, tra cui il bestseller di Sanders dedicato alla "Famiglia" di Charles Manson.
I Serpent Power, una delle tante meteore della stagione psichedelica, hanno realizzato un unico album, prima di sparire fugacemente dalle scene. Questa band di ben sette elementi - che spesso nei live si estendeva fino a dieci - pubblica il suo primo album omonimo nel 1967 per la Vanguard, in bilico tra folk e blues, sulla scia di Jefferson Airplane ("Open House"), Doors ("Endless Tunnel") e Country Joe And The Fish ("Sky Baby").
La voce è quella dei coniugi-poeti Tina e David Meltzer, che si spartiscono il repertorio in una serie di brani cristallini, guidati da chitarre e organo.
Dopo le deludenti vendite dell'album, la band si scioglie e la coppia pubblica assieme l’ottimo "Poet Song" nel 1969, prima di cadere definitivamente nell'oblio.
West Coast Pop Art Experimental Band
Sono assai divertenti quelle storie che nascono dal mecenatismo dei più improbabili. Nel caso della West Coast Pop Art Experimental Band, il ruolo improvvisato di mecenate è del tale Bob Markley, figlio adottivo di un magnate del petrolio che dall’Oklahoma si era da poco trasferito a Los Angeles. Proprio in un party nella metropoli californiana, il giovane paperone incontra tre ragazzi eccentrici (i fratelli Shaun e Danny Harris e Michael Lloyd) e si offre di finanziare la band con la sola promessa che avrebbe suonato il tamburello sul palco e preso parte alla creazione dei pezzi; un patto così vantaggioso a cui il gruppo non può che dare hic et nunc il suo totale consenso. È così che la band inizia a suonare nei club e registra un disco del tutto disomogeneo e, nel suo dilettantismo, composto da melodie semplici e tante cover. Insomma, nulla che potesse stare al passo con il moniker apertamente "sperimentale" scelto dalla band - non che il titolo del disco, poi, fosse particolarmente originale ("Volume 1", 1966). La band tuttavia non si arrende e riparte grazie all’aiuto di Kim Fowley (presente sul primo album in “Insanity”), diventando subito ospite fissa ai vari happening che si svolgono a Los Angeles.
Nel 1966 arriva il contratto con la Reprise con cui pubblicano subito “Part One” (1967). Già dal brano di apertura "Shifting Sands", plasmato da un ritmo piuttosto ossessionante, si capisce come la band sia entrata in studio con un altro spirito. Nel disco compaiono anche numerose cover - le più eccentriche “Help Me I’m A Rock” di Frank Zappa e “High Coin” di Van Dyke Parks - e alcuni brani originali, come la psichedelia romantica di “I Won’t Hurt You” e le melodie byrdsiane di “If You Want This Love”. Ancora orientato alla forma-canzone, l'album si distingue però per le alcune divagazioni più schizofreniche e sperimentali, sponda Zappa e Beefheart.
Nel 1967 è il turno di “Volume 2 (Breaking Through)", dove nel brano “Buddha” compare per magia anche il sitar. Con “Volume 3: A Child’s Guide To Good & Evil” le tematiche si legano a quelle belliche (“Eighteen Is Over The Hill”, "Until The Poorest Of People Have Money To Spend”, "A Child Of A Few Hours Is Burning To Death"), con una cover-art in bianco e nero che ben presagisce la musica ossessiva contenuta al suo interno.
Il gruppo registra poi “Where’s My Daddy” nel 1969, disco pregevole ma decisamente più rock-oriented. Sempre nel 1969 esce un album a nome “Markley, A Goup” che in realtà non è altro che il quinto disco della WCEAPB. La storia del gruppo finisce qui. Tra i progetti paralleli più interessanti vale la pena segnalare gli October Country di Michael Lloyd che nel 1968 registrano l’album omonimo; nello stesso anno, sempre Lloyd si rende partecipe della breve saga power-pop degli Smoke.
La scena di Boston
Nella capitale del Massachusetts ha luogo il fugace e poco fortunato esperimento del “Bosstown Sound”, movimento che rappresenta il tentativo della Mgm e del suo supervisore Alan Lorber di ricreare la scena di San Francisco in maniera artificiale in quel Boston. I risultati saranno a volte discutibili: lungi da noi tracciare un quadro definitivo che risulterebbe dispersivo e poco edificante, quello che segue è una disamina delle band che riteniamo più convincenti e rappresentative.
Per un ascolto completo vi rimandiamo alla compilation “Bosstown Sound, 1968: The Music & The Time” (Big Beat, 1996).
Beacon Street Union
Nel 1966 i Beacon Street Union si formano per mano del tastierista Robert Rhodes, che recluta alcuni suoi amici del college e qualche amico d'infanzia. Il quintetto si fa le ossa in quel di Boston, suonando del rock grezzo con forti venature hard-blues. È tuttavia a New York che avviene il salto di qualità, grazie all'incontro con il produttore indipendente Wes Farrell, che li spinge tra le pareti di uno studio di registrazione. All'insaputa della band, giunge a sorpresa un contratto con la Mgm, con cui pubblicano il primo Lp "The Eyes Of The Beacon Street Union" nel 1968. Le ingerenze dell'etichetta sono pesanti, forte era la smania di registrare un album tardo-psichedelico in "stile Boston". La campagna pubblicitaria si fa pertanto ingente, tanto che il disco cattura con disinvoltura l'attenzione della stampa ma non convince del tutto, soprattutto per la differenza di qualità tra i due lati del vinile (la seconda metà pare decisamente più convincente rispetto alla prima, che scorre indolente con una psichedelia sbiadita e annacquata).
