Phil Elverum - Microphones - Mount Eerie

Phil Elverum - Microphones - Mount Eerie

La scalata del monte spaventoso

Personaggio stravagante, quasi barrettiano, Phil Elverum è divenuto uno dei guru del rock di oggi grazie soprattutto al progetto lo-fi dei Microphones, emblema di quella generazione che, dopo anni di eccessi tecnologici, riscoprì un approccio ingenuo e avventuroso per il fare musica. Un percorso culminato nell'epico "Mount Eerie"

di Federico Savini + AA.VV.

Phil Elverum ha realizzato un sogno. Forse non lo sa ma lo ha fatto, magari non per lui ma per tanti come lui, che hanno vissuto di passioni e normalità.
Phil nasce e cresce ad Anacortes, piccola cittadina situata all'estremo nord ovest degli Stati Uniti d'America. È la tipica città della provincia americana, immersa nella natura ed estranea ai fatti del mondo. Il giovane Elverum passa le giornate in mezzo ai boschi fino alle pendici delle montagne, ama fare bagni notturni nel lago accanto a casa, mentre i vicini ascoltano la radio e non mi stupirei di vederlo intento in lunghe e silenziose passeggiate notturne, magari deriso dai coetanei, quegli stessi che di lì a poco se ne sarebbero andati altrove a cercare una vita più stimolante per poi finire tra quattro assi di compensato alte un metro e mezzo a far telefonate per conto di una holding internazionale.

Phil ha un'indole introversa, ma non è un adolescente depresso. Ha amici, una ragazza e il liceo da finire, ma soprattutto ha tutto un mondo dentro di sé, da scoprire poco alla volta, tutto da esplorare proprio come la natura che lo circonda.
Come per tutto il resto, diventa musicista per gioco, e, d'altra parte, non è da tutti aver festeggiato un compleanno della prima adolescenza con un concerto dei Beat Happening nel giardino di casa!
Infatti Phil può vantare, per conoscenze traverse, rapporti d'amicizia con alcuni guru della scena musicale di Olympia nello stato di Washington, la stessa città delle riot girls e delle storiche etichette indie Kill Rock Stars e K Records. Una scena, questa di Olympia, che, con proprio i Beat Happening come padrini, è stata al centro della cosiddetta "alternative rock revolution" degli anni 90, una rivoluzione che, qualsiasi cosa diranno gli storici nel futuro, all'epoca fu realmente vissuta da molti come tale. Tra questi ci fu chi ne approfittò esclusivamente per seguire la moda del momento facendosene bello mentre per tutti quelli che ci credettero davvero (e non furono così pochi) fini in un deludentissimo fuoco di paglia, o poco più, e oggi è spesso catalogata come errore d'ingenuità giovanile.
Per Phil le cose furono più facili. Potè seguire il tutto da vicino (Anarcotes non dista molto da Olympia) e vivere la cosa come un bel gioco, che è poi quello che dovrebbe sempre essere.

Il rock di Olympia negli anni 90 si caratterizzò in maniera molto riconoscibile rispetto al resto del trend "alternativo" dell'epoca. L'approccio era abbastanza sobrio e senza vezzi, tanto da rimandare alle operazioni della Dischord di Washington, ma lo spirito di fondo era tendenzialmente più bonario e comunque meno rigoroso. Anche alle invettive delle riot girls e al noise-rock degli Unwound e dei Karp mancava quella seriosità tipica della musica realmente "impegnata". Olympia è stata una roccaforte ben custodita e piena di preziosi tesori musicali del rock indipendente degli anni 90.
In questo scenario il giovane Phil Elverum comincia a inventare e registrare in casa la sua musica, è da subito polistrumentista e fonico, con tutti i limiti del caso, e riprende senza pensarci troppo gli usi di alcuni tra i musicisti più mitizzati della generazione precedente, come Smog o i soliti Beat Happening dell'amico Calvin Johnson.
La cassetta autoprodotta "Tests" vede la luce nel 1999 e costituisce il primo autentico lascito a nome Microphones, ma, fin da subito, Phil è noto per altro.

Nel settembre del 1998 usciva il singolo "Jail/ Office Building" degli Old Time Relijun, strano gruppo "roots oriented", memore di Violent Femmes e Captain Beefheart, noto agli appassionati per la partecipazione all'antologia "Selector Dub Narcotic", curata da Calvin Johnson che produsse anche l'album "Songbook vol 1" uscito su K records nel '97. Al singolo seguirà nel giro di pochi mesi l'album "Uterus and Fire" destinato a far salire esponenzialmente la fama della band che proprio in occasione delle nuove registrazioni aveva sostituito il dimissionario batterista Bryce Panic con Phil Elverum, responsabile dell'inspessimento del suono con il suo drumming roccioso e primitivo.
Negli Old Time Relijun è evidentissimo il tributo alle radici rurali dell'America, come pure la fascinazione per gli elementi della natura, tutte cose che ritroveremo, e già ritroviamo, nella musica dei Microphones, dove però non ci sarà posto per le devianze blues e l'amore per l'improvvisazione della band di Arrington de Dyoniso e Aaron Hartman.

Nel frattempo, l'ormai attivissimo Elverum aveva già messo le proprie bacchette anche a servizio di Bret Lunsford, chitarrista dei Beat Happening, nel side project D+. La musica dei D+ è sostanzialmente un pop pauperistico nello stile della band madre di Lunsford nonché dei dimenticati Vaselines, solo con qualche vago vezzo country dovuto al bassista Karl Blau. "Dandelion Seeds", secondo album della formazione, a cui partecipa Elverum, è accreditato per metà proprio ai Microphones, rivelandosi di fatto uno "split album", dove i brani di quest'ultimo progetto spiccano per originalità nel rendere con pochissimi mezzi un ambizioso coro quasi liturgico e sottilmente gotico.

