La stella segreta
La storia che ci interessa comincia a Boston, nel 1988, dove Geoff studia songwritng al prestigioso Berklee College of Music e dove è fin troppo facile trovare gente che voglia suonare e metter su una band. Geoff è il classico ragazzo da jeans, maglietta e cameretta. Qui lui si rinchiude e studia, suona, crea, ripara amplificatori danneggiati, immerso nel suo mondo fantastico dove la musica è pressoché tutto, la linfa che alimenta morbosamente ogni aspetto della sua vita. Dopo aver completato gli studi al Berklee, Farina frequenterà un master all’Università del Massachusetts sulla tecnologia del suono, discutendo una tesi sulla storia della sintesi del suono analogico.
Geoff in quegli anni incontra la bellissima Jodi Buonanno, figura che sarà presente in gran parte dei suoi progetti musicali. Insieme mettono su un duo dal nome tra lo spocchioso e il profetico, Secret Stars. Ma Jodi non è certo l’unica persona che suona a Boston e Geoff ha gioco facile nell’intrattenere numerosi altri rapporti con giovani musicisti. Entra così in contatto con Gavin McCarthy, un bravo batterista di area jazz, e con Eamonn Vitt, bassista e suo compagno al college.
Con loro decide di mettere su un progetto un po’ diverso e decisamente più ambizioso rispetto ai Secret Stars, e il nome scelto è quello dell’arte marziale più famosa al mondo. Se con Jodi Bonanno le atmosfere sono decisamente minimal, drone e rilassate, con voci e chitarre dolci ed evanescenti, i Karate pescano tra quello che un po’ tutti i giovanissimi musicisti professionisti, amanti della musica a tutto tondo, almeno all’inizio fanno. Suonano rock, funky e jazz, come viene classicamente insegnato al college. Ma i confini della riproduzione fedele di questi generi stanno presto stretti ai tre quando fuori dalle aule. Decidono, in modo naturale, di sperimentare nuove frontiere suonando sempre musica rock, ma nella sua accezione più postuma (Codeine e Slint sono sicuramente nelle loro orecchie in quegli anni) fuso con semplici, classici ma più rudi inserti jazz e funky, il tutto magicamente ricondotto nell’universo hardcore.
La prima vera pubblicazione di un Lp arriva però solo nel 1995. Vede infatti la luce, per la Shrimper Records, l’omonimo Secret Stars, già anticipato nel 1993 e nel 1994 con due artigianali uscite in cassetta. Geoff e Jodi definiscono la musica dei Secret Stars come “drones and love songs for late nights”. Ben 20 tracce che sembrano scritte per gli anni 10 del Ventunesimo secolo. Il duo uomo-donna in odore di dream-pop da cameretta, stile Chairlift o Beach House, solamente slegato dai suoni sintetici e artefatti e quasi totalmente imperniato su voci armoniose, delicate e flebili su tappeti musicali di esclusiva chitarra elettrica arpeggiata. Brani perlopiù cantati da Farina e accompagnati esclusivamente dalle due chitarre elettriche, che si sovrappongono salvo sdoppiarsi per dar vita a semplici e delicati riff o assoli minimal e senza pretesa alcuna. Per quanto il livello dell’album non presenti mai picchi di particolare rilievo, si segnalano la godibilità, data dal rilassante ascolto, di brani come “Vague” e “Alienation #3”, sebbene di effetto siano pure i pezzi cantati dalla Bonanno (“Eyelashes”, “Hearts Don’t Break”), dove la voce di Jodi è pura melassa che si scioglie tra le note senza bisogno di agitar alcunché. Da non ascoltare in auto se si affrontano viaggi lunghi e impegnativi.
La prima cosa incisa con i Karate risale invece al 1994 ed è un singolo prodotto dalla Self Starter Foundation, ora cimelio per collezionisti, dal titolo “Death Kit/Nerve”. Due brani dove sono palesi i riferimenti allo slowcore degli Slint, con brevi accelerazioni funkeggianti solo nella seconda traccia. Atmosfere ancora più cupe e post-hardcore, ma maggiori digressioni in quei generi che presto saranno prerogativa del loro sound (funky e jazz) le si ritrovano nei due successivi singoli, “The Schwinn” (1995) e “Charry Coke” (1996), il primo uscito in split con “Visit From Mars” dei Crownhate Ruin, una fulminea meteora della scuderia Dischord, e il secondo uscito, sempre in split, con “On Let You Go” dei Lune (la band di Jeff Goddard, il bassista che a breve farà il suo ingresso ufficiale nei Karate).
Karate: la ricerca di un suono nuovo
Sempre nel 1996 i Karate riescono a ottenere un contratto discografico per la pubblicazione dell’omonimo Lp d’esordio. Karate è l’album che di fatto introduce solo timidamente il sound che caratterizzerà invece in modo peculiare la futura produzione della band. Il suono è infatti piuttosto duro e atono, con pezzi classicamente post-hardcore (“Trophy” “Bad Tattoo” e “Bodies”) che si alternano a momenti decisamente slowcore, ovvero i momenti più esaltanti dell’album (su tutti “Every Sister” e “Caffeine Or Me”, con note di merito pure per “If You Can Hold Your Breath” e “What Is Sleep”).
