John Fahey

John Fahey

E la tartaruga parlò

La parabola del leggendario chitarrista di Takoma Park, il suo fascino per l'oscurità blues degli esordi, l'incubazione dell'"American Primitive" e di una personale mitologia, l'assimilazione di musica colta, inni sacri, country, raga indiano, il loro sviluppo in vasti e suggestivi panneggi impressionistico-trascendentali, fino al ritiro. E una rinascita come maestro avanguardista del post-rock anni 90

di Michele Saran

John Fahey (secondo nome preso dal padre, Aloysius) nasce a Washington nel febbraio del 1939. Poco dopo la nascita di quello che sarà il loro unico genito, la famiglia Fahey si trasferisce a Takoma Park, nel Maryland, in cerca di tranquillità, oltre che riparo dal traffico della metropoli. Takoma Park è il classico borghetto, una normalissima isola felice per famigliole benestanti, con quelle sue decenti casupole dal distinto stile vittoriano, eppur circondato di alberi e foreste, a memoria dell’antica cattività della zona. Il contrasto si ripropone nella ripartizione sociale della comunità, ampie sacche di povertà di gruppi di afroamericani messi a forza ai margini, come pure di un forte sentimento comune di abbandono e isolamento. I primi echi delle proteste di piazza e della ribellione giovanile delle grandi metropoli arrivano a Takoma Park a onda d’urto ormai svanita; gli adolescenti, perciò, si trovano a dover reprimere la loro condizione di disagio e, paradossalmente, a svagarsi e trovar via di fuga in qualcosa d’antiquato e conservatore: la tradizione del folk, ancora risalente ai padri fondatori della nazione.

Aloysius è il più tipico padre e padrone proveniente dalla middleclass, fervente cattolico, dispotico nella conduzione familiare, robusto di costituzione, atletico nel fisico: tutte qualità altamente estranee a John. Ad accomunare padre e figlio è comunque la passione per la musica, il pianoforte di casa, e l’ascolto, la frequentazione dei concerti delle band locali di revival bluegrass, e quella casalinga, e i dischi di musica classica. Alla formazione più personale di John concorre invece la madre Jane, conforme alla sua indole timida e introversa, alle sue primissime inclinazioni creative. Con i suoi coetanei amichetti John lascia poi sfogare del tutto la sua ribollente immaginazione, fantastica sull’oscurità che circonda la cittadina e vi inventa una personale mitologia paesana, chiacchiera di creature, spettri di vecchi avi, discetta sulla magica ambiguità dei personaggi che la abitano, e a tutto appone un nome fantastico.

Aloysius e Jane infine divorziano, proprio quando il figlio è nel pieno della frequentazione della high school: il classico disagio adolescenziale di John muta allora in autentica inquietudine. Per lenirla si rifugerà più che mai nella musica, e proprio nella grande musica dell’inquietudine, quella del trapasso tra 800 e 900, innamorandosi in particolare dei grandi russi, Stravinsky, Prokofiev, Shostakovic, Rachmaninoff, e quindi delle loro innovative composizioni, le prime grandi avvisaglie dello stravolgimento della tonalità tradizionale. Con la sua prima chitarra suonicchia alcuni dei loro temi, prendendo peraltro le prime confidenze con la dissonanza, l’atonalità, i cambi di tempo. Ma John trova anche rifugio e appoggio nella più amichevole tradizione, la musica country (imparerà a menadito il “Blue Yodel no. 7” di Jimmie Rodgers). E’ questa, in un certo qual modo, la sua personale voglia di rivoluzione giovanile, l’impulso a cambiare il mondo, sia pure il mondo interiore.

Durante la scuola Fahey fa conoscenza con l’organista Anthony Lee, in cui trova un amico e compagno con la mutuale passione per una musica dimenticata, se non proprio apertamente bandita, dall’establishment: la musica d’avanguardia del sottosuolo. I due s’innamorano in particolar modo di un disco, "Plectra and Percussion Dances" (1957) di Harry Partch, il punto di contatto con le strane idee dei musicisti americani più creativi del periodo. Nel loro novero ci sono allora anche i primi vagiti di Moondog e Sun Ra, oltre ai primissimi esperimenti dei minimalisti statunitensi. Forte di queste passioni, l’introversa ribellione di Fahey sul finire degli anni 50 trova infine approdo in una comunità di artisti e musicisti underground della St Michael Episcopal Church.

Frattanto il novello chitarrista sperimenta per ore allo strumento, anche copiando quanto sente alla radio. Ma il giovane John si distingue da tutti già in questa fase d’imberbe formazione: prende a considerare le grandi categorie musicali delle sue radici (bluegrass e classica) come trasformazioni in divenire anziché come compartimenti stagni. Più in generale, concepisce la musica come un puro condotto emotivo. Fahey non lavora con le trascrizioni, anzi, la notazione musicale non sa neppure cosa sia; non sfrutta alcuna pedanteria grammaticale, ma fa leva sulla sua impazienza di assimilare, elaborare e ritrasmettere attraverso le corde dell’acustica e le movenze del folk più incontaminato; soprattutto, non ha alcun maestro diretto. E’ un selvatico, spontaneo ritorno al metodo primitivo del bluesman prebellico. Anche se ancora solo nella sua testa e forse ancora sfocatamente, nasce il filone dell’“American Primitive”. Come se avesse un’orchestra nella mente, Fahey travasa l’arte di tessitura, del contrappunto e della polifonia della musica colta nel fingerpicking, la tecnica più tipica del bluegrass. La sua è un’autentica unicità, è l’unico artista della sua cerchia, e probabilmente anche dell’intero stato, a cercare di fare quello che fa, nonostante gli inizi siano ancora estremamente confusi e le deficienze tecniche (non era neanche in grado d’eseguire una buona accordatura senza aiuti) si facciano sentire.