Verso la fine del '99 l'album Don't Wake Me Up dei Microphones (pubblicato su K Records come i successivi) viene accolto come il side-project del batterista degli Old Time Relijun. Per realizzare il disco, Phil si circonda dei soliti amici che non si sa bene né quanti siano né cosa facciano di preciso: "La band non è in effetti una band ma neppure un progetto solista - dichiara Elverum - È la mia vita e quella delle persone che ci entrano dentro. [...] Ho sempre incoraggiato i miei amici a scrivere le canzoni dei Microphones e a pubblicarle con quella sigla". Se non suonasse come un ossimoro, si potrebbe definire il progetto come un "ensemble aperto solista".
Il disco pare uscito quasi per caso dalla cameretta di Elverum come tante produzioni lo-fi dell'epoca, ma si fa notare per le improvvise cavalcate batteristiche sorrette da tappeti di tastiere e chitarre memori dello shoegazing inglese, nonché per un gusto melodico spiccato, seppur tenuto a freno come nella miglior tradizione dei songwriter abulici degli anni 90. Il risultato sa di "Pet Sounds" intimista per gli anni 90 (i Beach Boys sono citati apertamente su "Florida Beach"). Come in quel disco, si celebra la fine dell'adolescenza di Phil, che proprio nel '99 termina il liceo e si trasferisce a Olympia.

L'incedere di molti brani è lentamente marziale e sostenuto da un noise soffice a sostituire le armonie vocali dei tempi che furono. Phil e l'amica Mirah cantano con un fil di voce in mezzo a malinconiche derive strumentali e impetuose impennate rumoristiche. Nella sostanziale uniformità dell'album, spicca almeno la ballata "I'll Be In The Air" ripresa in più punti del disco e che fa capire come Phil non sia da meno degli eroi dell'indie-rock anni 90 omaggiati ovunque su "Don't Wake Me Up", dagli scatti alla Dinosaur Jr. di "You Were In The Air" alle stratificazioni alla My Bloody Valentine che permeano tutto il lavoro e in particolare il brano "Sweetheart Sleep Tight". Per rendere più interessanti le sue nenie, Elverum impiega al meglio un armamentario tecnico casalingo degno dei migliori esponenti del lo-fi di sempre e metterà la sua abilità di fonico anche al servizio degli Old Time Relijun con ottimi risultati, specie su "Witchcraft Rebellion" del 2001.

Ma procediamo con calma. Anche se nessuno all'epoca se ne accorse Don't Wake Me Up, disco tanto compatto nell'ispirazione quanto sottotono nell'interpretazione, era un concept-album sull'aria, primo elemento di una futura quadrilogia. A tal proposito Phil non è mai stato chiarissimo, in linea con la sua intrigante e fumosa concezione dell'universo, ma non perde tempo a realizzare il secondo capitolo della "saga" che esce nel 2000 e si intitola It Was Hot, We Stayed In The Water.
A cominciare dall'iniziale "The Pull" la musica si fa più acustica e "composta" laddove nell'album precedente erano i suoni ricreati in studio ad avere un ruolo preponderante rispetto alle pur belle melodie. Le doti chitarristiche di Elverum lasciano parecchio a desiderare, ma la fantasia non gli manca di certo, tanto che in questo disco il nostro comincia a doppiare le chitarre acustiche su due canali per costruire armonie più complesse e stranite di quelle che sarebbe capace di eseguire dal vivo. È un trucco che ascolteremo di frequente sui dischi dei Microphones, così come le esplosioni elettriche che trainano le canzoni nel finale accompagnate da cori epici un po' fuori luogo, forse, ma certamente ancora lontani dal kitsch. "The Pull" è, in questo senso, un brano archetipo per i Microphones, che faranno di queste intuizioni un marchio di fabbrica. Il resto dell'album però non è all'altezza: la mutevolezza dei temi musicali è addirittura eccessiva nella seguente "Ice" e nella lunga "The Glow", mentre il minimalismo pauperistico lascia perplessi in brani monostrumentali come "Drums" e "Organs". Inoltre, non possono dirsi riusciti episodi approssimativi come "Sand", cover degli amati Eric's Trip, e la marcetta parodistica "Karl Blau". L'album risulta alla fine un'accozzaglia scomposta di frammenti e idee anche buoni, ma privi di una sviluppo coerente; nel finale, tuttavia, recupera con le ottime "Something" e "Between Your Hear And The Other Ear", entrambe collage di momenti elettrici e acustici con la prima introdotta da una delle melodie migliori di Elverum, accostabile a certe cose di Nick Drake, e la seconda vicina agli arrangiamenti più bislacchi di Bill Callahan/Smog.

Elverum è sempre più vicino al maestro ideale Barrett, anche per via dell'evidente confusione artistica (e forse mentale) facilmente rintracciabile nelle uscite di questo periodo.
Nell'indifferenza generale, e va sottolineato che in assoluto i Microphones non sono troppo noti in patria, esce l'album autoprodotto e mal distribuito Windows, sempre del 2000. Questo disco minore riprende per lo più temi vecchi e ne anticipa di nuovi concentrando nella parte centrale una lunga serie di minutaglie tutte intitolate semplicemente "Window", che spaziano brevemente in tutti gli anfratti del suono Microphones, dallo strimpellio acustico amatoriale, all'ambient costruita con mezzi di fortuna fino all'indulgenza prolungata sui feedback della chitarra.