A giugno dello stesso anno, i Beacon Street Union si ritrovano ancora a New York al lavoro per il secondo album. Farrell spinge parecchio per comporre un concept-album, ma il materiale scritto fino ad allora è scarso e il gruppo si trova costretto a scrivere rapidamente durante le sessioni di registrazione. Le intenzioni dei Beacon Street Union erano quelle di mettere su disco l'energia delle loro esibizioni dal vivo, tuttavia il risultato è ancora ribaltato dalle ingerenze orchestrali adottate dalla produzione. In "The Clown Died In Marvin Gardens" (1968) l'unico impulso rock della band è dato dalla cover un po’ fuori luogo di "Blue Suede Shoes", mentre "May I Light Your Cigarette" ci fa presagire il lato più sperimentale, rimasto solo in potenza. Tra gli episodi più originali anche la conclusiva “Please Don’t Go”, strano prototipo di acid-rock’n’roll. Volendo prendere le distanze dal passato, nel 1969 il quintetto cambia identità e si reinventa come Eagle. Con una line-up parzialmente rinnovata arriva anche un suono più rock e diretto, privo delle delle orchestrazioni in studio degli album precedenti.
Ultimate Spinach
A Boston si fa strada pure un’altra band dal nome culinario, trovando più fortuna grazie a un frontman-polistrumentista assai carismatico come Ian Bruce-Douglas, accompagnato da Barbara Hudson (voce), Geoff Winthrop (chitarra), Richard Nese (basso) e Keith Lahtenein (batteria). Contemporaneamente al debutto dei Beacon Street Union, nel gennaio del 1968 viene alla luce anche il primo album omonimo degli Ultimate Spinach. Un disco che è "cibo per la mente", secondo Ian Douglas, la cui voce echeggia seducente sin dalle prime note di "Ego Trip" e ricopre tutte le note di copertina con le sue visioni. Sin da subito è chiaro l'alto tasso di psichedelia e Lsd presente nei testi, a volte persino esagerati, come è il caso di “Ballad Of The Hip Death Goddess”, capace quasi di visualizzare e anticipare certe tendenze della musica goth. C'è inoltre un'ampia varietà di effetti sulle chitarre e un suono generalmente più avvincente e meno ingenuo di quello dei loro compaesani. Un disco che è stato rivalutato - a ragione - nel corso degli anni, svilito per molto tempo dal contesto in cui è nato.
Nel secondo "Behold And See" (1968) cambiano la produzione e il mood della band - si dice persino svogliata - durante le registrazioni, seppur con un risultato finale più compatto a livello sonoro. Manca la forza motrice del primo Lp, ma tra gli spunti interessanti vale la pena menzionare il country-folk con armonica di "Fifth Horseman Of The Apocalypse" e la narcotica ballata di “Wild Flowers”. Il terzo album del 1969 chiude di fatto le brevi vicende del Bosstown Sound. A sostituire il leader della band ci pensa Jeff "Skunk" Baxter, che sarebbe diventato famoso negli Steely Dan. La Boston psichedelica, invece, non avrebbe avuto la stessa fortuna.
Freeborne
Non possiamo infine evitare di citare i Freeborne. Non reclutati dalla Mgm, ma sempre associabili allo stile Bosstown, si distinguono per la loro gemma solitaria di "Peak Impressions" (1968), stampata su etichetta Monitor. I cinque giovanissimi componenti della band prendono il loro nome dal film "Born Free" e, in effetti, la loro musica non poteva essere più libera di così. Nonostante avessero meno di vent'anni, è significativo il fatto che siano stati capaci di produrre una psichedelia ad alto tasso orchestrale - violino, trombe, flauti, tastiere - seppur forse a volte forzata da un eccessivo entusiasmo giovanile. Se i tempi dispari di "Land Of Diana" già prefigurano alcuni elementi del futuro progressive, la suite "Peak Impressions And Thoughts" sembra provenire dalla mente dei Pink Floyd barrettiani.
Tra gli altri piacevoli atti del Bosstown Sound citiamo per completezza anche Orpheus, Flat Earth Society, Ford Theatre e Chameleon Church, ma il meglio - secondo la nostra umile opinione - è tutto qui.
Blue Cheer
Fra i grandi nomi della scena di San Francisco ci sono i Blue Cheer, pionieri dell’heavy-metal e giganti dell’hard-psych. A loro si possono ricondurre le idee che saranno negli anni 80 e 90 dello stoner-rock e dello stoner-metal. Per alcuni storici la loro versione incendiaria, dinamitarda e distortissima di "Summertime Blues", il classico di Eddie Cochran del 1958, potrebbe essere il primo brano heavy-metal. Il famoso chitarrista dei Cream Eric Clapton e il cantante dei Rush Geddy Lee concordano nel ritenerli i padri fondatori del genere, mentre Jim Morrison li considerava “la band più potente che abbia mai visto”. Prendono il loro curioso nome da un tipo di Lsd prodotta da Owsley Stanley, ingegnere del suono vicinissimo ai Grateful Dead e grande sacerdote della psichedelia.
Nascono nel 1967 da un’idea di Dickie Peterson, bassista e cantante, affiancato da Leigh Stephens alla chitarra e Paul Whaley alla batteria. È questa la formazione che registra l’esordio leggendario, “Vincebus Eruptum” (1968), dal titolo in pseudo-latino e dal sound estremo, che porta il blues-rock verso i confini dell’heavy-metal. Considerato da Billboard “l’epitome del rock psichedelico”, quest’album contiene non solo "Summertime Blues", ma anche un’avventurosa “Doctor Please” e una generica orgia continua di decibel, feedback e distorsioni assordanti che accomuna tutti i brani (3 cover stravolte e 3 originali).