Un’altra via afferente della formazione di Fahey è di certo il collezionismo di vecchi dischi folk e blues, una passione certamente arrivatagli anche per via del grande successo del sestuplo "Anthology Of American Folk Music" (1952) a cura di Harry Smith, un disco che peraltro spiega anche buona parte della nascita di tutto il Greenwich Movement, da Bob Dylan a Joan Baez. Ma Fahey perlopiù odia il folk revival dei bianchi, che considera nato vecchio e disconnesso dal tempo presente, e pure mal sopporta la “Goofin Off Suite” (1955) del già illustre Pete Seeger, che reputa troppo didattica, leziosa, priva di ruvidezza e profondità. E però, d’altro canto, il chitarrista ancora ciecamente e involontariamente imbevuto di quei pregiudizi razziali trasmessigli da parte del padre o dalla comunità di Takoma Park, all’inizio ancora snobba senza mezze misure il blues dei neri. Vi si libererà, e sarà una vera folgorazione, ascoltando per caso “Praise God I’m Satisfied” (1929) di Blind Willie Johnson, fino a scoprire un universo, su tutti Charley Patton e Skip James. Per fare ammenda, riattiva anzitutto l’adolescenziale direttrice mitologica della sua fervida immaginazione, e fantastica su una sorta di folgorazione sulla via di Damasco, un incontro fortuito con un leggendario bluesman, un certo Elmer Williams (in realtà “Guitar Frank” Hovington, in cui s’imbatte per puro caso durante una gita a pesca), da cui apprende le sue prime lezioni di blues.

Quindi il giovane chitarrista diviene agguerrito, instancabile cacciatore di vecchi blues a 78 giri, partendo per gite nei posti di culto del sud, del Delta, persino chiedendo casa per casa a vecchie famiglie, un modus non dissimile da quello di Alan Lomax. Da qui la preparazione tecnica alla chitarra migliora nettamente, aumenta in confidenza e fluidità. I suoi arrangiamenti, oltre che sulla passione per la musica colta moderna, si basano ora appunto sul blues. A parte alcune primissime registrazioni casalinghe in cui prova a usare la propria voce, colto più che altro dalla voglia matta di impersonarsi nuovo bluesman, poco dopo Fahey scarta nettamente l’idea, limitandosi alle proprie doti strumentali e alle concezioni fin qui maturate. Con il pollice scandisce pesantemente e ostinatamente il basso, con le corde rialzate e i ditali slide imita il canto nero, dallo spiritual al gospel al blues delle piantagioni, strascicato e modulato.

Il suo primo pseudonimo è così Mississippi Stompers. Ma per completare la sua ammenda e soprattutto la sua totale immedesimazione, di lì a poco adotta lo stereotipo del blind (quindi anche un’ironia per la sua iniziale cecità nei confronti del mondo della musica nera): Blind Thomas. Con questo nomignolo Fahey incide sei pezzi per un’oscura etichetta coeva, la Fonotone, e ottiene qualche passaggio radio. Il suo intento, in questa prima fase, è quello di creare una sorta di falso storico, uno scherzo alla Orson Welles, alla Michelangelo. Durante la sua fase di collezionismo Fahey aveva anche appreso i modi di fare tipici della sua utenza, le sue debolezze e i suoi automatismi compulsivi. Nella sua intelligenza distaccata, Fahey al momento si accontenta dunque di osservare divertito le prime reazioni a queste registrazioni in bassissima qualità. Eppure, di concerto, nel suo piccolo ottiene anche di ritornare a quella purezza della fonte originaria del folk che tanto vagheggiava, e perciò dispensare la sua pratica risposta alla moda del revival.

Il passo successivo è però più serio. Fahey decide di fondare una propria etichetta discografica, Takoma Records, chiaramente in onore del suo sobborgo d’origine, con cui raccogliere registrazioni, proprie e altrui, del tutto votate alla musica più autentica e creativa, che dal folk possa anche spaziare a nuovi generi. La prima pubblicazione è Blind Joe Death (1959), di fatto un album-split diviso tra Fahey e sé stesso in un nuovo fantomatico alter-ego, ancora cieco come da buon bluesman nero che si rispetti, Blind Joe Death appunto. Questo spettro, il parto più sentito della sua mitologia interiore, è da qui in poi l’ossessione della sua vita artistica. Una delle due facciate del disco è così interamente titolata a questo nuovo falso storico, e di fatto sono vere e proprie selections. In questo modo, Fahey s’impersona non solo bluesman ma anche collezionista di dischi e appassionato di musica delle radici americane per replicare, a modo suo, l’operazione di Smith di anni prima, raccogliendo traditional e riproposizioni di vecchi standard, senza dimenticarsi di un’altra delle sue fonti d’ispirazione: gli inni episcopali. La seconda facciata, intitolata soltanto a Fahey e pertanto volta a scoprire pian piano le sue primissime, vere e proprie ambizioni artistiche, è ancora prudentemente nascosta dietro a cover di brani blues (“Deperate Man Blues”, “Sun Gonna Shine In My Back Door Someday Blues”), seppur rivisitati con arguzia, ma può vantare anche una “Trascendental Waterfall” di proprio pugno, la sua prima autentica perlina, un inquieto, spettrale country-blues, già discretamente articolato in timbrica e dinamica. In questo disco, in tutto fedele alle sue origini artigianali, Fahey fa tesoro della bassa qualità d’incisione per suonare il più possibile autentico, con una confezione spartana e un artwork minimo per aumentare il senso di mistero, la tipica oscurità da registrazione perduta nel tempo.

Il disco circola e miete consensi. Dopo un cospicuo periodo speso in traslochi, studi e prime esibizioni (tra cui uno show leggendario allo Unicorn di Washington), Fahey gli dà un perfetto seguito, Death Chants, Breakdowns And Military Waltzes (1963), ed è un altro piccolo successo. Grazie a questi primi introiti la Takoma può iniziare a pensare un po’ più in grande, espandendosi a comprendere personaggi, se possibile ancor più ai margini dello stesso fondatore: Bukka White, Daniel “Robbie Basho” Robinson, che finirà per divenire l’altro caposaldo dell’etichetta (e più avanti anche rivale artistico di Fahey), oltre a un disco influenzato da La Monte Young, un lungo delirio di sax accompagnato soltanto da risonanze arcane di cimbali, "Psychedelic Saxophone" (1967) di Charlie Nothing (Charles Martin Simon).