Nello stesso periodo continuano a uscire a valanga una serie di prove minori su vinile che saranno poi raccolte nell'antologia Song Island del 2001. Il disco è scostante e privo di filo conduttore come i precedenti, e come ogni raccolta del resto, ma il materiale raccolto questa volta è di prima qualità. Molti brani ripercorrono lo stesso canovaccio della seminale "The Pull" come, ad esempio, il singolo "Bass Drum Dream", e sono presenti diverse alternative take dei pezzi dell'imminente disco in uscita (Song Island uscirà dopo quest'album, dedicato al fuoco). Particolarmente bello è il singolo "I Cant' Believe You Actually Die/I'm A Pearl Diver" che si riallaccia in modo inequivocabile alle radici folk americane. Si tratta sostanzialmente di campfire song, suonate tra amici senza pretese, capaci però di trasmettere un calore raro. Nella musica dei Microphones, come in quelle del miglior lo-fi degli anni precedenti, si riscopre il gusto di fare musica per se stessi al solo scopo di stare insieme e passare il tempo. In questo senso, i Microphones si possono quasi pensare come una versione psichedelica di quella che i musicologi statunitensi chiamano "Household Music" in riferimento a canzoni destinate al solo uso domestico, delle quali fu maestro, ad esempio, il grande country-bluesman Mississippi John Hurt. In generale, si può ipotizzare che la ripresa di questo genere di poetica sia stato forse il messaggio più autentico della generazione che, dopo anni di eccessi tecnologici, riscoprì un approccio ingenuo e avventuroso per il fare musica. Lo stesso spirito avventuroso che d'ora in avanti nella musica di Elverum sarà un affare necessariamente più solipsista e personale e lo spingerà in luoghi in cui difficilmente gli amici potranno seguirlo. Queste due canzoni suonano quasi come un sentito commiato per quanto fatto in precedenza: l'autore è ormai pronto a fissare il meglio dell'esperienza dell'indie rock americano degli anni 90 in un disco personalissimo e al tempo stesso riassuntivo di tutto un sentire diffuso, per poi spiccare il volo definitivo verso lande del tutto inesplorate.

Anno 2001: mentre il successo di "Witchcraft Rebellion" degli Old Time Relijun fa salire sempre più le quotazioni della band guidata da Arrington de Dyoniso, anche grazie alla splendida produzione di Elverum, quest'ultimo fa uscire, come al solito, in sordina The Glow Pt. 2. Il disco, dedicato al fuoco ma non è chiarissimo, si diffonderà pian piano più grazie al passaparola degli appassionati che non a un lancio promozionale adeguato. In ogni caso, l'eccellenza non è cosa abbastanza diffusa da passare inosservata e, tra gli altri riconoscimenti, l'album diventa il disco dell'anno della webzine Pitchforkmedia.
The Glow Pt. 2 conta ben venti tracce e supera l'ora di durata presentando un suono complessivamente più acustico e lineare dei predecessori. L'attacco di "I Want Wind To Blow", con l'ormai classica chitarra doppiata, è tra le cosa più smaccatamente roots mai incise da Phil, una melodia antica e sussurrata, sorretta dalla pacata cadenza del basso come un John Fahey dilettante che provasse pure a cantare. Seguendo un canovaccio consolidato, il brano si chiude in un climax ascendente per grandi percussioni e deliri da banda paesana, per andare a introdurre l'epica title track che passa con disinvoltura dal noise più debordante alle invocazioni dal sapore gotico che spesso compaiono nei dischi dei Microphones. Tutto funziona a meraviglia questa volta e "The Moon" continua a sorprendere, alternando uno scombinato arpeggio per gruppo di chitarre acustiche con una cavalcata indie rock per organo e batteria. "Headless Horseman" e "My Roots Are Strong And Deep" puntano diritto verso un suono sempre più antico, incontaminato e barrettiano e la seconda, decisamente più psichedelica, è autoesplicativa fin dal titolo. La parte centrale del disco è un susseguirsi di bozzetti acustici e rocciosità noise inframezzati da un suono ricorrente che compare spesso tra un brano e l'altro. Si tratta di un suono basso e caldo, poco percettibile, eppure a suo modo ossessivo, che contribuisce forse anche più della scrittura eccellente a caratterizzare i dischi dei Microphones come strana terra di nessuno tra il delirio mistico animista di Elverum e la fascinazione per le zone d'ombra della psiche, forse quella stessa "The Mansion" di cui Phil canta a metà del disco tra l'impaurito e il ritualistico. "I'll Not Contain You" è il ritorno a una forma canzone più stupefatta e rilassata, quasi una parodia bucolica di certe ingenuità sixties, con sempre oscure marzialità sullo sfondo. L'inquietudine, infatti, cresce sulla successiva "The Gleam Pt.2" che pare un brano di Van Dyke Parks suonato dallo Smog del periodo "Wild Love", per culminare nel crescendo emotivo di "Map". L'estasi beata ritorna nella dilatata reprise di "You'll Be In The Air", che però è molto diversa dalla versione dell'album d'esordio. Il disco imbocca decisamente la strada della canzone barocca, arrangiata con dosi inverse di fantasia e mezzi che è poi la maggiore peculiarità dell'album, chiuso da due tracce rumorose e dilatate, ma sempre percorse dall'inquietante suono ossessivo che dicevamo, fino a un lento annullarsi finale.

Con questo disco Phil non ha semplicemente omaggiato gli eroi della scena indie della sua adolescenza, ma ha costituito un inquietante monumento egotista difficile da decifrare, ricchissimo di trovate musicali e al tempo stesso impregnato di un immaginario personalissimo e sfasato che legittima ingombranti paragoni con Syd Barrett, ma senza più il timore di rimanere nell'affollato gruppo degli emuli dimenticabili.
Forse per via della presa di coscienza del proprio talento oppure per mancanza di tempo, come sosterrà ufficialmente, Elverum abbandona gli Old Time Relijun nel 2002. A questo punto si possono solo fare delle ipotesi sulla condizione di Phil che, per sbrigarcela brevemente, uscirà all'inizio del 2003 con un album capace di superare il già imprescindibile predecessore.