Karate esce per la Southern e vede la collaborazione tecnica di Wally Gagel (Folk Implosion, Eels, Vampire Weekend, Bon Iver) che li registra ai Fort Apache Studios di Boston, e di John Loder (Jesus and Mary Chain, Fugazi, Shellac) che masterizza l’album agli Abbey Road di Londra. Il suono è alternativamente lento e veloce, ma sempre rude e malinconico, e quell’“hey, sugar” gridato all’inizio di “Gasoline” diventerà presto l’urlo liberatorio dei primissimi fan della band nei piccoli, ma sentiti e partecipati live. Inizia infatti a formarsi uno zoccolo duro di fan che, come lo stesso Farina dichiarerà in futuro, non varierà molto nel tempo, dando la sensazione alla band di suonare sempre per le stesse persone, che non mancano un live negli Stati Uniti, ma soprattutto in Europa, dove i Karate hanno, se vogliamo, il loro vero successo.
I Karate, che nello stesso anno vedono l’ingresso ufficiale in formazione di Jeff Goddard al basso, e il conseguente spostamento di Eamonn Vitt alla seconda chitarra, sono una band di musicisti professionisti che, contrariamente alla stragrande maggioranza delle formazioni della scena underground e alternative planetaria, hanno studiato musica nei luoghi classicamente deputati a ciò. Il fatto che si mettano a comporre e suonare musica che è a metà strada tra il dilettantismo viscerale post-core e il tecnicismo jazz o funky è frutto della loro formazione e della loro geniale voglia di sperimentare fuori dagli schemi classici, o meglio rompendo gli stessi, comunicando il classico disagio giovanile con il mezzo che risulta essere maggiormente nelle loro corde, l’hardcore.
Farina, tre album in tre mondi diversi
Il 1997 è probabilmente l’anno più prolifico nella carriera musicale di Farina. Vengono infatti pubblicati ben tre album: Genealogies con i Secret Stars, Usonian Dream Sequence come lavoro solista a suo nome e In Place Of Real Insight con i Karate. Viene dato alle stampe anche un singolo, “Sanity Assansins”, ancora con i Secret Stars.
Genealogies prosegue, senza grosse sorprese, il discorso intrapreso da Geoff con Jodi Bonanno nell’omonimo esordio del 1995. Chitarra elettrica amplificata con forti riverberi, spesso una chitarra acustica d’accompagnamento per melodie semplici e perlopiù malinconiche, con gli assoli di Geoff che orbitano da qualche parte nella galassia blues. In quest’album, però, a differenza del precedente, si trovano pezzi che riescono a emergere dalla massa fumosa e un tantino impalpabile della media, regalando al duo passaggi nelle radio e delle vendite, comunque modeste, dell’album. I brani in questione sono “Some Sinatra”, “Serc”, “Back In The Car” e soprattutto “Shoe In”, un pezzo che spesso Farina riproporrà dal vivo e che inserirà poi nell’EP 5 Songs, uscito a suo nome nel 2006.
Discorso leggermente diverso va fatto per il primo album solista di Geoff Farina, Usonian Dream Sequence. Siamo nel country folk americano,alla presenza, quasi esclusiva, di una chitarra acustica e della sua voce sussurrata, il tutto in modo molto semplice e discreto, conbrevi inserti di chitarra elettrica slide,comela regola effettivamente richiede in questi casi.Geoff coltiva da sempre una viscerale passione per il folk, quello americano in primo luogo, ma con orecchie sempre tese a ogni tipo di esperienza in ogni parte del globo. Non è un caso se in futuro inciderà ben tre album con i nostri Ardecore: se di folk si tratterà, non sarà certo quello a stelle e strisce.
È innegabile che quest’album contenga dei brani di assoluta bellezza e di agile fruibilità da parte di un pubblico vasto e non esperto (“The United States” e soprattutto la title track). “Usonian Dream Sequence” sembra una versione acustica di un ipotetico, splendido, brano dei Karate. La melodia è accattivante e gli arrangiamenti sono finalmente ricchi e curati. Il ritmo è molto lento, e a un profano della musica di Farina potrà forse sembrare come un’anonima litania. Preferibile quindi, in caso di scarsa esperienza al riguardo, di ripassare da queste parti solo dopo aver sufficientemente familiarizzato con i suoni e con la voce dei Karate. Sarà amore, anche se forse non fulmineo. Da segnalare ancora il trasporto emotivo di Geoff nella struggente “The Same Way”, gli arrangiamenti, a tratti persino fusion, di “Midlantic Schemes” e le atmosfere western di “Window Seats” che tristemente chiudono il sipario.