Ma Death Chants, e in particolare alcune epiche escursioni del pezzo forte del caso, “America” (metronomiche, distese, danzanti), servono anche a Fahey come trampolino di lancio verso una presa di coscienza delle proprie potenzialità, e dunque una carriera maggiormente consapevole. E’ dunque a tutti gli effetti un’opera di transizione, un anello di congiunzione che si aggancia direttamente al più maturo Dance Of Death & Other Plantation Favorites (1964). Il disco condivide col predecessore – e i due titoli quasi si confondono l’un con l’altro – il tono di danse macabre che lo incornicia: “Wine And Roses”, e soprattutto i sette minuti di “Dance Of Death”. In generale nei suoi bozzetti folk-blues ora si fa largo anche un vero impegno di musicista oltre che di dotto mistificatore, con qualche ancora involontario accenno indianeggiante (“How Long”) e dissonante (“Give Me Corn Bread When I’m Hungry”) e un uso intensivo, poco ortodosso, della slide (“Worried Blues”, “Revelations On The Banks Of The Pawtuxent”, e una “Poor Boy” proprio in coppia con il nuovo acquisto Bukka White). Compare anche una “What The Sun Said”, forse la sua prima visione (in quattro pannelli), il suo primo vero tour-de-force di tintinnii, note staccate, accordi stoppati, e soprattutto, di progressioni di arpeggi argentei in splendide figurazioni bluegrass (per non parlare del ritmo, dai cambi di tempo alle sincopi), e dunque il suo primo componimento in forma libera. Nello stesso anno, e proprio ringalluzzito da questa presa di coscienza, Fahey incide anche una nuova versione di Blind Joe Death. Più avanti ne inciderà persino una terza versione, anche nota come Vol. 1 (1967).

L’interesse per il raga indiano e la musica modale nasce in questo periodo, anche mutuato dai primi esperimenti del collega Robbie Basho oltre a quelli, più distanti ma forse anche più influenti, diffusi dal coevo "Fantasias For Guitar & Banjo" (1963) di Sandy Bull. Ovviamente, anche questa nuova dimensione si fa contaminata, tanto nello stile quanto nelle apparenze. In The Trasfiguration Of Blind Joe Death (1965) il chitarrista ritorna al suo mito personale per decretarne l’avvenuta morte e, appunto, la successiva trasfigurazione. Si tratta di un nuovo titolo profetico: Fahey e Blind Joe Death divengono, finalmente, un’unica inestricabile entità creativa da cui discendono i cardini della sua musica. Molti dei brani attuali non sono più reinterpretazioni o riarrangiamenti, late ispirazioni o cover immaginarie, ma l’insieme di tutto: da qui gli schizzi di “Tell Her To Come Back Home”, “Beautiful Linda Getchell”, “Bicycle Built For Two” e persino un lungo “Old Southern Medley”, definitivo tributo al blues della Louisiana.

I brani-chiave però sono ben altri. Fahey opta ora per la trascendenza in un primo piccolo trip: “I Am The Resurrection”, appunto un primale esempio del suo “western raga”, incrocio genetico di bluegrass e folk indiano in cui accordi tonali si confondono con estesi passaggi modali e i classici arpeggi scanditi si alternano a onomatopee chitarristiche di sitar e tabla. Ci sono anche stomp obliqui come “Orinda-Moraga”, e soprattutto il suo migliore quadretto impressionista, “On The Sunny Side Of The Ocean”, icona del suo arpeggio in rapimento celestiale, oltre alle slide smaterializzate in “How Green Was My Valley” e “The Death Of The Clayton Peacock”, persino con spunti dall’antica Cina.

La suite di diciannove minuti “The Great San Bernardino Party”, contenuta nel successivo The Great San Bernardino Party & Other Excursions (1966), per quanto ancora disorganica, allora chiama proprio a raccolta questo bozzettismo. Finalmente la sua laica reinvenzione della sacralità, finora forse ancora confusa e giocosa, trova una spiegata espressione in un polittico realmente epico per proporzioni e impegno. Fahey espande i primi cenni di “On The Sunny Side” in qualcosa d’arduo e ardito, medievaleggiante, in quattro pannelli. Nel primo a una toccata d’arpeggio ramingo segue un foxtrot d’ispirazione agreste che sembra divenire meditazione trasfigurata. Nel secondo un mugolio nell’ombra s’imbizzarrisce in impennate violente. La trance mistica ritorna nel terzo, il più rarefatto, una promenade svanita di note bluegrass e blues di nuovo in preda a un arcano rapimento. Il pannello finale è chioccio, forse la prima avvisaglia della “voce della tartaruga”, ed è l’ultima trance. Nella composizione ha la sua importanza anche la qualità della registrazione, così piena d’echi e vuoto, praticamente una sua lettura della musica psichedelica del periodo.

Così, “The Great San Bernardino Party” diviene il modello per altre due avventurose escursioni, nuovamente in quattro parti, distribuite nei dischi del periodo, Requia (1967), Days Have Gone By (1967) e Voice Of The Turtle (1968): “Requiem For Molly” e, ancor più ambiziosa, la mezz’ora a puntate di “A Raga Called Pat”. Qui arrivano a sublimarsi i modi e i sentimenti finora più forti delle sue influenze: il sinfonismo classico, la creatività naif, la narrazione contorta e articolata, la poetica neomedievale della morte, l’impressionismo pittorico, la revisione profana degli stereotipi e delle credenze cristiane, al limite della blasfemia.