Al di là dell'inevitabile soggettività dei gusti, Mount Eerie è un disco estremamente ambizioso, più di ogni altro lavoro a nome Microphones. Un concept sulla terra che chiude la quadrilogia iniziata con Don't Wake Me Up. L'album è un flusso continuo di suoni vellutati e impalpabili, che si alternano coi rumori più frastornanti in un clima epico che verte quasi esclusivamente su stati d'animo di angoscia e terrore atavico e trasporta l'ascoltatore in mondi sconosciuti, ma pregni di umana inquietudine, operazione riuscita altrettanto bene solo a Tim Buckley e Robert Wyatt.
"The Sun" sorge esattamente dove finiva l'album precedente: il sordo drone ossessivo di "The Glow Pt. 2" pulsa più insistente che mai e pian piano comincia a montare su traballanti strutture dub, mentre i fruscii continuano a imbrattare lo sfondo. Qualcuno ha stabilito paragoni azzardati con Bernhard Gunter che però, per quanto lontani siano i due personaggi in ogni senso, trovano fondamento se si prende la musica di Elverum come psichedelia interiore, anche più rarefatta di quella proposta dai Supreme Dicks che riaggiornarono il sound (chitarristico) dei Grateful Dead nell'epoca del post-rock. Dagli abissi della mente il brano viene sparato nelle vie siderali da una fanfara epica sostenuta da un tribalismo titanico, quasi una samba spaziale che si ferma come dinanzi a uno strapiombo quando Phil comincia, timidamente, a cantare. Il canto evocativo di Elverum è accompagnato da una marcetta incerta fatta da chitarre spezzate e percussioni sfibrate, con occasionali inserti di trombe e altre diavolerie a sottolineare i momenti di maggiore panico. Il cantante vede se stesso alle pendici del monte spaventoso che dovrà a tutti i costi scalare e nel finale l'impennata rumoristica in tipico stile Microphones è sommersa da una colata di rumore bianco, quasi fosse il risveglio da un incubo. Ipotesi corroborata dalla successiva "Solar System", placida ballata acustica che prelude all'inizio della scalata. "Universe" è introdotta da un balletto meccanico di percussioni, che culmina in una sorta di rock marziale, mentre il cantante all'acustica narra l'inizio della salita. I cori cominciano a farla da padrone e il brano si chiude con invocazioni liturgiche alla Popol Vuh. La title track prende le mosse in questo clima austero, dopodiché succede di tutto: dalle distorte memorie di desolate work song si passa bruscamente a una contorsione industriale con cadenze hip-hop fino a un pennellamento ombroso di suoni concreti e antiche fisarmoniche che si dissolve in una nuova ondata di white noise. Tratteniamo ancora il respiro e riascoltiamo finalmente la voce di Phil, che guida un coro epico e scuro con corni e grandi tamburi a scandirne le ultime parole nella conclusiva "Universe".

Mount Eerie entra di diritto nella storia del rock e consacra il suo autore da grande instabile a grande musicista tout court, sempre che dopo The Glow Pt. 2 ce ne fosse ancora bisogno. La fantasia di Elverum ora è completamente a briglie sciolte e i risultati costituiscono alcune delle "imprese" musicali più memorabili di sempre.
All'uscita di questo album monstre è subito fatta seguire una comunicazione di Elverum stesso che dichiara chiusa per sempre l'esperienza Microphones. La sua nuova formazione si chiamerà Mount Eerie, proprio come il suo (secondo) capolavoro. Il senso del paradosso non manca di certo a Phil, che come migliore seguito possibile a quest'ultima stranezza se ne esce a inizio 2004 con un disco a nome dei Microphones!

Si tratta del Live In Japan registrato l'anno precedente e nel quale ritroviamo un Phil Elverum in versione solipsista e classicamente lo-fi cantautorale. Ci sono anche delle reprise dai vecchi album come "The Blow Pt. 2", che mutua esattamente la melodia e l'accompagnamento di "Something" da "It Was Hot, We Stayed In The Water". Lo stile di Elverum è, in questa prova, sempre più legato alla tradizione statunitense e non brilla per originalità pur inanellando parecchie canzoni del tutto compiute e migliori della media dei primi dispersivi dischi. "Climb Over" potrebbe appartenere al repertorio dei Palace Brothers di Will Oldham, e in generale il disco si muove spesso sui passi del Neil Young elettrico, richiamato esplicitamente nell'acustica "After N. Young", solo più confuso e preso da fantasmi psichedelici. In tutto questo, c'è il tempo per due brani a cappella, tra cui la natalizia "Silent Night" di Irving Berlin, e una "Universe Conclusion" di dieci minuti che riprende, dall'epico pezzo finale di "Mount Eerie", solo poche cose. In definitiva Live In Japan inquadra un artista che torna a casa, suona tra amici e senza impegno e, soprattutto, non dà il minimo segno di avere colto la grandezza della propria arte: non cerca produzioni migliori, non stempera quasi per nulla le asperità della musica, è insensibile al fascino del sensazionalismo e non dà la minima impressione di voler diventare adulto, talmente chiuso nel suo mondo da disinteressarsi del tutto di quello esterno, che resta tutto per noi. Poveri noi.

Phil Elverum soffre talmente di autismo o understatement, a seconda dei punti di vista, che non ci stupiremmo di vederlo scomparire di botto, magari per dedicarsi al giardinaggio o ai viaggi in Siberia... Il suo proverbiale istinto promozionale lo porta a uscire, a fine 2004, con le prime due pubblicazioni col nuovo moniker Mount Eerie. Si tratta del 12 pollici "Two songs" e del mini-lp Seven Songs Of Mount Eerie, entrambi i dischi, chi l'avrebbe mai detto, a tiratura limitatissima. La qualità del materiale non è in effetti da strappo di capelli, ma le perplessità sulle facoltà mentali dell'autore si accrescono giorno dopo giorno. Le due canzoni sono sostanziali reprise delle atmosfere del disco eponimo della band, che riprendono soprattutto le fanfare cupe del monte spaventoso e i suoi cori minacciosi e rassegnati. Le sette canzoni del vinile non si discostano molto, se non nella durata media minore dei brani. Qualche buona intuizione batteristica e una propensione musicale sempre più rivolta alle marcette sono quanto c'è da segnalare in queste ultime uscite che rinnovano l'ambientazione dell'ultimo disco di studio in una veste sempre più pauperistica e minimale, a rimarcare per l'ennesima volta la natura sfuggente e imprevedibile di Phil Elverum, uno dei pochi (inconsapevoli) grandi del rock di oggi, suonato con gli strumenti di ieri ma in movimento su traiettorie ancora tutte da decifrare.