In Place Of Real Insight è quello che storicamente i fan dei Karate considerano il capolavoro della band di Boston. È il secondo Lp, a solo un anno di distanza dall’esordio, ma è decisamente un'altra musica. La ricerca di un suono nuovo, caratterizzante, esclusivo, sembra abbia finalmente dato i suoi primi frutti. Diceva Farina in un’intervista del 2002 a Metrotimes “We want to use the language available to formally address the music to each other. But, on the other hand, we don’t just want to work within those stringent boundaries. We don’t want to be a rock or fusion group that pushes clichés. I discover elements that I want, and add them to my acumen, then disregard the rest”. Questo è, in estrema sintesi, l’approccio dei Karate alla loro proposta musicale.
Con In Place Of Real Insight si inizia a parlare della musica dei Karate in termini di rock alternativo influenzato dal jazz, di post-rock con venature funky, di uno slowcore ispirato e raffinato, tutti accostamenti apparentemente discordanti e antitetici, ma che riescono in parte a definire la particolarità della loro musica e a far ottenere alla band quello che deliberatamente cercava, un proprio singolare, ben definito e riconoscibile sound.
Basta ascoltare la prima traccia, l’incantevole “This, Plus Slow Song” per capire di cosa si parla. Ritmo lento, con sezione ritmica ridotta ai minimi termini e raffinati ricami di chitarre elettriche in settima, stoppati da brevi momenti più energici. Il cantato di Farina, pur nei limiti delle riconosciute non eccelse doti melodiche, risulta essere gradevole, inclusi i perigliosi acuti al limite delle sue possibilità. Non è però sempre così nel corso dell’album, essendo piuttosto la regola che a un pezzo slow ne segua uno fast. Quando aumenta la velocità, raddoppia pure l’intensità delle urla di Farina, che si fanno più cattive e sguaiate rendendo in generale l’atmosfera più punk. (“New Martini”, “It’s 98 Stop”, “Die, Die”). La fonte d’ispirazione maggiore è comunque il post-hardcore di band come Fugazi e soprattutto Shellac. Eppure il sound dei Karate riesce a distinguersi, grazie soprattutto a vorticosi giri di basso stile fusion, a chitarre che continuamente ammiccano al funky e alla particolare voce di Farina, che sa alternare momenti urlati in modo quasi disperato a vellutate performance melodiche stile lullaby.
Il pezzo che forse più di tutti incarna lo stile jazzcore per come gli stessi, si può dire, l’hanno codificato è però “New New”. Intro di chitarra con accordi jazz, vorticoso giro di basso fusion, cantato in stile punk/hardcore/oi! che conducono a veloci e taglienti “schitarrate” stile post-hardcore. Insomma, un’enciclopedia della musica racchiusa in 2:47 m.
Sarebbe comunque inutile una disamina di questo album se non si spendessero due parole per “Wake Up, Decide”. Dovendola inquadrare da un punto di vista strettamente musicale sarebbe un pezzo classicamente post-rock, perché ne incarna tutti i crismi, compresa l’assenza del cantato. Dovendole riconoscere un difetto, sarebbe la breve durata, perché un pezzo del genere non può suonare meno di sei minuti. Dovendole trovare un momento della giornata per ascoltarla sarebbe a notte fonda, possibilmente in auto, preferibilmente da soli.
Sempre nel 1997 esce il singolo dei Secret Stars “Sanity Assassins”, in felice coabitazione con “Truxton Park” degli Ida, il duo newyorkese dalla medesima vena minimal and dreamy. Il singolo uscì in edizione limitatissima, con copertine fatte a mano con pezzi di tessuto ritagliati da un vecchio vestito e cuciti sulle stesse. “Sanity Assassins” è una ballad lenta tra lo shoegaze e l’old blues, in atmosfere classicamente soffuse e rilassanti.
All'apice con i Karate
Arriviamo così al 1998, anno in cui i Karate sono nuovamente un trio per l’abbandono di Eamonn Vitt, che preferisce dedicarsi appieno ai suoi studi di medicina piuttosto che proseguire la carriera nel mondo della musica. Ma questa novità non scalfisce affatto la vena artistica della band. Lo conferma The Bed Is In The Ocean, forse il capolavoro dell’intera produzione targata Karate e Geoff Farina. L’apice tecnico ed emotivo, la sintesi perfetta e l’equilibrio funambolico tra lo spirito hardcore e la mente fusion. “There Are Ghost” con quel incipit, “so quiet”, che mette i brividi ad ogni ascolto, i virtuosismi stilistici di “The Same Stars”, il lunghissimo finale strumentale, da standing ovation e lacrimoni, di “Outside In The Drama”, la dilaniante e disperata vena malinconica dell’ultima, immensa, “Not To Call The Police”. Non mancano momenti più decisi ed energici che mediamente si concentrano nelle parti centrali e finali di alcuni brani (“Diapazam”, “Up Nights”), ma l’atmosfera è decisamente più serena e rilassata: si ha la sensazione di trovarsi di fronte all’opera di una band matura, che non vuole stupire per il rumore o per l’angosciante lentezza, ma che punta dritto al cuore (i testi sono i più curati e ricercati di sempre) e alle orecchie di un pubblico più esigente.