Stephens cosparge con il suo fuzz tutti gli arrangiamenti, come lava incandescente, mentre Whaley percuote con veemenza le pelli, quasi fosse in corso un rituale assordante. Il paragone, pur frequente, con Jimi Hendrix rischia di essere fuorviante: Stephens punta tutto sulla potenza dei feedback e degli amplificatori perennemente al massimo, lasciando da parte i virtuosismi. Sono 32 minuti che suonano, anche cinquant’anni dopo, come una caotica avventura fra le più devastanti dell’intera psichedelia americana.
Il secondo “Outsideinside” (1968), pubblicato appena 7 mesi dopo, è l’ideale completamente della fondazione dell’heavy-psych. Appena più educato nei volumi, è un album parimenti influente, che smussa gli spigoli solo per focalizzare maggiormente l’attenzione sulla fase compositiva. La splendida “Feathers From Your Tree” potrebbe essere il manifesto dello stile e ben evidenzia le vicinanze con il più spettacolare e muscolare dei prog-rock, un aspetto spesso passato in secondo piano. La delirante “Just A Little Bit” è un mostro di distorsioni che spaventa per il suo impatto fisico terremotante e ben si accoppia con l’altrettanto devastante “Come And Get It”.
Una formazione priva di Stephens, sostituito dal grande chitarrista Randy Holden, e ampliata a un quartetto con tastiere registra poi “New! Improved!” (1969), con gli episodi più heavy-psych proprio dello stesso Holden. Complessivamente, però, si è persa la carica travolgente delle opere precedenti.
“Blue Cheer” (sempre 1969), con Holden sostituito da Bruce Stephens, è l’album dell’abbandono della psichedelia, con un sound blandamente folk-rock e hard-rock, ben poco creativo. Ci ripensano con “The Original Human Being” (1970), dove impiegano persino un sitar e un sintetizzatore per produrre il loro primo e unico raga, “Babaji”. È un ultimo sussulto prima del declino. Esce un ultimo album, il folk-oriented “Oh! Pleasant Hope” (1971), poi la band si scioglie fino al 1984, quando ritorna brevemente e pubblica “The Beast Is Back” (1984), con diverse versione registrate di nuovo dei vecchi classici. Holden ha invece trovato il suo capolavoro psichedelico in un album solista del 1970, "Population II", capace di far apparire moderati i volumi assordanti dei Blue Cheer.
Vanilla Fudge
La carriera dei Vanilla Fudge - Mark Stein (organo e voce), Tim Bogert (basso e voce), Vince Martell (chitarrista/cantante) e Carmine Appice (batterista) - è curiosamente collegata ad arrangiamenti pomposi, psichedelici e assordanti di classici contemporanei. Chiamati così perché la Atlantic Records proprio non voleva assoldare un gruppo chiamato Pigeons, i Vanilla Fudge, dal nomignolo di una barista con cui la band ha attaccato bottone durante un concerto nell’aprile del 1967, hanno trovato il successo con una versione stravolta di “You Keep Me Hangin’ On”, brano già portato al successo dalle Supremes. Forse soltanto involontariamente ironica, questa versione suona come una parodia dinamitarda della hit del gruppo femminile, esaltante nel suo contrasto fra melodie accattivanti e distorsioni di chitarra assordanti. A caratterizzare pesantemente il brano c’è l’organo, capace di conferire maestosità al brano secondo una dinamica che diventerà poi molto cara ai Deep Purple.
L’esordio “Vanilla Fudge” (1967) contiene solo cover, suonate a metà della velocità e al doppio del volume originate, riarrangiate per dare spazio all’organo. Nessuno dei brani può neanche lontanamente rivaleggiare con la loro prima hit. Visto che il trucco della cover stravolta rimane la loro principale trovata creativa, nel secondo album “The Beat Goes On” (1968) la estendono alla musica classica, secondo una logica del collage che si trova e metà fra la psichedelia e il prog-rock. Fra le pieghe di tante citazioni e rivisitazioni, è viva una fiamma di hard-rock psichedelico ed esplosivo. Finalmente arrivano le composizioni originali con "Renaissance" (1969): la grandiosa avventura lisergica di “The Sky Cried/When I Was A Boy”, una versione prog-rock di Jimi Hendrix; "Paradise", davvero simile ai futuri King Crimson e quindi un brano rilevante per tutto il prog-rock romantico; “Faceless People”, una ballata elettrica che sfocia in una danza distorta medievaleggiante; “Season Of The Witch”, un brano d’atmosfera, altamente immaginifico e spiccatamente teatrale, che esplode nel finale.
La band sembra comunque incapace di mettere a frutto il proprio estro creativo, così per “Near The Beginning” (1969) cambia di nuovo proposta, passando dal prog-rock allucinato e romantico alla jam della lunghissima “Break Song”, 23 minuti di bordate assordanti, fischi, feedback, assoli, divagazioni e duelli strumentali fra i musicisti. Un esercizio a tratti estenuante, ma in linea con uno spirito pirotecnico che troverà molti proseliti nell’hard-rock e nell’heavy-metal che verranno (come non pensare ai futuri live-maratona dei Dream Theater?). Su “Rock & Roll” (1969) troviamo il loro capolavoro, “I Need Love”, un boogie a doppia velocità, talmente sconvolgente da far sembrare timidi i Blue Cheer. È un canto del cigno, perché dopo si scioglieranno per tornare in studio solo nel 1984 e poi ancora negli anni Duemila.
Grand Funk Railroad
Nel 1969 il chitarrista Mark Ferner e il batterista Don Brewer si uniscono a Mel Scacher, bassista, per formare una delle band di maggiore successo provenienti dal Michigan. Per il nome scelgono un gioco di parole sulla Grand Trunk Western Railroad. Il primo album, “On Time” (1969), li presenta come una band hard-rock e hard-blues, vicina allo stile dei Cream, ma con importanti aperture psichedeliche (“Anybody’s Answer”, “Heartbreaker”, “Can’t Be Too Long”), tanto da farli annoverare fra i fondatori dell’heavy-psych.