Nel 2005 Elverum, oggi "Phil Elverum And The Sun" (e vabbè...), si mette in proprio e comincia a distribuirsi i dischi da solo, peraltro obbligando l'acquirente a portarsi a casa sia cd che vinile, oltre a gadget vari, come ad esempio manifesti interi recanti le copertine dei dischi. È il caso ad esempio di No Flashlight, disco ufficiale dei Mt. Eerie, nonché autentico ritorno sulle scene. Il disco non si discosta dalle atmosfere del capolavoro eponimo ma risulta alla fine molto meno riuscito. Questa volta, tanto per puntualizzare, Phil ci propone canzoni dalla durata convenzionale, per lo più giocate su oscuri bordoni di basso e la batteria sempre in bella evidenza ma non necessariamente epica e roboante come sovente accadeva in passato. Qui trovano addirittura posto un paio di brani vistosamente figli della bossa nova. Il problema autentico del disco è una certa omogeneità di fondo che nel caso specifico non fa strappare i capelli e non c'è nessuna canzone capace di svettare davvero sulle altre. Per i fan rimane una manna o quasi, ma per gli altri No Flashlight rappresenta certamente un passo indietro. Sempre consigliato per lo più ai fan, ma questa volta per gli amanti del genere c'è davvero di che leccarsi i baffi, lo spartano "Singers", uscito in concomitanza con il disco maggiore, è una raccolta di austere ballads acustiche inedite o alternative a pezzi già pubblicati risalenti a tutto l'ultimo lustro. La dolente "Let's Get Out Of The Romance", la sognante "Where Is My Tarp" e le tradizionalissime "It's Morning Time Again" e la ripresa di "I Can't Believe You Actually Die" parlano una lingua antichissima e poco frequentata dai musicisti cool, ma capace di trasmettere un calore assoluto. Elverum è dunque sempre più perso, beatamente, in se stesso e pare non gli interessi altro che starsene coi suoi amici a suonare in tutta tranquillità. Difficile comunque dargli torto...

A fine anno esce anche un altro disco, intitolato Eleven Old Songs Of Mount Eerie. La novità saliente di questa ennesima uscita che reitera da cima a fondo i classici stilemi cantautorali di Elverum (e non è che in se sia una brutta cosa) presenta la sostanziale novità di essere completamente (o quasi) punteggiata da una drum machine antidiluviana ad accompagnare il canto sfasato e doppiato di Phil. Tutto qua, ma la magia si rinnova ancora una volta e proprio non fa parte dell'autore la velleità di realizzare capolavori. Elverum si rivolge semplicemente a chi ha voglia di ascoltarlo e non pretende null'altro. Ma lo sapessero fare tutti così bene...

Nel 2008 il nuovo 10'' intitolato Black Wooden Ceiling Opening ricalca l'afflato mistico e l'ispirazione trascendentale che scandiva la cesura fra i suoi disegni vecchi (Microphones) e nuovi (Mount Eerie): la stoica testimonianza della fragilità umana dinanzi al tempio sempiterno della natura, verso cui eleva una doglianza silenziosa, che rischia di essere sopraffatta da eoni di sorda indifferenza.
Anticicloni acustici si mescolano a uragani centripeti di "casserullanti" e fuzz elettromagnetici ("Appetite", "Blue Light On The Floor"); l'indie-rock sgraziato di "Domesticated Dog" sembra un Malkmus ubriaco fradicio che, salito per sbaglio sul palco a un concerto dei Blue Cheer, non voglia più saperne di mollare il microfono. "In Moonlight" cavalca la desolata epica western-soul di Neil Young col passo cingolato dei Melvins. L'ascensione tribale e l'indie-pomp in miniatura di "Don't Smoke" introducono le percussioni sincopate e il flusso di coscienza psicotropo di "Stop Singing", che si raggruma in un epilogo quasi prog-core.

Nel mezzo, di una marea incontenibile di lavori minori, EP, 7" e poca sostanza, nel 2009 esce un nuovo lavoro a nome Mount Eerie. Ma Wind's Poem è diverso. Innanzitutto perché Phil se l'è covato per due anni, rimanendo ad ascoltare la natura parlargli e cercando di tradurre quelle sensazioni in musica. E poi tante distorsioni, che increspano le melodie lo-fi di Elverum. In certi pezzi la chitarra ricorda persino alcune atmosfere black-metal ("Wind's Dark Poem", "Lost Wisdom Pt. 2"). Poi anche tanti synth, il che non vuol dire un suono più elettronico. Piuttosto, un accento ambient, come in "Through The Trees": undici minuti, per un drone mistico, su cui Elverum sospira le solite melodie vocali.
Nel resto del disco si riconoscono ancora venature del lirismo Elverumiano, ma sono solo sfumature nel mare magnum di incertezza e mediocrità ("My Heart Is Not At Peace"). Si fanno largo alcuni momenti degni. Come "Ancient Questions", dove appare manifesta la collaborazione con Nick Krgovich dei canadesi No Kids, o la caustica "(Something)", o ancora l'ascensione violenta di "The Mouth Of Sky". La stanchezza compositiva emerge troppe volte, lasciando scoperte melodie noiose e riscaldate. Troppo abusata la voce, appena sospirata, quasi una parodia di quella che caratterizzava il vero cantautore Elverum.
Wind's Poem non è un brutto disco. Gli oceani di synth, le increspature della chitarra, le melodie più solari sono aria fresca nell'asfissiante discografia del progetto Mount Eerie. Eppure c'è ancora troppa incertezza, troppa indulgenza nel ricorrere troppo spesso a soluzioni abusate.