Il momento più intenso dell’album è a metà strada, con “Last Wars”. Una ballad, lenta, jazzata, che parla velatamente di guerre e genocidi. Quella frase poi, “the bed is in the ocean while guns are on the trains”, diventerà presto una parola d’ordine di riconoscimento per i fan della band.
La passione per l’Italia, la terra dei suoi avi, della moglie, oltre che degli innumerevoli artisti con i quali Geoff porterà avanti progetti paralleli nel corso della sua carriera, lo porterà spesso a esibirsi, in contesti raccolti e selezionati, nel Belpaese. Il mini-tour dell’inverno del 1998 con Jodi Bonanno consente ai due di incidere qui, grazie ai loro numerosi contatti, un singolo con due tracce, dal titolo “Fourteen Days In Belpaese – November 1998”.Nella copertina è raffigurata la scheda tecnica di una Vespa 50 Special d’epoca, tutto rigorosamente in italiano. Le tracce sono “RPMs”, cantata da Farina, e “Congress”, cantata dalla Bonanno. Due tracce che mostrano una certa evoluzione del sound Secret Stars verso strutture più complesse e una musicalità più ricercata.
Il 1998 era stato in realtà inaugurato dalla pubblicazione di un singolo, sempre con i Karate, contenente due brani, “Operation: Sand” E “Empty There”, un lavoro che di fatto segna l’inizio del sodalizio con l’ingegnere del suono e produttore Andy Hong, l’uomo dietro le quinte anche in The Bed Is In The Ocean. Non so quanto la cosa sia voluta, ma questi due brani, “Empty There” in particolare, sembrano essere il perfetto anello di congiunzione tra la decisa ed energica produzione passata e la svolta lenta e contemplativa dell’album che stava per nascere.
Il nuovo Farina del Duemila
La fine del millennio si trascina senza grosse produzioni per Farina, almeno per i ritmi ai quali ci aveva abituati. C’è tempo solo per una compilation di brani già editi e re-interpretati nel soggiorno di Andy Hong (In My Living Room, 1999) nella quale sono presenti molti suoi compagni di viaggio di questi anni (oltre ai Karate, anche Jodi Bonanno e gli Ida) e per la pubblicazione di un singolo come solista (“Steely Dan”). Evidentemente in pentola bolle qualcosa di grosso, qualcosa che richiede una cottura più lunga.
Nel 2000 viene pubblicato Unsolved, l’album più tecnico, più accademico, della carriera dei Karate. I virtuosismi e le citazioni si sprecano, e per quanto si rimanga pressoché sempre nell’orbita fusion, con digressioni nel funky (“The Roots And The Ruins”, “The Halo Of The Strange”) nel jazz puro (“Number Six”), nel blues “al ritmo di” post-rock (“One Less Blues”), si ha più volte l’impressione di avere a che fare con la registrazione in presa diretta di una band che, in sala prove, gioca a fare mostra delle proprie doti da prima della classe. Un album che arriva alla testa prima che al cuore. Un album perfetto, ma glaciale nella sua cura maniacale del particolare sonoro, rivolto più al tecnicismo e alla riproduzione degli schemi predefiniti che alla più romantica sperimentazione. Un album che comunque impressiona positivamente e che si potrebbe ascoltare per giorni ininterrottamente, specie in sottofondo, correndo però il rischio di confonderlo con l’album di una qualunque altra band che fa dell’ottima musica convenzionale.
Menzione a parte, menzione d’onore, meritano “Sever”, l’unico brano che sei sicuro di non aver mai realmente ascoltato prima e che riprende in parte lo stile più deciso delle prime produzioni della band, e “Small Fires”, introdotta da un minuto di assolo di chitarra semplicemente da pelle d’oca.
In definitiva, Unsolved è l’album dove l’energia e la personalità della band cedono il posto alla forte passione per la musica con la “m” maiuscola.
A seguito della pubblicazione di questo Lp si scatenò una vera e propria rivolta dei fan della band, che lamentavano la scarsa qualità audio del vinile. Il gruppo e la casa discografica riconobbero la magagna e l’anno successivo ripubblicarono un doppio Lp, con le tracce di Unsolved spalmate su tre lati, e il quarto lato dedicato ai singoli della band ormai fuori stampa. Tutti felici e contenti.