Campionamenti orchestrali, ferroviari e bellici (aviazione, spari, fanfare militari, anche inni nazisti), di temporali e di canti blues, allarmi e ondate marziane, fischi e suoni della natura (vento, fronde, uccelli), sia reali che storpiati con l’elettronica, canti e cerimonie zen, e ultimo ma non ultimo il suo strimpellio diafano e sinistramente assorto, si sovrappongono facendo sgorgare le più bizzarre associazioni e le più stridule dissonanze. E’ una molteplicità caotica di suggestioni che rimescola descrittivismo e naturalismo; Fahey ora comprende ed esplicita tutto: sia le pièce passate, sottili, allusive ed elusive, che questa nuova tendenza a evidenziare le visioni in sorgenti sonore prese di peso dalla natura e dalla tecnologia, in un baluginare di crepitii e sfaldamenti che quasi oscurano, cancellano la sua chitarra.
Nelle quattro parti di “A Raga Called Pat”, in particolare, si concreta la poesia più Eliot-iana. Fahey suonicchia in disparte un po’ distratto e un po’ rapito, in un commentario impassibile ma al contempo ricettivo del continuo, sordido guizzare di sostrati sonori via via meno intelligibili. L’interazione tra la sua chitarra e il nastro dei suoni concreti è tenuta volutamente nella casualità, e dunque la poesia che ne sgorga è spontanea e automatica. “A Raga Called Pat” perviene alla trascendenza, laddove “Requiem For Molly” sta nell’immanenza, ma entrambi sono degni rampolli dell’avanguardia elettroacustica e collagistica degli anni 50-60. Vi è un unico limite: il suo flusso di coscienza strumentale è ormai imposto, quasi fosse una didascalia, e non più solamente suggerito.

Come degna appendice di questi due prodotti d'avanguardia va annoverata la lunga “7/3 Afternoon” improvvisata dal vivo con i Red Crayola e poi inclusa in Live 1967 (1998).

Il periodo è costellato anche di brani meno impervi, piccoli gioielli che peraltro avranno un impatto non trascurabile nelle generazioni coeve e future: la vibrante scorsa appalachiana “When The Catfish Is In Bloom”, gli accordi fulminanti a grappolo in “Portland Cement Factory”, la fantasia agreste sottilmente malinconica di “Impressions Of Susan”, la vignetta sfaccettata e fatalista “Requiem For Russell Cooper”, oltre a “The Story Of Dorothy Gooch”, nuova versione della sua “Some Summer Day” introdotta da dissonanze da incubo. Da Yellow Princess (1968), il disco di maggior successo dell’epoca, provengono ancora “Irish Setter”, preludio dei suoi capolavori futuri, un pastiche country-blues di danze e monumentali decelerando in rarefazione, dilatazioni e raddensamenti, e “Commemorative Transfiguration”. Pur non possedendo le pesanti manomissioni di studio di “Requiem For Molly”, questi quadretti si fregiano comunque di piccoli tocchi, spesso effetti di riverbero, che appena evidenziano le sensazioni del suonatore. Le dediche del periodo, Linda, Brenda, Dorothy, Molly, Pat, Susan, la “principessa gialla” (di Saint-Saëns, ndr), infine scoprono anche una dimensione romantica nell’ispirazione del chitarrista, la figura femminile.

Questi esperimenti pervengono persino all’orecchio attento di Michelangelo Antonioni. Nel 1969 il regista sta completando i sopralluoghi per le riprese del suo “Zabriskie Point” (1970); la sequenza-clou del film avviene nella mitica Death Valley. Da sempre avvezzo all’avanguardia, oltre che appassionato di musica impressionistica, Antonioni immagina il cromatismo criptico, le ampie filigrane, le rastremazioni desertiche, le pennate fulminee e le improvvise danze di morte di Fahey come perfetta controparte della visione-allucinazione che ha in mente. Purtroppo, un diverbio tra i due mette fine al progetto (corre voce che in una discussione il regista abbia esternato animosamente difetti e limiti della cultura statunitense, provocando risentimento nel chitarrista), e Antonioni si trova costretto a ridimensionare l’apporto di Fahey alla colonna sonora (sarà usato solo un piccolo estratto della già edita “Dance Of Death” e per tutt’altra scena) e quindi vagliare nuovi candidati per il ruolo (verrà scelto Jerry Garcia). Ma per Fahey è davvero il classico momento dell’ascesa, suggellato anche da una serie di duetti col compagno d’avventure blues Bill Barth, collezionati infine su Memphis Swamp Jam (1969).

Fahey è così pronto per varare l’ultima e più difficile frontiera delle sue lande artistiche interiori: comporre poemi per sola chitarra senza soluzione di continuità, dare quindi finalmente voce spiegata alla tartaruga, il suo animale preferito, la sua personale mascotte, portafortuna e totem. Nella sua mitologica immaginazione, la tartaruga occupa il vertice della piramide, è lo Zeus del caso, depositaria di gioie e dolori, speranze, illusioni e amarezze di un intero popolo, canto lento e inanimato dei secoli, delle vallate, delle migrazioni dei pionieri, del faticoso e doloroso spostamento della frontiera, simbolo vivente di una generazione, e infine archetipo arcaico, sacello di storia e saggezza. Ed è anche il simbolo della sua arte. Per il chitarrista si tratta ora di concentrarsi solo sulle potenzialità della sua chitarra, lasciandosi alle spalle interferenze e influenze, le frammentazioni, i tentativi e le reinterpretazioni, le imitazioni del blues e dunque l’imitazione del vecchiume in bassa qualità. Rischiarare la propria anima e dunque, di concerto, dare finalmente anche una qualità pura al suono delle sue corde, e riscoprire un solenne ascetismo.

Nascono allora le quattro grandi fantasie della maturità, “Mark 1:15” e “Voice Of The Turtle”, in America (1971), originariamente concepito come doppio album (all’ultimo ridotto a singolo, per paura di bissare il fallimento commerciale di Voice Of The Turtle, tributato comunque nel brano eponimo), e “When The Fire And The Rose Are One” e “Fare Forward Voyagers” da Fare Forward Voyagers (1973), probabilmente il suo miglior album (di certo il meno dispersivo in assoluto). “Mark 1:15”, brano primale che racchiude diverse idee a venire, è l’ultimo ritrovato del suo “western raga”, un eterno rastremarsi e raddensarsi di accordi e arpeggi che quasi disperdono la tonalità, una carezza lenta, un flusso acqueo che si frange sulle rocce e arbusti, si esalta di muschi e fondali, si sofferma sulle vite più infinitesimali e poi scorre su improvvise cascate, accelera e decelera facendo andare soltanto l’istinto più selvatico.