Già dal precedente Wind's Poem si iniziava ad intuire che la mente non esattamente allineata di Phil Elverum fosse in procinto di aprire le proprie porte ad una nuova musa ispiratrice. Proprio quando il progetto di rinascita artistica sotto il moniker Mount Eerie sembrava rischiare di soffocare uno dei più interessanti cantautori dell'ultimo decennio in un oblio di vittimismo autocompiaciuto, il sopracitato album del 2009 aveva fortunatamente iniziato a tracciare una via d'uscita.
E proprio da quella stessa via, lastricata di felici intuizioni fra cantautorato lo-fi e sospensioni mistiche di matrice teutonica, muove i propri passi questo nuovo Clear Moon, consegnandoci undici composizioni ispirate e compiute pur senza rinunciare a prevedibili espedienti autoreferenziali.
I paesaggi sonori disegnati da Mount Eerie/Elverum sono ormai consolidati e tutt'altro che rassicuranti: lugubri tappeti di sintetizzatori e chitarre ai confini del doom metal catapultano l'ascoltatore in un mondo ridotto a macerie, mentre le strutture circolari dei brani fotografano una mente imprigionata nella stasi più completa.
In questo scenario desolante si fa però timidamente strada la voce, al solito misurata e confidenziale, di un Phil Elverum che sembra rispondere alla situazione con una placida rassegnazione, talmente inverosimile da rasentare l'ironia. Emblematico è in questo senso lo straordinario pezzo d'apertura "Through the Trees Pt.2", con il cantautore di Anacortes intento a confessarsi sulle ali di un chamber-pop mutageno che fluttua leggero su un tessuto sonoro crepuscolare. "Misunderstood and disillusioned, I go on describing this place", canta Elverum, tradendo la sinistra lucidità che lo porta a raccontare le sue esperienze mentre attorno a lui regna l'Apocalisse.
È un gioco di contrasti e contraddizioni estremamente affascinante quello con cui si misura questo disco e che lo rende scorrevole e avvincente anche davanti a traversate apparentemente insostenibili, come quella che si profila lungo il pachidermico incedere di "The Place Lives" e che conduce all'oltremondo spettrale di "The Place I Live", benedetta dal fantasma di Florian Fricke.
Suona così paradossalmente confortante, nei suoi vagiti di umanità, il drammatico crescendo di sax e orchestra di droni che chiude la marcia per anime dannate "Lone Bell", prima che il palcoscenico si faccia appannaggio del gioiello "House Shape", mirabile esempio di sospensione tra vorticose melodie pop e mantra post-apocalittici da galassie sconosciute.

Dopo neanche quattro mesi, Elverum pubblica un seguito, Ocean Roar (2012), che non sposta di un millimetro le coordinate musicali del predecessore. L’io narrante appare messo al muro già dai primi minuti della claustrofobica "Pale Lights", dove assalti di feedback e droni tastieristici vengono interrotti solo per permettere a Elverum di sussurrare un’unica strofa in un silenzio desolante. E’ l’unico tentativo di far emergere un briciolo di emotività umana in un viaggio senza ritorno in cui regna incontrastato il caos. Anche l’abbraccio dream-pop della title track assume una connotazione beffarda in un contesto che lo rende nient’altro che un bagliore passeggero: la sublime impalcatura halsteadiana è un espediente che enfatizza il fluttuare di una mente priva di punti di riferimento (“Lost in thought/ The mind wandering again/ Drifting west over the hills/ Pulled ou to sea”).
Il naturale prosieguo è una “Instrumental” che divide idealmente l’album a metà, con lo sfogo disperato di un’identità intrappolata nella wasteland dei suoi pensieri. Fra le impenetrabili nubi rumoristiche che avvolgono il cuore del disco c’è spazio per scorgere l’ennesimo dazio pagato dal Nostro ai Popol Vuh, stavolta apertamente con una “Engel Der Luft” stuprata da chitarre laceranti, sintomo di quell’interesse per il black metal che Elverum non ha mai nascosto.  
L’arte compositiva del fuoriclasse si manifesta successivamente in “I Walked Home Beholding”, ultima, straziante testimonianza di vita con tanto di schiocchi di dita a scandire l’imminente compiersi di un destino ineluttabile.

Leggermente inferiore a Clear Moon, col quale inevitabilmente si rapporta per la continuità del discorso narrativo e la riproposizione di alcune soluzioni, Ocean Roar ne costituisce comunque una più che degna prosecuzione. La credibilità con cui Elverum mette in musica drammi psicologici è filo conduttore di un’altra opera straordinariamente intensa in cui non è difficile riconoscere nelle macerie della mente che qui si racconta, quelle a cui sembra essere ridotto il mondo ostile che la ospita.

Live in Bloomington, September 30th, 2011 anticipa alcuni brani dell'allora imminente dittico composto da Clear Moon e Ocean Roar, e assieme rende conto degli ultimi anni del progetto Mount Eerie, riproponendo diversi brani dal precedente full-lenght Wind's Poem. Dalla imponente rock-band ricca di suoni stratificati a un set di soli tre elementi: due tastiere e una chitarra ci guidano in questo breve viaggio dove i brani sono come scarnificati, ridotti all'essenza più pura del loro messaggio ancestrale; così come Elverum non può fare a meno di nominare il cielo o gli astri nei suoi testi, ma senza mai farli sembrare banali, come se ogni volta si rinnovasse in lui la profonda meraviglia nel contemplarli.
Oltre alla formazione insolita, ciò che rende imperdibile questo live è l'accurata selezione dei brani, davvero rappresentativa del discorso che Elverum sta portando avanti con i suoi sodali. Ed è raro, specie in piena era digitale, trovare una registrazione live che non sia banalmente “interlocutoria”, atta a intrattenere gli aficionados di lunga data.

L'introversione di Phil Elverum lo ha progressivamente condotto a una visione del mondo sempre più chiusa in se stessa, arrivando a richiedere necessariamente la forma di one man band e, dunque, a registrare Sauna in pressoché completa autonomia. Soltanto un piccolo coro di voci femminili più una maschile e il flauto di Evin Opp vengono situati con precisione nello sviluppo della narrazione dell'album, la cui calma apparente nel paesaggio descritto dalla prima traccia è minacciata da tuoni in lontananza. È il preludio a un viaggio interiore che stavolta lascia ben poco spazio alla meraviglia e affonda invece a piene mani in un vuoto esistenziale forse mai così esplicito.
Un vuoto che necessita di esprimersi, sia con metafore elementari – ricorre quella di un cumulo di carbone ardente come fioco cenno di vita – sia attraverso immagini inusitate che conducono a misteriose rivelazioni. Mai come ora, Elverum si sente ossessionato dall'apparenza ingannevole delle cose, dalla percezione che questa vita sia solo un velo che separa il nostro corpo da un cielo senza fondo e che tutto origini e si dissolva nel nulla (I was born/ out of nowhere/ and back to nowhere/ I'll return). Dubbi ancestrali posti, anzi asseriti con un distacco a volte quasi spietato, tale da richiedere qualche fugace ritorno all'ordine, con due intermezzi strumentali completamente astratti dal contesto: embrioni percussivi che imitano il conforto che solo l'immateriale ricchezza dei libri sembra poter garantire (In my bag,/ a book of zen poems/ that I read and re-read./ They all say:/ “Don’t worry./ Dreamed dust 
is always blowing./ All this is a veil”). In tutto questo, alla fine, rimane essenziale aggrapparsi con le forze rimaste a questa realtà, per quanto pallida ed evanescente (“This”).
Dalla più placida contemplazione all'ira turbolenta, in “Sauna” permane un sentimento di sospensione, addirittura di insoddisfazione verso una forma espressiva che non riesce a cambiare, e nondimeno la necessità di trovare sempre quella valvola di sfogo per intravvedere un accenno di risposta nel dedalo delle proprie stesse domande.