Sempre nel 2001 Geoff pubblica l’album da solista Reverse Eclipse. Se Usonian Dream Sequence era stato un album di sola voce e chitarra acustica perlopiù country-folk, questa seconda esperienza solista mantiene il connubio esclusivo voce/chitarra (sebbene ora elettrica), rivolgendosi però questa volta maggiormente all’universo jazz e bossa-nova. Sembra quindi di ascoltare una trasposizione in solitaria della medesima vena artistica di Unsolved. Tanta tecnica, virtuosismi e citazioni (Pat Metheny su tutti) per un piacevolissimo viaggio accarezzati dalle note delicate e calde delle sue chitarre e dalla sua voce che, per quanto sensibilmente migliorata nel corso degli anni, è sempre piuttosto amatoriale e per questo molto particolare. Unico ospite dell’album è Josh Larue, altro brillante chitarrista, che duetta musicalmente con Geoff in brani di eccellente fattura come “The Left-Handed Way”, “Pordenone Plaster” (molto bossa-nova, e probabile omaggio alla città di sua moglie), “Soon In Tents” e “One Percent”. Josh Larue sarà poi compagno di viaggio di Farina, assieme ad altri musicisti, in un altro progetto a venire, i Glorytellers.
Difficile poter parlare delle singole tracce di quest’album in termini di risultati peggiori o migliori. Tutto tecnicamente perfetto, ma niente che possa far intravedere una vena artistica peculiare e perciò entusiasmante. “Fixable”, l’ultima traccia, è il brano che spicca sugli altri, per la sua vena cupa e malinconica e il suo essere finalmente fuori dai rigidi schemi e stereotipi altrimenti onnipresenti nell’album. Per il resto, un disco per veri cultori.
Geoff è quindi sempre più concentrato sul perfezionamento della sua tecnica come chitarrista. Lo ribadisce, nel 2002, un nuovo album a suo nome, Blobscape (2002, Kimchee Records), contenente 16 improvvisazioni alla chitarra selezionate tra le 100 registrate al suo Narragansett Grange Hall (un’area dismessa da lui riportata in vita per ospitare eventi artistici e culturali). Pitchfork bollò con un sonoro “1.0” per via di una asfittica aridità artistica contrapposta alla neanche troppo “incredibile” tecnica nei virtuosismi con i quali Geoff si pavoneggia. Difficile, in ogni caso, comprendere la necessità di un album del genere: un oggetto per collezionisti, per fan accecati o studenti di chitarra che si preparano a fare dello strumento una morbosa ragione di vita, non per tutti gli altri.
Sempre nel 2002 esce per la Southern un nuovo singolo dei Karate, “Cancel/Sing”. Due brani per più di mezz’ora di musica. “Cancel” riporta il jazz nel ritmo slow che si era in parte perso nell’ultimo Unsolved. Si risentono assoli di chitarra più sporchi e distorti e il basso è per quasi tutti gli undici minuti un unico e semplice giro cadenzante. La batteria sale in cattedra attorno a metà traccia e si esibisce in un’appassionata digressione solista. Il finale è dedicato ad atmosfere psichedeliche e strutture d’avanguardia, come non si erano mai ascoltate nella loro carriera. “Sing” parte invece dal jazz, quello improvvisato e in gran parte schizofrenico e destrutturato, per passare a lunghi momenti di rock quasi progressivo. 15 minuti che rappresentano il momento più complicato e meno immediato della creatività del terzetto di Boston, ma che da un punto di vista artistico ed emotivo suggellano uno dei vertici della loro carriera. “Sing” è il capolavoro definitivo dei Karate, nonché uno degli episodi più belli e intensi degli ultimi 20 anni di musica rock.
È l’ultimo picco prima della lenta discesa verso la fine dell’avventura.
I Karate hanno anche un nuovo album in cantiere e pochi mesi dopo, sempre nel 2002, viene rilasciato Some Boots, il quinto Lp. È un album decisamente diverso da Unsolved, fondato sull’idea di sperimentare a 360 gradi, prendendo spunti dai generi più disparati per riprodurli poi a modo loro. Si va dai profumi reggae di “First Release” al funky rallentato di “Original Spies” e “Airport”, dal blues-rock di “Ice Or Ground” al meraviglioso ed emozionante slow-fusion di “South” e “Corduroy”, i migliori brani dell’album. Non mancano, poi, momenti più duri e schizofrenici, come dire... jazzcore (“In Hundreds”, “Baby Teeth”), ma l’irrequietezza dei primi anni è comunque un lontanissimo ricordo.
Un buon album, che considerato assieme al singolo “Cancel/Sing” uscito poco prima, fa vivere alla band un altro momento esaltante, l’ultimo prima della conclusione, tragica, della sua carriera.
Nel 2002 il trio si esibisce ancora in diverse date nell’amata Italia. Da un concerto in particolare, quello al Barchessone Vecchio di Mirandola, in provincia di Modena, viene tratto un Ep (Concerto al Barchessone Vecchio) che uscirà, sempre per la Southern, l’anno successivo. La maggior parte dei brani provengono da Unsolved, eccezion fatta per “There Are Ghosts” (The Bed Is On The Ocean) e “If You Can Hold Your Breath” (Karate). La particolare acustica di questo vecchio ex-rifugio per cavalli, ora semidistrutto dal terremoto che ha fortemente colpito la zona, conferisce ai brani un particolare sound rotondo e pulito, alimentato dal calore e dalla partecipazione del pubblico. Da segnalare la straordinaria versione di “Number Six”, che ospita una magistrale performance al sassofono baritono del talentuoso Luca Mai, il fiato impazzito degli Zu.