Il secondo “Grand Funk” (1969), anche conosciuto come “The Red Album” per via della copertina, è il loro maggiore contributo alla psichedelia americana. In boogie corazzati come “Got This Thing On The Move” e “Mr. Limousine Driver” rivive lo spirito dei Cream ed è presente l’istrionismo di Jimi Hendrix, mentre i brani estesi “In Need”, “Paranoid” e l’assordante “Inside Looking Out” sono sovrabbondanti di decibel, feedback e distorsioni, dilatazioni acide e mitragliate ritmiche.
L’apice di questo periodo è forse “Closer To Home” (1970), un lungo rito allucinato condito di volumi improponibili che sfoggia tutto l’istrionismo strumentale e la spettacolarità della formazione già nell’apertura di “Sin’s A Good Man’s Brother”. Altre perle psych-rock come “Mean Mistreater” e “Get It Together” si alternano però a gioielli di hard-prog (“Closer To Home”) ed episodi più tipicamente hard-rock.
Il “Live Album” del 1970 chiude idealmente il loro periodo d’oro, con una carriera che si dilunga poi verso territori meno psichedelici e più hard-rock e blues. Sono loro uno dei gruppi di maggior successo del biennio 1969-1971: collezionano con “On Time” il disco d’oro, il platino con “Grand Funk”, il doppio platino con “Closer To Home” e ancora un platino a testa per gli album del 1971, “Survival” e “E Pluribus Funk”. Il già citato “Live Album” guadagna un incredibile doppio platino, cosa rara per un documento dal vivo.
Da sempre invisa alla critica, che ne evidenzia lo stile ruffiano, reso al meglio in concerti oceanici e leggendari, la band conosce un lento declino commerciale dalla seconda metà degli anni 70, ma continua a pubblicare opere in studio fino a “What’s Funk” (1983) e documenti live fino al 2002 (“Live: The 1971 Tour”).
Captain Beyond
Semisconosciuti ma una delle più grandi band heavy-psych di sempre: così si potrebbe riassumere, in estrema sintesi, la vicenda dei Captain Beyond. Praticamente furono un supergruppo, con al canto Rod Evans (ex-Deep Purple), alla batteria Bobby Caldwell (ex-Johnny Winter), alla chitarra Larry "Rhino" Reinhardt (ex-Iron Butterfly) e al basso Lee Dorman (ex-Iron Butterfly). Curiosamente influenzato dalla musica latinoamericana e dal jazz, ma tenuto insieme da forti venature psichedeliche e da un’anima hard-rock, il loro è solo illusoriamente un album di canzoni. Sono tre lunghe improvvisazioni a dominare l’opera, interessanti perché fondono varie melodie e idee in lunghi flussi sonori, che vanno dalla magistrale “Dancing Madly Backwards” al puro delirio acido di “Myopic Void”, cavalcata in crescendo e accelerando da antologia. La jam più psych-folk di “Thousand Days Of Yesterdays” comprende comunque l’assalto dinamitardo di "Frozen Over". La conclusiva “I Can't Feel Nothin'”, in 5 parti, alterna staffilate hard-rock a pure visioni lisergiche. Quel che resta fuori dalle jam sono un arrembante assalto chitarristico come “Mesmerization Eclipse” e un proto-stoner-rock schizofrenico quale “Raging River Of Fear”, non proprio dei filler. Fra prog-rock, hard-rock e psych-rock, l’esordio dei Captain Beyond fornisce un’ottima idea di come l’idea di musica lisergica evolverà dopo gli anni 70.
Il secondo “Sufficiently Breathless” (1973), suonato da un sestetto, cambia però completamente le carte in tavola: molto più Santana che Black Sabbath, molto più jazz da cena romantica borghese che psichedelia esuberante da controcultura. Molte e marcate influenze prog-rock, diversi passaggi che tendono all’acustico. In fondo anche questa è un’evoluzione della psichedelia americana, anche se non proprio la più creativa: “Voyages Of Past Travellers” è però un bad trip da manuale.
La band, a causa di tensioni interne, si scioglie, riformandosi brevemente per il tour di addio di Rod Evans alla musica. A parziale ripensamento della direzione intrapresa, arriva “Dawn Explosion” (1977), con una formazione rimaneggiata a 5. È un album di hard-and-heavy elaborato, con la psichedelia ridotta a mero dettaglio di contorno (“Space Interlude” e “Space Reprise”). Si sciolgono ancora nel 1978, salvo ripensarci dopo vent’anni esatti. Nemmeno la morte nel 2012 di Larry Reinhardt impedisce a Caldwell di riformare la band nel 2013.
Mountain
Dimenticati quasi da tutti, i Mountain sono stati in realtà una formazione fondamentale dell’heavy-psych. Il merito è in primis di Leslie West, un chitarrista di grande talento che unisce i riff hard-blues di Eric Clapton alle estrosità psichedeliche di Jimi Hendrix. Prima attivo nei Vagrants, West coinvolge Felix Pappalardi, ex-collaboratore e produttore dei Cream, per trovare il tanto agognato successo. Inizia con un progetto a nome suo e con un album intitolato “Mountain” (1969), dove imita i suoi idoli e canta con il ruggito di un soulman bianco d’esperienza. West decide di formare una band prendendo ispirazione dal suo primo album. Dopo una dimenticata esibizione a Woodstock (la band non compare nel docu-film né nella compilation della colonna sonora) e un cambio di formazione, finalmente arriva l’album d’esordio dei Mountain, opportunamente intitolato “Climbing!” (1970). Il quartetto vede West e Pappalardi, rispettivamente chitarra e basso, alternarsi anche alla voce, mentre il nuovo arrivato Corky Lang si occupa di batteria e percussioni e Steve Knight si divide fra organo e mellotron. L’album è un classico dell’heavy-psych di primaria importanza. Contiene la travolgente “Mississippi Queen”, degna dei Black Sabbath fusi con i Cream e grande show chitarristico di West. Bissano la potenza “Never In My Life”, roba da far impallidire i Led Zeppelin, e “Sittin’ On A Rainbow”, proto-stoner-metal in piena regola, con un uso allucinato del basso distorto. L’opera è anche segnata da un creativo approccio alla psichedelia, attraverso ballate affogate nelle distorsioni (“Theme For An Imaginary Western” e “For Yasgur’s Farm”, vicine alla poesia di Neil Young), un hard-blues-rock acido (“Silver Paper”) e uno psych-folk strumentale (“To My Friend”) che anticipa un disorientante folk cantato (“The Laird”, in pieno trip). L’amalgama fra afflato soul e potenza rock è tenuto insieme dalle bave elettriche e dal moltiplicarsi delle voci, secondo un affastellarsi allucinogeno degli elementi, al limitare del caos. Ci sono quindi molti motivi per considerare “Climbing!” una gemma dimenticata.