A questo monocromatismo risponde la tavolozza ampia e luccicante di “Voice Of The Turtle”. Perno dell’intera carriera, questo poema è autentica narrazione muta. Il viaggio si fa solenne fino ad abbracciare l’intera schiera degli elementi, attraverso vivide concatenazioni di arpeggi. Rispetto a “Mark” c’è però una piccola idea melodica, il lento, guardingo incedere della tartaruga, il suo racconto omerico all’indietro nel tempo, attraverso verdi vallate, foreste, panorami e traversate, fino a tremende tempeste di mare (la chitarra arriva a imitare gli spruzzi che si frangono sull’imbarcazione con gradinate di armonici). E’ una chitarra dunque mitologica e lirica, dimessa e raminga, senile quasi, e allo stesso tempo pregna di magia e di continua tensione verso l’esplorazione. Va sovente in accumulazione di volume e dinamica maestosa, spesso verso accordi anche duri, fatti di corde percosse in malo modo (pieni strumming col plettro, molto rari nella sua carriera), o di luccichii di armonici, per illustrare il contrasto tra la piccolezza del viandante al cospetto della vastità di terre, acque e cieli. Al culmine della padronanza tecnica, Fahey ha la possibilità di sfruttare tutte le figure possibili, fino a un’accelerata finale in cui si scopre senza più pudori entusiastico virtuoso, in un gran finale, una corsa pirotecnica del suo migliore contrappunto folk.

Per le due successive sfrutta dichiaratamente le evocazioni dei “Four Quartets” T. S. Eliot, in particolare del terzo, “Dry Salvages”, ricavando i titoli delle composizioni da altrettanti versi poetici: “When The Fire And The Rose Are One” e “Fare Forward, Voyagers” (più la breve “Thus Krishna On The Battlefield”). “When The Fire”, stilisticamente ancor più articolata e spericolata, incorpora inizialmente modi e forme di “Voice”, per ammantarli poi di una rinnovata e ancor più severa trance mistica, in un flusso frastagliato eppure forte d’una solennità monumentale quanto un primo movimento di sinfonia romantica. Per ottenerlo Fahey adopera un susseguirsi titanico di figurazioni, dalle danze agresti alle intonazioni del flamenco, dagli accenti pellerossa al country più ossequioso, fino alle filigrane persiane, sempre sull’orlo del baratro. Ma la chiusa è ancora una volta intimista, impressionista, gloriosa nel suo sperduto richiamo alle genti ancestrali, agli avi senza più voce, in lande infinite. La tartaruga sembra aver esaurito la voce, per esprimersi soltanto per suggestioni sempre più difficili da cogliere, oracolo delle speranze del popolo nativo americano. L'“American Primitive” dei suoi esordi si carica allora di un sentimento collettivo più profondo.

Ben ventitré minuti di “Fare Forward, Voyagers” costituiscono infine l’ultimo e più radicale sconfinamento oltre i limiti del naturale. La struttura è tripartita: un tema lento, solenne, estatico, e insieme già febbrile, incornicia quello che è il suo cuore, un prolungatissimo vortice plasmato tra l’apnea e il rapimento, ricolmo di arditezze impossibili, impennate altissime e rallentamenti spaventosi, fulgore assoluto di virtuosismo crepuscolare e impressionistico, affresco di sensazioni immani, di meditazione infuocata e tensione gaia e spasmodica. E’ un fiotto pressoché continuo e ininterrotto, nonostante un sentimento di morte rinnovato e più acuto che mai, ormai panico rispetto alle piccole “Dance Of Death” di qualche anno prima, che si serve di tonalità, atonalità, modalità orientale, oltre, ovviamente, a tutte le scale blues. Mai nessuno aveva concepito la chitarra acustica in questo modo amplissimo e sfinente, spettacolare nella sua umiltà d’invisibile titano del tempo e dello spazio.

Stremato da tanto sforzo creativo e tecnico (e fisico), a Fahey serviranno anche dischi ben meno significativi con cui rilassare i muscoli e riprendere fiato: raccolte di traditional natalizi, New Possibility (1968) e Christmas With John Fahey (1975), e opere arrangiate persino con tanto di orchestrina dixieOf Rivers And Religion (1972) e After The Ball (1973), errati e superficiali nel loro tracimare certi già ingenui sovrarrangiamenti di Yellow Princess (“March For Martin Luther King”). Solo Old Fashioned Love (1975), si conforma, pur banalizzandola, alla svolta trascendentale di qualche anno prima, e in “Dry Bones In The Valley” si distende di nuovo nell’epos delle sue praterie metafisiche.
Sfortunatamente, per il resto dei due decenni successivi nella sua opera prevarrà proprio quest’aspetto facile, questa pur appassionata regressione ai suoi primordi d’imitatore più o meno sofisticato, a dispetto del ricercatore e del creatore affamato di conquiste armoniche, segno di una fiducia sempre pressoché mal riposta nelle sue stesse capacità compositive.

Frattanto comunque Fahey mette a punto la sua Takoma, completando la triade dell’American primitivism, con sé stesso e Robbie Basho, assoldando Leo Kottke (il suo "6 And 12-String Guitar" sarà l’apice del successo commerciale dell’etichetta) e Peter Lang, con i quali uscirà anche un album-portfolio, John Fahey, Peter Lang & Leo Kottke (1974), e poi scoprendo e rilanciando Bola Sete, un allora oscuro chitarrista samba per cui prova un’accesa affinità spirituale e di cui produrrà uno dei suoi capolavori, "Ocean" (1975). Il periodo è intenso anche sotto il profilo dell’attività di concerti dal vivo, che porterà in giro per tutto il continente, in lunghi medley di composizioni proprie e altrui, più avanti incisi anche su God, Time And Causality, registrato nel 1977 ma bloccato dalla sua stessa etichetta (sarà pubblicato solo nel 1989 dalla Shanachie).