Gli ultimi lavori con i Karate e la malattia improvvisa
Dopo l’uscita dell’Ep Concerto al Barchessone Vecchio (2003) i tre realizzano e rilasciano, l’anno successivo, Pockets, l’ultimo album in studio dei Karate. Registrato da Andy Hong a Cambridge vede la partecipazione in due brani (“Cacophony” e “Concrete”) della chitarra di Chris Brokaw, già batterista di Codeine e Come e grande amico di Geoff dai tempi del college.
Pockets è un album dalla vena triste e malinconica. Le melodie sono tra le più semplici e immediate della carriera e portano con loro un carico di emotività/negatività che sembra voler quasi comunicare il presentimento di Farina e soci per la fine della gloriosa avventura insieme. Le influenze jazz sono molto meno presenti rispetto al recente passato e lasciano spazio a discutibili momenti funky stile-Red Hot Chili Peppers (“The State I’m In” ), a episodi di puro pop-rock alla Cranberries (“Cacophony”) e in generale a una sensibile mancanza di idee interessanti. Le uniche tracce che riescono a stare per un po’ nelle orecchie sono “With Age” e “Water” (quest’ultima molto dalle parti dei Low).
Pockets è sicuramente il momento meno esaltante della carriera dei Karate.
In quegli anni, però, i problemi sono decisamente altri. Qualcosa in Geoff non funziona più come una volta e presto diviene chiaro a tutti. Spesso le registrazioni e i live si interrompono ed è tutto dovuto a dei terribili fischi e ronzii che Farina avverte nelle sue orecchie. Sono momenti difficili, drammatici, che culminano con la diagnosi di una disturbo all’apparato uditivo (l’acufene) che costringe Geoff ad abbassare definitivamente il volume degli amplificatori e ad abbandonare un genere di musica che non può prescindere dalle distorsioni e dalle forti pulsazioni di basso e batteria. In una parola, lo costringono a sciogliere, in modo definitivo e inappellabile, i Karate.
L’anno successivo (2005) ci sarà tempo solo per l’uscita di In The Fishtank 12 dodicesimo capitolo dell’ambizioso progetto sviluppato dalla label olandese Koncurrent, che offre la possibilità a band come NoMeansNo, Low, Tortoise, June of ‘44, Sonic Youth, Motorpsycho e altri ancora di fare ciò che vogliono in uno studio di registrazione messo a loro completa disposizione per due giorni. Alla fine, negli anni, si contano ben 15 fishtank. Nell’acquario dei Karate finirono cover di artisti che influenzarono negli anni la loro vita e la loro carriera. Il tutto riletto e rielaborato in un proprio riconoscibile sound, con ulteriori sperimentazioni fin ora mai esibite.
Ecco così che la “Strange Fruit” di Billie Holiday viene tirata fuori dal grammofono, diventando un potente swing, leggermente più veloce dell’originale, dove al pianoforte viene sostituita la chitarra elettrica di Geoff. “Bob Dylan Wrote Propaganda Songs” e “This Ain’t No Picnic” dei Minutemen vengono riproposte in versioni molto vicine all’originale, con una inusuale e veloce verve, come davvero pochissime altre volte è successo da queste parti. “Tears Of Rage” di Bob Dylan, l’esperimento meglio riuscito, diventa uno struggente e commovente inno alla musica che per il sottoscritto ha di fatto rappresentato una ipotetica degna sigla finale del meraviglioso e irripetibile film di 11 ininterrotti anni di Karate.
Solo la piacevolissima scoperta della registrazione, da parte di fedelissimi tecnici del suono, di un loro live del 2003, il 595° in carriera (al quale ne seguirono comunque numerosi altri), quello di Leuven in Belgio, darà la possibilità di pubblicare un nuovo album nel 2008, il primo dal vivo (a meno di non includere nel conto l’Ep al Barchessone Vecchio), l’ultimo a portare il nome Karate (595).
Fa un certo effetto ascoltare un album dei Karate dal vivo, specie se ciò avviene a distanza di tre anni dal loro scioglimento. Loro che dello studio di registrazione hanno fatto negli anni un luogo di live senza pubblico per raccogliere in modo fedele ogni sfumatura naturale del loro suono lento, potente, cadenzato e mai artefatto. Tolta la leggera eco data dall’effetto surround del locale, gli applausi del pubblico e i ringraziamenti di Geoff alla fine dei brani, potrebbe essere tranquillamente un loro album in studio, vista anche la maestria dei tre nel riprodurre scientificamente ogni passaggio delle versioni originali.