Appena 10 mesi dopo, nel novembre 1971, arriva “Flowers Of Evil”, con un hard-blues da antologia come la title track e qualche sfumatura psych-rock in “One Last Cold Kiss” e nella coda di “Pride And Passion”. La seconda parte dell’album è soprattutto un verboso show personale di West, che con la sua “Dream Sequence” occupa 25 minuti per una jam di hard-rock abbastanza canonico.
Forse cosciente di un declino inarrestabile, la formazione si scioglie. Il mediocre documento “Mountain Live: The Road Goes Ever On” (1972) non rende giustizia alla loro breve ma luminosa carriera, cosa che invece riesce a fare “The Best Of Mountain” (1973). Cambiata la formazione, la band si riforma intorno a West e Pappalardi per “Avalanche” (1974), in puro hard-rock e con una curiosa cover rallentata della “Satisfaction” dei Rolling Stones. Si sciolgono di nuovo nel 1974, con l’addio di Pappalardi, ma nel 1981 West ci riprova con una nuova line-up, giusto il tempo per pubblicare il mediocre “Go For Your Life” (1985) e dedicare un concerto al compianto Pappalardi, ucciso dalla moglie nel 1983.
Altri 9 anni di silenzio, poi nel 1992 West ritorna, cambia e ricambia i musicisti della rediviva band e infine nel 1996 arriva a pubblicare “Man’s World”, che abbraccia anche suoni più heavy-metal. Nel 2007 pubblicano un album di cover di Bob Dylan, “Masters Of War”: nulla è rimasto dell’originario e curioso amalgama di hard-rock, heavy-metal e psych-rock di un tempo.
Sir Lord Baltimore
Fra le grandi band dimenticate della psichedelia più vicina all'hard-rock e all'heavy-metal ci sono i Sir Lord Baltimore da Brooklyn, col senno di poi anche fra i primi ad avvicinarsi alla potenza allucinata dello stoner-rock. Nell'eterna diatriba sul primo utilizzo del termine "heavy-metal", sono inclusi anche loro, riferendosi a una recensione sulla rivista Creem del 1971. Peccato che lo stesso recensore avesse usato la medesima etichetta sei mesi prima per gli Humble Pie. L'esordio “Kingdom Come” (1970) è uno degli album più esaltanti del periodo, anche se ingiustamente trascurato dalla storiografia rock. Oltre al cantante batterista Garner, si distingue il lavoro alla chitarra di Louis Dambra, capace di incendiare ogni brano con riff hendrixiani a profusione, abbondando di distorsioni e di decibel con spavalderia. Basterebbe la title track in apertura per parlare di pietra miliare dell'heavy-psych: 6 minuti che fanno sembrare timidi gli Iron Butterfly più aggressivi, suonando come un viaggio nel futuro di almeno un lustro in termini di esaltante potenza sonora. Tutto è stato registrato a volumi esagerati, spesso anche a velocità sostenute, come è il caso di “I Got A Woman” e dell'invasata “Hell Hound”, con acuti degni della new wave of british heavy metal che verrà. “Helium Head (I Got A Love)” e “Ain’t Got Hung On You” arrivano a sfiorare persino lo speed-metal. Il rock'n'roll a rotta di collo di "Pumped Up", insieme all'orgia di eccessi chitarristici di "Lady Of Fire" e ail suono pesante di "Master Heartache", contribuisce a rendere questo esordio imperdibile e senza alcun calo di tono. Le canzoni dell'opera, scritte e arrangiate con l'aiuto di quel Mike Appel che diventerà in seguito il manager di Bruce Springsteen, sono illuminate dalla produzione di Eddie Kramer, già al lavoro con Jimi Hendrix, Beatles, Rolling Stones, David Bowie e Curtis Mayfield. Proprio l'uso massiccio del multi-traccia, soprattutto per la chitarra, conferisce agli arrangiamenti una spazialità tipicamente psichedelica, costruendo un suono quantomai tridimensionale, che pare appartenere a un'epoca successiva. Miracolo non ripetuto in “Sir Lord Baltimore” (1971) e tantomeno su “Sir Lord Baltimore III Raw” (2006), opere che comunque non scalfiscono il valore del loro eccellente esordio.