Visits Washington DC (1979) è ancora forte delle sue tipicità, con tanto di nuove personalissime dediche femminili, “The Discovery Of Sylvia Scott”, “Melody McBad”, “Ann Arbor”. Il disco evidenzia, fin quasi a rivelarlo a guisa dei trucchi di prestigiatore, il suo metodo d’improvvisazione, basato su un flusso di note e accordi anche contraddittorio, e rimarrà uno dei suoi migliori, se non il migliore, della sua seconda maturità. Se lo stile principale un po’ si atrofizza, allora il chitarrista assimila e mimetizza nuovi ed eterogenei stilemi, come il flamenco e la batucada, oltre agli inni sacri sempre in sottofondo (“The Discovery Of Sylvia Scott”). Le corde dell’acustica svolazzano leggere e filamentose tra trame e orditi dei suoi luoghi spazio-temporali favoriti, ma stavolta stemperati da uno sguardo di sognatore bonario, un ottimismo sorridente agrodolce, forzosamente dimentico delle angosce appena passate. La vasta, spettacolare sequenza di “Melody McBad” e “Gran Finale” (che rielabora uno scarto di America quando ancora era previsto come doppio, “Dalhart Texas 1967”), ben diciassette minuti in tutto, comunque riprende la commistione di registri e tonalità, la tavolozza dissonante di sempre: tocchi rarefatti e poi improvvisamente ispessiti, rallentati e subito accelerati con una tensione in accumulo, infine una danza a perdifiato.

L’anno dopo Fahey vende la Takoma alla Chrysalis, dedita a realtà più mainstream, e se non altro sopravvive al fallimento. Per sua stessa ammissione, e un’autocritica eccessivamente dura, come se non bastasse Fahey prende pure a disconoscere le sue glorie creative, a interdire i suoi grandi panneggi impressionistici: arriverà a considerarli pomposi, persino pretenziosi; giurerà a sé stesso di non voler più intraprendere quei percorsi chilometrici di proprio pugno. I risultati di questa precoce senilità, Railroad (1983) raccoglitore di semplici schizzi, e Let Go (1984), di quasi sole cover, hanno così esiti ben fiochi. Ancor più bizzarramente compilato è Rain Forests, Oceans And Other Themes (1985), con cui peraltro opta per qualche esperimento come la drum machine per emulare le percussioni a getto continuo di Moondog in “Theme And Variations”. E i tratti distensivi di “Melody McOcean” fanno da seguito sia a “Melody McBad” che all’ormai mitica “On The Sunny Side Of The Ocean”, componendo quindi una sorta di saga sotto mentite spoglie. Se artisticamente sono i suoi lavori più sterili, questi album rappresentano comunque alcuni personali trionfi come intenditore musicale: nelle reinterpretazioni si alternano Stravinskji e la classica al blues, la tropicalia e il pop, cover di amici e musicisti stimati a lui contemporanei e revisioni di pezzi di artisti più remoti nel tempo, da quelli più agevoli a quelli meno consoni alla sua poetica.

Al culmine della malinconia, Fahey rievoca anche il suo vecchio compare immaginario per I Remember Blind Joe Death (1987), vantando almeno una “Improv In E Minor”, ennesimo dei suoi raga sinfonici, commovente nella sua lenta compassatezza, e poi incidendo ancora i minori Old Girlfriends And Other Horrible Memories (1992), con le sconsolate “Claire”, “In Darkest Night”, “View”, la fiacca “Don’t”, e la gaia autoimitazione “Diane Kelly”, ma soprattutto con un numero senza chitarra, “Fear & Loathing At 4th & Butternut” (breve eppur estrema variazione del suo western-raga per armonica e bordone d’organo), e il mai pubblicato Azalea City And Other Toxic Nostalgia (1992). Anticipata da un album di brevi pagine sacre, Yes! Jesus Loves Me (1980), per il decennio si sussegue una nuova sporta di dischi natalizi: Christmas Guitar Volume I (1981), Popular Songs Of Christmas & New Year’s (1983), Christmas Guitar (1986), The John Fahey Christmas Album (1994).

Da tempo preda dell’alcolismo, Fahey cade infine in depressione. Il periodo d’incupimento, isolamento e riflessione, in realtà iniziato a fine anni 80 e interrotto solo dall’antologia Return Of The Repressed (1994), durerà fino a oltre metà dei 90. Fahey però ignora quasi totalmente ciò che ha contribuito a smovere nel mondo della musica. Nonostante avesse sempre rifiutato con forza l’etichetta, già dagli anni 80 certa critica lo aveva additato come possibile capostipite – oltre al compare Robbie Basho – del fenomeno new age, in particolare della sua variante acustica, persino diretto ispiratore di realtà di grande successo come la Windham Hill di William Ackerman, con tutti i suoi proseliti (Alex De Grassi e altri). Anche in certe filigrane di Durutti Column s'intravede una prima applicazione dell'estetica del chitarrista. Ma questo non era stato che la punta dell’iceberg, se non proprio una falsa pista.

Nella seconda metà degli 80, durante alcuni dei suoi tour, Fahey stringe amicizia con due giovani musicisti, due suoi fan profondamente influenzati e motivati dalla sua lezione: Jim O’Rourke e Glenn Jones. Sono loro, entrambi ai rispettivi esordi di carriera, ad allontanarlo anzitutto dagli spettri del suicidio, loro a fargli riscoprire l’essenza della sua stessa arte, e di concerto a disperdere gli sprechi di talento, loro a introdurlo negli ambienti del più avanzato underground americano, a diffondere infine il suo verbo. Da Thurstone Moore alle generazioni di Louisville e Chicago, quindi David PajoDavid Grubbs, fino a Jeff Mueller e Sean Meadows, tutti applicano in vario modo alcune delle intuizioni di Fahey, mostrandogli risvolti, sbocchi creativi inauditi, finanche sovvertimenti ed eresie: cacofonie, dilatazioni, dissonanze, improvvisazioni contorte, soprattutto una nevrastenia diffusa che affascina convintamente il disilluso musicista di Takoma, fino a infondergli nuova ispirazione.