Come per il Concerto al Barchessone Vecchio, i brani sono presi perlopiù da Unsolved, l’album che portavano in tour quell’anno. Da The Bed Is On The Ocean ripropongono l’immensa “There Are Ghosts” cantata da Farina in modo più frenetico, quasi fosse una veloce rima hip-pop ed intervallata dai suoi superlativi assoli con relativi fischi da alta scuola, neanche fossimo a un G3 di Satriani. Da Karate è tratta una versione favolosa di “Caffeine Or Me”, lunga il doppio rispetto all’originale per da spazio a trastullamenti psichedelici di quelli già assaporati in Cancel/Sing.
Un album necessario, specie per chi ha avuto la sfortuna di non poter mai assistere a un loro live.
Il Farina post-Karate, tra collaborazioni e nuovi progetti
Geoff Farina non può certo definirsi uno che se ne sia stato con le mani in mano nel corso degli anni. Se il problema all’apparato uditivo gli ha imposto di chiudere con un certo tipo di musica, ciò non gli ha certo impedito di continuare a esprimersi attraverso nuovi registri stilistici e forme espressive. Geoff ha così scritto colonne sonore per film, collaborato a diversi progetti culturali e soprattutto ha instaurato una miriade di nuove collaborazioni con altri musicisti, che il più delle volte hanno portato all’uscita di album. Sarebbe impossibile ricostruire con un’approfondita disamina tutte le innumerevoli attività intraprese dall’ex-leader dei Karate dopo lo scioglimento della band. Ci limitiamo a segnalare i lavori certamente più convincenti e/o originali.
Farina ha continuato a rilasciare lavori a suo nome, in particolare due Ep, 5 Songs e Already Told You, entrambi nel 2006 e un album, uscito nel 2012, The Wishes Of The Dead. Discorsi molto basilari, imperniati sulla sempre più curata melodia della voce e sugli (apparentemente) semplici accompagnamenti con la sola chitarra, perlopiù arpeggiata. Per aspettarsi discorsi più complessi bisogna che il suo nome non compaia in copertina o figuri assieme a quello dei sui compagni di viaggio, come accade nei momenti puramente (free) jazz di New Salt (2005) dove è accompagnato dalla batteria di Luther Gray III e dalla seconda chitarra di Dan Littleton o in Almanac (2006), assecondato sempre da Luther Gray III e da Nate McBride al contrabbasso. Quest’ultimo in particolare, quarto volume degli “Out Trios” della Atavistic, la label che diede la possibilità a diversi artisti di area jazz di esprimersi in maniera libera e sperimentale, è un lavoro di indiscutibile valore, con brani come “Breccia”, “Hello Tamarat, Goodbye” (dove si ritrova pure un accenno di distorsione nella chitarra di Farina) e “Leone”, che appassionati del genere sapranno sicuramente apprezzare.
Ma in questi anni Farina ha soprattutto intensificato i suoi contatti con l’Italia, la sua seconda terra (oltre alla italianissima moglie, i suoi bisnonni sono di Palermo e L’Aquila), in termini tanto di collaborazioni artistiche che di puri momenti ricreativi.
Farina stima di essersi esibito più di mille volte in carriera su vari palcoscenici in ogni parte del globo. Il magico tour del 2002, come detto racchiuso in due gioielli (Concerto al Barchessone Vecchio e 595) vide i Karate suonare in molte occasioni insieme agli Zu, il funambolico trio di punk/noise jazz capitolino, con i relativi live introdotti e chiusi da canti della tradizione romanesca interpretati da Giampaolo Felici con i suoi Blind Loving Power. Farina e gli altri (in particolare Felici e Pupillo) apprezzarono decisamente i momenti goliardici che ne venivano fuori, tanto da accarezzare l’idea di fare qualcosa assieme in quella direzione. Qualcosa che riesumasse la tradizione popolare romana, relegata ormai alle nuove e vecchie borgate e ai ricordi dei vecchi abitanti trasteverini, riportandola in auge con una veste nuova, più hard, ma pure sempre de core.
Gli Ardecore - di cui ci occupiamo in una scheda a parte - pubblicheranno negli anni tre album (l’omonimo esordio del 2005, "Chimera" nel 2007 e "San Cadoco" nel 2009) con la partecipazione di Farina alla chitarra, tra brani originali e re-interpretazioni di classici della tradizione romana, divenendo una band di culto e un punto di riferimento, anche fuori il raccordo anulare, nel filone della re-interpretazione in chiave moderna di prodotti della tradizione popolare italiana.
In uno dei suoi lunghi soggiorni nelle Dolomiti, invece, si narra che Farina abbia concepito, assieme all’amico batterista Luther Gray III, un progetto più orientato al folk-blues e alla melodia di certe ballate del cantautorato americano, come in verità lo stesso aveva già sperimentato, da solo, in Usonian Dream Sequence.