Josefus
Da Houston, Texas, arriva una delle band dimenticate fra quelle che hanno favorito la nascita dell'heavy-metal, sul versante psichedelico. Quando ancora nel grande stato del Sud non esisteva una scena "hard & heavy", i Josefus sono stati portavoci di uno stile che suona come una interpolazione fra la scuola hard-rock inglese (Led Zeppelin e Black Sabbath su tutti) e la tradizione statunitense, con una tangibile sfumatura allucinata. L'opera che meglio racchiude il loro lascito è “Dead Man” (1970): 5 canzoni, un brano breve di heavy-metal graffiante e una lunga jam. Orientata al "lento e pesante" in brani come Country Boy e vicina a Jimi Hendrix nella movimentata “Proposition”, la formazione trova nella conclusiva title track il proprio vertice creativo: gorghi psichedelici di chitarra affiancano un passo blues e introducono le chitarre acide, aprendo per il canto; tornano protagonisti gli strumenti poco dopo, procedendo per lunghi assoli di chitarra fino a un’accelerazione rock'n'roll che porta inevitabilmente alla ripresa finale. Con questa jam scrivono una versione statunitense, estesa e più libera di “War Pigs”, il brano d'apertura di "Paranoid" dei Black Sabbath che sarebbe stato pubblicato una manciata di mesi dopo. Il secondo “Josefus” (1970) si limita a 10 canzoni, senza replicare il brano esteso. “I'm Gettin' On” è uno dei più possenti heavy-metal del periodo, degno dei più distorti MC5.
Dust
Richie Wise, Kenny Aaronson e Marc Bell formano nel 1969 i Dust, che debuttano nel 1971 con l’album omonimo sulla scia dei Blue Cheer. L’arrembaggio hard-blues di “Stone Woman”, l’andamento lento e pesante di “Chasin’ Ladies” e la trascinante “Love Me Hard” parlano chiaramente il linguaggio del proto-metal di grande caratura. Più d’interesse per chi è incline ad ascolti psichedelici, invece, una coppia di brani che arrivano quasi a fine disco: la lunga, tormentata ed esotica visione desertica di “From A Dry Camel”, un brano che anticipa le scorribande hard-psych di molti gruppi stoner-metal degli anni 90, e la sinuosa e onirica “Often Shadows Felt”, tutta giocata su una chitarra filtrata dal profondo della galassia sotto forma di sibili sguscianti.
C’è tutto per aspettarsi un clamoroso secondo album, invece “Hard” (1972) propone un elaborato hard-rock nel migliore dei casi, mentre altrove arretra verso un rock più morbido, con tanto di arrangiamenti di archi e ballate romantiche. C’è giusto il tempo di un nuovo hard-blues acido degno dei Blue Cheer, “Suicide”, e di un ultimo viaggio hard-psych onirico, “Learning To Die”. Dopo ciò, la band si scioglie per lo scarso successo e per la volontà di Wise di darsi al ruolo di produttore: sarà lui l’uomo che compare in quelle vesti nei primi due album dei Kiss. Marc Bell finirà persino nei Ramones a sostituire Thomas Erdelyi, mentre Aaaronson suonerà con artisti del calibro di Bob Dylan, Joe Cocker, Blue Öyster Cult e New York Dolls.
Ant Trip Ceremony
Proviene dagli Utah una delle band meno note della scena, persino ai contemporanei. Gli Ant Trip Ceremony pubblicano un solo album nel 1968 (“24 Hours”), stampato in appena 300 copie, che è più che altro una sorta di reperto archeologico di un tentativo semi-dilettantistico di abbozzare un’idea di libertà e espressività giovanile.
Tra il consueto acid-rock e l’ennesima cover di “Hey Joe” spiccano però due brani: il trip psichedelico strumentale di “Elaborations”, degno di una band di maggior calibro, e il blues allucinato di “Four In The Morning”, arricchito con flauto e ricordi vagamente proto-progressive.
Neighb'rhood Childr'n
Provenienti dall’Oregon, i Neighb'rhood Childr'n registrano il loro unico Lp omonimo nel 1968 a San Francisco, nel pieno dell’esplosione della contestazione giovanile. Con due chitarristi (Rick Bolz e Ron Raschfoprd), un batterista (W.A. Farrens), una cantante (Dyan Hoffman) e senza bassista, propongono un suono psichedelico semplice ma con idee abbastanza chiare. Spiccano le lisergiche “Feeling Zero” e “Chocolate Angel”, le palesi influenze dei Jefferson Airplane di “Changes Brought To Me”, accompagnate da una serie di bizzarrie tra cui la cover urlata di “Over The Rainbow” di Judy Garland.
Amboy Dukes
Poca psichedelia ma tanta energia per la band di Chicago del funambolico chitarrista Ted Nugent. Gli Amboy passano alla storia soprattutto per la tecnica aggressiva che dà vita al classico “Baby Please Don't Go” del primo album omonimo (1967), al blues sofferto di “Mississippi Murderer” e alla sfuriate chitarristiche quasi inaudite per l’epoca di “Surrender To Your Kings” dell’album “Journey To The Center Of The Mind” (1968), la cui title track è stata anche oggetto di cover da parte dei Ramones.
Nel terzo “Migration” (1969) ormai il confine con l’hard-rock è molto labile, in particolare in “Prodigal Man” segna la virata verso i sogni in tempi dispari del progressive rock ma un po' ovunque l’impressione generale è che gli anni 60 siano al loro canto del cigno. Ted "Terrible" Nugent troverà più notorietà nella sua carriera solista.
Electric Flag
Anomali e solo marginali alla scena psichedelica, gli Electric Flag nascono nel 1967 dalla mente del chitarrista blues Mike Bloomfield - ex-Butterfield Blues Band - dopo l’incontro a San Francisco con l'organista Barry Goldberg, il batterista Buddy Miles e il cantante Nick Gravenites. La diversità della band sta nell’aggiunta di un’ampia sezione sezione di fiati che ne fa un insolito ibrido di jazz e psichedelia, un bizzarro ed evocativo jazz-pop che nasce nel 1967 con la colonna sonora del film di Roger Corman “The Trip” e continua nel 1968 con “A Long Time Comin”, buoni esperimenti di blues rivisitato con uno sguardo rivolto verso le complesse strutture del jazz.