Così, il ritorno sulle scene di Fahey non delude. Anziché accostarsi semplicemente ai suoi ideali scolari cui lui stesso ha dato linfa artistica, il chitarrista si mostra ancora una volta un passo avanti a tutti. E’ davvero un nuovo inizio di vita, che purtroppo durerà appena qualche anno. Dapprima si annuncia con un singolo inciso direttamente sul suo più agognato feticcio di sempre, il disco a 78 giri, “Morning/Evening, Not Night” (1996), un’operina ancora guardinga utile viepiù al chitarrista per riprendere contatto con la sua arte. Quindi nello stesso anno fonda una nuova etichetta, la Revenant, totalmente dedita a musicisti sperimentali. Infine apre all’avanguardia, pur ancora con qualche indugio, nel nuovo City Of Refuge (1996). Fahey sconvolge ammiratori vecchi e nuovi imbracciando la chitarra elettrica, per la prima volta a quarant’anni dagli esordi, in “Fanfare”, ed è l’occasione per rimodellare la sua calligrafia, evidenziare e poi distorcere le dissonanze metalliche, captare i segnali più oscuri provenienti ancora una volta dal Delta, ben oltre il facile revival elettrificato del blues-rock dei decenni scorsi. La lunga dissertazione per collage di nastri di “On The Death And Disembowelment Of The New Age” è in realtà l’estrema propaggine di “Molly” e “Pat”, un flusso gassoso di campioni, suoni trovati ed elettronica che metaforizza il definitivo svecchiamento del suo status e dei suoi simboli. Della voce della tartaruga pervengono solo echi cadaverici, sistematicamente rotti da una perpetua implosione, fino a una criptica chiusa di sonagli vitrei. Anche la proverbiale escursione solistica all’acustica, “City Of Refuge I”, sono venti minuti (forse in eccesso) di puri embrioni armonici, spesso isolati da silenzi e pause improvvise, e a tratti persino atonali, in cui si incastona, sempre sbrindellato, un brevissimo tema honky-tonk. Segue un altro esperimento, “Hard Time Empty Bottle Blues”, inciso dal vivo all'Yttrium Festival a fine 1996 ma all'epoca non pubblicato.

Quindi realizza la sua “Metal Machine Music” tramite il doppio Ep Mill Pond (1997) e l’interrelato Womblife (1997). In Mill Pond, derivato dal brano eponimo giù apparso in City Of Refuge, esplorato ulteriormente nei riverberi e le distorsioni marziane di “Mill Pond Drowns Hope” e poi portato alle conseguenze più radicali, da “Ghosts”, accordi di acustica appesantiti e approfonditi, sovrastati da un minaccioso, tempestoso mantra vocale, la sua appendice demoniaca “You Can’t Cool Off”, fino ai dieci minuti di “Garbage”, sfacelo di clangori, detonazioni, uragani, urla, cortocircuiti ad alto voltaggio, una delle musiche elettroacustiche più estreme della storia del genere, il distaccato impressionista scopre del tutto il lato d’accanito terrorista.

Womblife è altrettanto felice. Fahey stavolta quasi non tocca la chitarra, più che altro riutilizza suoi spezzoni incisi su nastro e li riprocessa con l’aiuto di O’Rourke. Il fare è maniacale ma ispirato, la fattura è spesso sopraffina. Le dissonanze guizzanti di “Sharks” sono sommerse da echi e interferenze fino a trasformarsi in pura musica psichedelica. In “Planaria” la sua acustica emerge stranita in una caciara gamelan, a confondersi in un concerto di accordi allucinati e percussioni, in “Eels” dialoga per brevi sillabe blues con un tenue flusso di turbolenze, colmo di tensione, infine in “Coelacanths” le fa diventare musica da circo (o da incubo) e funerea orologeria di risonanze. Questi brani danno un’unica composizione senza stacchi, in cui Fahey peraltro appare come colto da una specie di sonnambulismo ascetico. La finale “Juana”, lunga ma senza più grandi idee (oltre che troppo simile alle meditazioni di Bola Sete), è invece fuori posto.

Dopo O’Rourke, Fahey passa a Jones per Epiphany Of Glenn Jones (1997), realizzato in collaborazione con i Cul De Sac ma anche contenente altri personali esperimenti nello stile di Womblife: “Gamelan Collage” (caos equatoriale-industriale degno della “Virgin Forest” dei Fugs), “Magic Mountain” (psichedelica, allucinata, sfiancata dall’elettronica), “Nothing” (quindici minuti di parlato, campioni concreti e feedback, forse la cosa più ostica di tutto il periodo).

In veste live Fahey torna invece alla classicità dei lunghi medley, immortalata in un disco dal titolo non per niente affine al suo passato remoto, Georgia Stomps, Atlanta Struts, And Other Contemporary Dance Favorites (1998). Ma già poco dopo, diventato anche pittore astratto (le sue tele saranno ben quotate in breve tempo), il chitarrista predispone un inedito e inaudito John Fahey Trio, con Tim Knight e Rob Scrivner, praticamente un ensemble acid-rock in vena d’improbabili sperimentalismi (tra cui spoken-word). Le loro registrazioni compariranno in Live Session KBOO (2000), in un postumo Vol. 1 (2002) e parte anche negli ultimi due album solisti.

Il grosso di Hitomi (2000), ultimo album uscito in vita, è però dato da un messale recitato alla chitarra elettrica, con solo appena una goccia di riverbero, spoglia della distorsione di “Fanfare” come pure delle sperimentazioni appena trascorse, davvero incolore, a tratti incredibilmente amatoriale. Solo “Dance Of The Cat People”, tra distorsione lanciata (letteralmente) a locomotiva e deliranti improvvisazioni d’organo psichedelico, ritrova pienamente il pervicace gusto per la cacofonia di questi suoi ultimi anni. La parabola si conclude con Red Cross (2003), pubblicato due anni dopo la scomparsa, una collezione raffazzonata e incompiuta di materiale misto.