Sabato 9 luglio 2016 è giunto il tragico, esatto momento in cui Elverum ha conosciuto la morte, la “morte vera”, e come da un’innocenza di bambino si è improvvisamente risvegliato in una scomoda adultità. La giovane moglie Geneviève è venuta a mancare per un cancro, lasciando incompleto un quadro domestico al quale si era da poco aggiunta una figlia.
Non si può negare che nella recente scrittura di Phil fosse vieppiù emerso un divorante tumulto interiore, che ha trovato voce tanto nella saturazione swansiana di Ocean Roar quanto tra le righe delle pagine intimiste di Sauna; voci dall'orlo di uno strapiombo, sintomi e presagi che avrebbero trovato l'ineludibile conferma in A Crow Looked At Me, cucito nel silenzio delle mura private per autentica necessità di elaborazione e quasi al netto di fini artistici.
Ciò è del tutto evidente nell’accumulo di pensieri senza soluzione di continuità, a conti fatti un diario che segue i passi dell’isolamento che ha caratterizzato l’autunno successivo al luttuoso evento.
Non solo le già sporadiche rime, ma persino la musicalità viene a mancare nel flusso di poesia in prosa, finanche banale nel riportare scene di un quotidiano desertificato: la realtà, il micro-universo contemplato nel corso di un’intera carriera è d’improvviso spogliato della sua misteriosa fascinazione, che rivive unicamente nella proiezione dello stesso filtrata dal ricordo luminoso di Geneviève. Di qui la necessità, nonostante l’insopprimibile sconforto, di riportare nel mondo ogni frammento utile a non affievolirne l’immagine, l’impronta di una vita a tal punto significante per qualcun altro.
Per Phil ciò equivale a un senso di responsabilità, all’eroico e onorevole compito di un padre vedovo che non ha mollato la presa, e che anche nella più profonda disperazione non ha perso di vista la fulgida bellezza di ciò che è rimasto.

A solo un anno di distanza giunge la seconda parte del doloroso diario quotidiano di Phil: in Now Only le domande che ancora non hanno trovato risposta vengono come risospinte a riva, e non appena vengono poste si disperdono come ceneri al vento. Ora le canzoni sono istantanee passate e presenti, di una vita che appare lontanissima e di un’altra completamente diversa, che si trascina a fatica inciampando a ogni passo nella nostalgia. E quella minacciosa “Distortion” elettrica che solcava molte tracce di Mount Eerie assume ora un significato universale: la deformazione di un intero percorso di vita privata, sino a poco fa solcato da un sentimento di morte molto più astratto e distante.
Anche qui l’arpeggiare delicato e costante della chitarra è solo a tratti arricchito da coloriture di tastiera o leggeri ritmi di batteria, così da confermare il predominante desiderio di isolamento e solitudine spirituale. Permane nella voce di Phil un tono tipicamente statico, come un mantra ripetuto a se stesso per non soccombere alla sofferenza.
Poco o nulla importa se in fin dei conti, ferma restando la rinnovata commozione, quelle degli ultimi due album probabilmente non sono le canzoni migliori a nome Mount Eerie. Quand’anche la sorgente della loro ispirazione fosse la più pura cui abbia attinto sinora, Phil non risulta essere nel pieno delle sue facoltà espressive: agisce d’istinto per lasciare a se stesso un segno di questo calvario in vista del suo necessario superamento, approdo dall’alto del quale potrà finalmente ricordare soltanto l’essenza più luminosa di ciò che è stato.

Ma la vera misura del coraggio di Phil Elverum si percepisce nella dimensione live di (after), registrazione effettuata nel novembre 2017 in occasione del festival Le Guess Who? di Utrecht, presso la Jacobikerk del XIII secolo. C’è infatti un divario abissale da colmare tra il doloroso silenzio della casa di Anacortes, Washington e le arcate gotiche dell’antica chiesa protestante: la voce che tra le mura domestiche ripercorreva gradualmente quelle righe d’inchiostro stese di getto, in “(after)” ha il suono di una piuma che si arrende alla tempesta – e che, con la sola forza di un tale abbandono, la vince.
Rivivere il decorso della malattia di Geneviève così crudamente descritto in brani come “Soria Moria” non potrebbe in alcun caso divenire parte di un mero “repertorio”: è una sfida titanica che occorre fronteggiare ogni volta con la stessa consapevolezza, la stessa integrità, come un irreligioso atto di fede ugualmente rivolto alla vita e alla morte.
E sarà anche l’effetto del riverbero naturale che si espande lungo le navate, ma è nondimeno curioso come le singole canzoni, fondate su pochi accordi in arpeggiato, finiscano col sembrare le strofe di un fluviale Preconio nella notte di Pasqua, dove la luce finalmente invade e prende il sopravvento sulle tenebre, che si dissolvono in un applauso scrosciante, dal più profondo del cuore compassionevole che ci rende umani, per quanto fragili e condannati allo strazio della perdita.