HP Lovecraft
A Chicago si formano i H.P. Lovecraft che, pur prendendo il loro nome dallo storico scrittore americano, hanno poco a che fare con le atmosfere malsane dei suoi romanzi. Hanno registrato solo due album, molto legati al folk-rock, con crescenti dosi di elementi acidi. Il loro esordio omonimo del 1967 è di pura matrice folk in stile Byrds, senza però avere equivalenti capacità tecniche e melodiche. Si salvano l’ottima ballata lisergica di “White Ship” e alcuni classici brani folk a due voci, come ad esempio “Wayfaring Stranger”, che ricorda da vicino i Jefferson Airplane. Il successivo “H. P. Lovecraft II” (1968) è decisamente più maturo e complesso, virante verso atmosfere maggiormente ipnotiche e virtuosismi al limite del proto-prog. Tra questi spiccano il brano sperimentale “Electrollentando”, al limite tra avanguardia, raga indiano e canto vagamente simile a Tim Buckley, figlio della commistione tra cultura occidentale e orientale tipica del mondo hippie. “Mobius Trip” è una sorta di ninna nanna psichedelica, mentre il capolavoro dell’album è “At The Mountain Of Madness”, tanto complesso e maturo da potersi collocare tra acid-rock e progressive.
Morly Grey
Nati nel 1969, i Morly Grey dall’Ohio sono una presenza quasi ectoplasmatica: un solo album all’attivo, a volte erroneamente considerato del 1968 o nel 1969, anche se è stato ufficialmente pubblicato solo nel 1972. Persino sul titolo c’è confusione, con "The Only Truth", il titolo corretto, spesso confuso con "The First Supper". Negli anni 80 e 90 questo oggetto misterioso è diventato ricercato dai collezionisti per la sua tormentata storia distributiva.
L’opera è, in realtà, anche un interessante esempio di hard-rock che dialoga con la psichedelia più libera, fino alla forma della jam astratta. Guidati dalla chitarra rombante e tagliente di Tim Roller, i Morly Grey si pongono a metà fra la più sognante psichedelia sessantiana e le bordate hard-rock del decennio successivo. La "breve Peace Officer" in apertura presenta una band di abili musicisti, anche se il capolavoro arriva con "The Only Truth", 17 minuti in grado di rivaleggiare con "In-A-Gadda-Da-Vida" degli Iron Butterfly per maestosità e fantasia, un'autentica avventura psichedelica degna dei classici del genere.
Notes From The Underground
I Notes From The Underground da Berkeley devono il loro nome al libro di Fedor Dostoevskij, "Memorie dal sottosuolo". Guidati dal cantante e polistrumentista Fred Sokolow, sono stati una fra le prime band psichedeliche della Bay Area a esordire con un Ep, prima di essere messi sotto sigillo dalla Vanguard. Artefici di un unico album omonimo, sulla scia dei Country Joe & The Fish, propongono l'unione curiosa di stilemi acid-folk ("Where I'm At") ed elementi da jug band (“Follow Me Down", “I Wish I Was A Punk”). Un connubio abbastanza insolito a cui il pubblico risponde tiepidamente, costringendo la casa discografica a rispedire nel sottosuolo la band.
C.A. Quintet
I C.A. Quintet di Minneapolis realizzarono un solo album nel 1968 dal titolo "A Trip Thru Hell". A guardare la copertina, sembra di avere di fronte la colonna sonora di un B-movie horror e la musica contenuta al suo interno non si discosta molto da questa prima impressione, tra grida agghiaccianti, testi spaventosi e un sound generale che - siamo sicuri - farà dormire molti con la luce accesa.
La mente diabolica dietro al quintetto è quella di Ken Erwin, colui che dirige questa messa nera nel mezzo di organi Farfisa, chitarre e trombe. Il momento saliente del disco è dato dalla prima parte della title track, un'astrusa jam psichedelica e minacciosa che lentamente si trasforma in una cavalcata verso gli inferi. Regnano il disagio e un'atmosfera talmente pesante da finire per prefigurare persino certe tendenze del futuro heavy metal. Al resto ci pensano i testi, che seppur nella loro perversa malvagità evocano alcuni dei temi classici della psichedelia, come in "Bury Me In A Marijuana Field".
Road
Il bassista veterano Noel Redding, già nella leggendaria The Jimi Hendrix Experience, insieme al chitarrista Rod Richards, già attivo negli Rare Earth, formano con Leslie Sampson, alla batteria, un trio al contempo acido e assordante, i Road. Titolari di un solo album omonimo, nel 1972, i Road si caratterizzano per l’uso smodato del wah-wah e del fuzz, per una quantità esagerata di riverberi ed echi e una spiccata propensione all’hard-rock. La potente “I’m Trying” e le lunghe “Man Dressed In Red”, “Friends” e soprattutto la jam acida “Road” (quasi 10 minuti, una versione lisergica dei Black Sabbath) guidano un’opera che suona come la più credibile aggiunta apocrifa all’opera della The Jimi Hendrix Experience. Riff scolpiti nella pietra, distorsioni sovrabbondanti e svolgimenti ai limiti del progressive rendono questa perla nascosta un’aggiunta importante per chi abbia già esplorato le opere più celebri e celebrate della psichedelia americana.