John Fahey si spegne nel 2001 per via di complicazioni cardiache. Era riuscito comunque a scrivere in tempo la sua autobiografia, “How Bluegrass Music Destroyed My Life” (2000). Nuove memorie autografe compariranno in un’altra pubblicazione post-mortem, “Vampire Vultures” (2003).
All’inizio del millennio aveva stretto amicizia con la No Neck Blues Band, e i Pelt nell'anno della scomparsa pubblicano il doppio Ayahuasca (2001), con la lunga dedica in tre parti di “Raga Called John”, ma non sono mancati nuovi prestigiosi allievi: Alan SparhawkHarris NewmanPhil ElvrumBen ChasnyJames BlackshawScott TumaSir Richard BishopSteffen Basho-Junghans. In Italia dichiarati ammiratori e seguaci sono Egle SommacalAngelo BignaminiStefano Meli e Michele Lombardelli.
Tra i recenti degli ultimi anni si segnalano ancora Dunstin Wong, Mark McGuire, Daniel Bachman, Bill Nace, Bill OrcuttAlexander Turnquist, Gionata Mirai, Cian NugentChris ForsythMarisa Anderson, Jeremy Hurewitz (aka Rootless), Joseph Allred, Eli Winter, J. R. Bohannon.

Prevedibilmente, anche le uscite discografiche postume per Fahey sono spesso di livello discutibile. The Great Santa Barbara Oil Slick (2004) raccoglie registrazioni dal vivo del periodo 1968/69, On Air (2005) è un live radiofonico, il quintuplo Your Past Comes Back To Haunt You (2011) è un box di provini e registrazioni perdute dai primi anni, curato da Jones (che dunque scimmiotta le primeve operazioni di Fahey stesso), Twilight On Prince Georges Avenue (2009) è un’antologia del suo periodo peggiore e Christmas Soli (2013) fa una selezione dei dischi natalizi. Proofs & Refutations (2023) porta alla luce sessioni di prova e bozze poco prima del suo ritorno di metà anni 90.

Tra le migliori, a parte la citata Return Of The Repressed, si distinguono Sea Changes & Coelacanths (2003), che colleziona l’intero Womblife e l'inedito “Hard Time Empty Bottle Blues”, Vanguard Visionaries (2006), buona raccolta di classici, ma a parte Trascendental Waterfall (2012), una riedizione in cofanetto dei primi sei album su 33 giri, nessuna colleziona i suoi grandi capolavori. Tra 2006 e 2007 si susseguono anche alcuni album-tributo (tra cui Great Koonaklaster Speaks). Ad oggi manca una vera raccolta della fase avanguardista 1996-2001. Nel 1998 America è stato ripristinato nella sua originaria concezione di doppio album, quindi implementando finalmente “Dalhart Texas 1967”. In Search Of Blind Joe Death (2013) è un buon documentario a cura di James Cullingham.

La sua lapide a West Salem recita: “The voice of the turtle/ is heard in our land”.

John Fahey

Discografia

JOHN FAHEY
Blind Joe Death (Takoma, 1959)
Death Chants, Breakdowns and Military Waltzes (Takoma, 1963)
Dance Of Death & Other Plantation Favorites (Takoma, 1964)
The Trasfiguration Of Blind Joe Death (Riverboat, 1965)
The Great San Bernardino Party & Other Excursions (Takoma, 1966)
Days Have Gone By (Takoma, 1967)
Requia (Vanguard, 1967)
Voice Of The Turtle (Takoma, 1968)
Yellow Princess (Vangurd, 1968)
New Possibility (Takoma, 1968)
America (Takoma, 1971)
Of Rivers And Religion (Reprise, 1972)
After The Ball (Reprise, 1973)
Fare Forward Voyagers (Takoma, 1973)
Old Fashioned Love (Takoma, 1975)
Christmas With John Fahey (Takoma, 1975)
John Fahey Visits Washington DC (Takoma, 1979)
Yes! Jesus Loves Me (Takoma, 1980)
Christmas Guitar Volume I (Takoma, 1981)
Railroad (Takoma, 1983)
Popular Songs Of Christmas & New Year’s (Varrick, 1983)
Let Go (Varrick, 1984)
Rain Forests, Oceans And Other Themes (Varrick, 1985)
Christmas Guitar (Varrick, 1986)
I Remember Blind Joe Death (Varrick, 1987)
God, Time And Causality (Shanachie, 1989)
Old Girlfriends And Other Horrible Memories (Varrick, 1992)
The John Fahey Christmas Album (Burnside, 1994)
Return Of The Repressed (antologia, Rhino, 1994)
City Of Refuge (Tim/Kerr, 1996)
The Mill Pond (Ep, Little Borther, 1997)
Womblife (Table Of Elements, 1997)
Georgia Stomps, Atlanta Struts, And Other Contemporary Dance Favorites (live, Table Of Elements, 1998)
Hitomi (LivHouse, 2000)
Red Cross (Revenant, 2003)
Sea Changes & Coelacanths (antologia, Table Of Elements, 2003)
The Great Santa Barbara Oil Slick (live, Revenant, 2004)
On Air (live, Tradition & Moderne, 2005)
Vanguard Visionaries (antologia, Vanguard, 2006)
Twilight On Prince Georges Avenue (antologia, Rounder, 2009)
Your Past Comes Back To Haunt You: The Fonotone Years (box, Revenant, 2011)
Trascendental Waterfall (box, 4 Men With Beards, 2012)
Christmas Soli(antologia, Fantasy, 2013)
Proofs & Refutations (Drag City, 2023)
LEO KOTTKE, PETER LANG & JOHN FAHEY
Leo Kottke, Peter Lang & John Fahey (Takoma, 1974)
JOHN FAHEY & CUL DE SAC
The Epiphany Of Glenn Jones (Thirsty Ear, 1997)
JOHN FAHEY TRIO
Live Session KBOO (One Hit, 2000)
John Fahey Trio Vol. 1 (Jazzoo, 2002)

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