Alla luce del lutto coniugale e del recente secondo matrimonio (benché già concluso), “Lost Wisdom” si rivela oggi ancor più peculiare entro il percorso cantautorale di Phil Elverum: nel 2008 usciva infatti l’unico album in cui la sua voce si raddoppiava in quella di Julie Doiron, mettendo così da parte un’espressione sino ad allora quasi del tutto solitaria. Dopo gli ultimi due diari di desolazione domestica, il pioniere del lo-fi indie torna dunque a contemplare un duetto, come a condividere un fardello troppo gravoso e, un passo alla volta, allentare la sua soffocante morsa.
Ogni saggezza è vanificata dall’azione sviante del destino: potrebbe essere questo il senso complessivo di Lost Wisdom pt. 2, ma nonostante il persistente gravame della propria condizione esistenziale, Elverum riesce finalmente a far entrare un po’ d’aria tra i versi di queste otto canzoni, che conservano la forma libera e la cadenza discorsiva di A Crow Looked At Me e Now Only.
Torna a esserci sottotesto, e dunque poesia, nella scrittura post-traumatica di Elverum, al punto da far apparire questa iterazione del duetto con Julie Doiron più densa di quanto in definitiva non sia. È un respiro profondo, questo sì, e ascoltarlo non provoca più il tuffo al cuore cui ci eravamo ormai abituati. L'unica consolazione continua dunque a essere la scrittura, il canto che reca memoria di quel che si è perso; il potere della parola che ogni volta fa rivivere ciò che è svanito – e con esso una fioca, imperitura speranza.

Il 2020 diventa l’anno in cui Phil Elverum decide di resuscitare il moniker con la quale aveva pubblicato la prima serie di album. Nativo di Anacortes, cittadina di pescatori sull’Oceano Pacifico quasi al confine col Canada, il cantautore aveva sospeso il suo progetto folk lo-fi diciassette anni fa con lo splendido “Mount Eerie” (K, 2003), per assumere proprio il nome del monte Erie, alle cui pendici era nato, e sciogliere la sua musica in un songwriting rarefatto e dilatato, preda di scosse ritmiche e tempeste droniche.

Microphones In 2020 rappresenta una sintesi sonora tra Mount Eerie e The Glow, Pt. 2 (K, 2001). L’album si compone di un’unica traccia di 44’44” strutturata su due accordi/sezioni, che si ripetono in loop, e intarsiata, a seconda delle aperture narrative, con innesti di altri strumenti (pianoforte, basso e batteria) che fanno eco alle prove più mature di Owen/Mike Kinsella. Le chitarre si sdoppiano, in stile Microphones, con una resa sonora ondulata e sfasata che ricorda gli esperimenti coi nastri di Terry Riley, lasciando negli oltre sette minuti strumentali iniziali – suonati con la prima chitarra posseduta – tempo e spazio all’ascoltatore per perdere l’orientamento e sovrascrivere i propri pensieri.
Al centro si situa il racconto di formazione di Elverum, un percorso immaginifico a ritroso nella sua “educazione sentimentale” con la musica che lo ha portato ad essere l'uomo che è oggi, la cui voce giunge quasi inaspettata all'interno del brano. La nostalgia riflessiva di Elverum diventa un processo analitico con cui l’autore, compiendo un viaggio durante il quale effettua le registrazioni, ripercorre le tappe del suo divenire musicista e rinnova i dubbi che lo accompagnano da allora, coadiuvato da un senso della reiterazione familiare alla musica minimalista che qui trova un punto di equilibrio ideale col limite di ripetizioni sostenibili in un brano cantabile della tradizione folk e rock.
Sul piano narrativo adotta la processualità del coming-of-age e la forma del memoir – centrali nella cultura indipendente americana – per far emergere i momenti aurorali di un percorso artistico particolare e universale, guardando alle origini non come atto di autocompiacimento ma come riflessione ciclica sulla sostanza del proprio essere e sulla forma della propria musica immaginata come un unico, sconfinato brano composto da impercettibili oscillazioni, spaccature, vuoti, disgregazioni, ingressi placidi e interventi massivi.

Microphones In 2020 è un esperimento intertestuale che riattiva con originalità forme e motivi ricorrenti attraverso le pratiche DIY care a Elverum e alla scena di Olympia, dalla quale proviene artisticamente, per vivificarle in un triplice presente di agostiniana memoria, che è contemporaneamente passato, presente e futuro.

Contributi di Simone Coacci ("Black Wooden Ceiling Opening"), Mattia Braida ("Wind's Poem"), Andrea D'Addato ("Clear Moon", "Ocean Roar"), Michele Palozzo ("Live in Bloomington, September 30th, 2011", "Sauna", "A Crow Looked At Me", "Now Only", "(after)", "Lost Wisdom pt. 2") e Maria Teresa Soldani ("Microphones In 2020")

Phil Elverum - Microphones - Mount Eerie

Discografia

MICROPHONES

Don't Wake Me Up (K, 1999)

It Was Hot We Stayed in the Water (K, 2000)

Window (Yoyo, 2000)

Song Island (antologia, K, 2001)

Glow, Pt. 2 (K, 2001)

Mount Eerie (K, 2003)

Live in Japan (K, 2004)

Microphones in 2020(P.W. Elverum & Sun, 2020)

MOUNT EERIE

Seven Songs Of Mount Eerie (P.W. Elverum & Sun, 2004)

No Flashlight (P.W. Elverum & Sun, 2004)

Eleven Old Songs Of Mount Eerie (P.W. Elverum & Sun, 2004)

Black Wooden Ceiling Opening (P.W. Elverum & Sun, 2008)
Wind's Poem (P.W. Elverum & Sun, 2009)
Clear Moon (P.W. Elverum & Sun, 2012)
Ocean Roar (P.W. Elverum & Sun, 2012)
Live in Bloomington, September 30th, 2011 (P.W. Elverum & Sun, 2013)
Sauna (P.W. Elverum & Sun, 2015)
ACrow Looked At Me(P.W. Elverum & Sun, 2017)
Now Only (P.W. Elverum & Sun, 2018)
(after) (live,P.W. Elverum & Sun, 2018)
Lost Wisdom pt. 2 (w/ Julie Doiron, P.W. Elverum & Sun, 2019)
Pietra miliare
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