Morgen
Praticamente dimenticati, i Morgen di Steve Morgen, Bobby Rizzo, Murray Schiffrin, Mike Ratti e Barry Stock si formano a New York nel 1968. Poco più di questo si sa di loro, rimasti sempre ai margini della storiografia rock, ma resi memorabili da un leggendario esordio, chiamato poco fantasiosamente “Morgen” (1969). “Welcome To The Void”, in apertura, è un indiavolato psych-rock dall’aura maledetta, mentre imbevuta di un onirismo suggestivo risulta essere “Of Dreams”, dalle splendide chitarre a tutto fuzz. L’anima più heavy si manifesta in “Beggin’ Your Pardon (Miss Joan)”, mentre la componente più spettacolare porta al lungo assolo di batteria di “Eternity In Between”, di matrice più jazz che rock. Nonostante sia semisconosciuto, questo mirabolante esordio sorprende continuamente: “Purple” apre con un caos cacofonico, poi monta una melodia vocale flebile su un irrequieto uptempo di blues-rock lisergico; “She’s The Nitetime” si impenna nel finale, intrecciando melodie secondo uno stile quasi circense. Infine, il mastodonte “Love”, di quasi 11 minuti, propulso da un basso zoppicante e ipnotico, doppiato dalla batteria e fuso poi con la voce e la chitarra per inscenare un rituale ossessivo che prende una piega spiccatamente tribale, degna dei Velvet Underground più martellanti. Finale di pura allucinazione, fra echi oltremondani e un glissando galattico. Dimenticati (quasi) da tutti, i Morgen sono stati una meteora nel cielo della psichedelia americana, tanto sfuggente quanto luminosa.
Mariani
Vince Mariani, batterista, fonda la band omonima nel 1969 ad Austin, in Texas. Nonostante Vince sia un virtuoso del suo strumento, i Mariani saranno ricordati soprattutto come la prima band di Eric Johnson, attivo anche negli Electromagnets, nei G3, come solista e soprattutto in veste di chitarrista di artisti come Christopher Cross e Carole King. Titolari di un unico album, "Perpetuum Mobile" (1970), che si narra essere stato stampato originariamente in sole 100 copie, i Mariani si possono annoverare fra i gruppi di culto della scena psych-rock americana.
Dominato dai virtuosismi alla batteria e alla chitarra elettrica, il disco è un frullato di Cream, Blue Cheer e Jimi Hendrix da capogiro. L’album è stato pubblicato e ripubblicato in varie versioni, almeno 9 secondo l'enciclopedia discografica di Discogs. L’edizione originaria statunitense individua 4 canzoni, una suite in due parti intitolata "Mendor-Breaker" e una chiusura spaziale, "Pulsar". Caratterizzato da una grande intensità, senza veri momenti di pausa e di distensione, "Perpetuum Mobile" è pirotecnico fino all’eccesso, con i suoi volumi da hard-rock e la sua pesante effettistica da psych-rock. Perla nascosta dell’heavy-psych, "Perpetuum Mobile" è immancabile per ogni amante del lisergico ad altissimo volume.
Fraction
A Los Angeles una delle band di culto sono i Fraction, il cui unico album "Moon Blood" (1971) contiene più di qualche richiamo a Jim Morrison e ai Doors, in particolare in "Sac-Divided", molto simile a "Love Street". La principale differenza è la sovrabbondanza di fuzz nelle chitarre, che conferisce al sound un'intensità inedita rispetto alla leggendaria band di "The End." Il brano maggiore è "Eye Of The Hurricane", che sfiora i 9 minuti integrando i lugubri fendenti di chitarra dei Black Sabbath e chiudendo con una citazione dei Deep Purple di "Child In Time".
L'altro brano esteso, pur massicciamente allucinogeno nei suoi riverberi sinuosi, si attarda fin troppo nell'imitazione dei Doors per meritare molta attenzione.
Bibliografia principale:
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Il folk psichedelico
Byrds - Fifth Dimension (1966)
Byrds - Younger Than Yesterday (1967)
Byrds - Notorious Byrd Brothers (1968)
David Crosby - If I Could Only Remember My Name (1971)
Country Joe And The Fish - Electric Music For Mind And Body (1966)
Country Joe And The Fish - I Feel Like I'm Fixin To Die (1967)
Serpent Power -Serpent Power (1967)
West Coast Pop Art Experimental Band - Volume One (1966)
West Coast Pop Art Experimental Band - Part One (1967)
West Coast Pop Art Experimental Band - Volume 2 (Breaking Through) (1967)
West Coast Pop Art Experimental Band - Volume 3: A Child’s Guide To Good & Evil (1968)
La scena di Boston
Beacon Street Union -The Eyes Of The Beacon Street Union (1968)
Beacon Street Union -The Clown Died In Marvin Gardens (1968)
Ultimate Spinach - Ultimate Spinach (1968)
Freeborne - Peak Impressions (1968)
L'elettronica psichedelica
Silver Apples - Silver Apples (1968)
Silver Apples - Contact (1969)
Mesmerizing Eye - Psychedelia, A Music Light Show (1967)
Spoils Of War - Spoils Of War (1969)
Zodiac - Cosmic Sound (1967)
Lothar And The Hand People -Presenting... Lothar And The Hand People (1968)
Lothar And The Hand People - Space Hymn (1969)
L'heavy-psych
Blue Cheer -Vincebus Eruptum (1968)
Blue Cheer - Outsideinside (1968)
Blue Cheer - New! Improved! (1969)
Vanilla Fudge -The Beat Goes On (1968)
Vanilla Fudge -Renaissance (1968)
Grand Funk Railroad - Grand Funk (1969)
Grand Funk Railroad - Closer To Home (1970)
Captain Beyond - Captain Beyond (1972)
Captain Beyond -Sufficiently Breathless (1973)
Mountain - Climbing! (1970)
Sir Lord Baltimore - Kingdom Come (1970)
Josefus - Dead Man (1970)
Dust - Dust (1971)
La psichedelia dimenticata
Ant Trip Ceremony - 24 Hours (1968)
H.P. Lovecraft -H.P. Lovecraft II (1968)
Morly Grey - The Only Truth (1972)
Road - Road (1972)
Morgen - Morgen (1969)
Mariani - Perpetuum Mobile (1970)