Per soddisfare tale ulteriore esigenza nasce il progetto Glorytellers. Il primo lavoro (l’omonimo Glorytellers) uscito nel 2008 vede la collaborazione, oltre che di Luther Gray III alla batteria, anche di Josh Larue (chitarra) e Jeffrey Charland (basso). Il secondo tentativo (Atone) esce nel 2009 e presenta una nuova squadra di collaboratori: Mike Castellana (chitarra), Gavin McCarthy (batterista dei Karate) e il nostro Marco Buccelli (che sostituì alla batteria i colleghi d’oltreoceano nel successivo tour americano ed europeo).
In generale quello con i Glorytellers è un proseguimento del discorso, molto semplice ma particolarmente sentito, iniziato con le prime produzioni soliste di Farina. Brani nuovi dal sapore antico, classiche ballad della migliore tradizione folk-country americana, dove solo in rari momenti ci si esibisce in qualcosa di meno prevedibile (ad esempio, le capriole sonore di “Awake At The Wheel” da Glorytellers o la spumeggiante e inattesa vena godereccia di “The Lost Half Mile” e di “Blue Bag” da Atone).
Sempre con Massimo Pupillo, il bassista degli Zu (e di una galassia di altri progetti) Farina realizza un nuovo album, a metà strada tra il free jazz e l’avanguardia noise, dal titolo Still Life With Commercials (2008). Al progetto partecipa anche Michael Zerang (Brotzman Tentet), batterista di lungo corso della scena avant nordamericana. Un lavoro per menti schizofreniche e amanti dell’improvvisazione destrutturata, martellante ma tecnicamente ineccepibile. Un piccolo gioiello, uscito solo in edizione limitata in cd, ma che ogni amante del genere dovrebbe procurarsi. Tre fuoriclasse che insieme fanno scoccare scintille di puro godimento per le orecchie pronte a riceverlo.
Con Chris Brokaw (l’ex-batterista dei Codeine, già presente nell’album Pockets dei Karate) Farina rilascerà due album, The Boarder's Door (2010) e The Angel's Message To Me (2011) dove i due, entrambi alla chitarra, suonano quello che gli stessi definiscono “a collection of pre-WWII blues, rags, and spirituals”. Una rilettura di classici della tradizione blues, folk e gospel americana, da Fred Cockerham a Elizabeth Cotten, seppur con una velocità e un piglio che delle vecchie versioni originali conservano giusto il ricordo dell’antica melodia. Sono presenti anche brani originali, interpretati in solitaria, in modo alternato, dai due, tra i quali spicca la superlativa “Criminals”, affidata a Brokaw.
Il chitarrista di Chicago però è uno che non si ferma, così all’inizio del 2013 si incontra col batterista John Dugan (Chisel, Edsel) e col bassista Pete Croke (Brokeback, Tight Phantoms) dando vita agli Exit Verse, che con questa pubblicazione trovano il loro debutto.
Nel percorso discografico intrapreso da Farina, quest’ultima fatica si posiziona più sul filone tradizionale tipico dei Glorytellers che su quello sperimentale dei Karate. Infatti, le 9 canzoni traggono la loro essenza principalmente dal rock and roll (il quale trova la sua massima espressione in “Perfect Hair”, un brano che ricorda i primi Who), suonato in una visione trasversale che attraversa spazi appartenenti ora all’hard rock, come in “Silver Stars” e “Sparrows”, ora alle influenze blues di “Seeds”. Le contaminazioni però sono marginali, relegate a brevi fughe che fungono più da contorno che da pilastro portante. Il suono è molto diretto, si percepisce quasi un’attitudine power-pop, per esempio in “Fiddle & Flame”, il cui intro di batteria è molto simile a quello di “My Sharona” dei Knack.
L’intero disco si regge principalmente sulla forte linea di basso di Croke, che svolge il suo compito in maniera eccelsa, creando un sostegno pulito su cui costruire l’intera armonia. Al contrario la chitarra di Farina si limita perlopiù all’esecuzione di riff ritmici, sfuggendo di tanto in tanto alla forma canzone con degli eleganti assoli posizionati sopra una ritmica statica, come nel finale di “Chrome”, il quale probabilmente è il pezzo più riuscito. I suddetti riff però sono bene o male tutti simili, così come lo è anche la parte di batteria che lungo l’album non brilla di fantasia.
Sicuramente “Exit Verse” fa della classicità la sua forza e cerca di rimanere legato a quei canoni il più possibile, sfuggendo solo raramente da tale forma. È un disco divertente ma allo stesso tempo monotono, che potrebbe stancare presto l’ascoltatore. Magari risulta più adatto ad un viaggio in auto, o in sottofondo mentre si fa qualcos’altro, piuttosto che ad un ascolto attento e concentrato. Rimane un gruppo creato da musicisti straordinari, ma da cui, anche e soprattutto per questo, ci si poteva aspettare qualcosina in più.
Geoff Farina oggi continua a suonare e a girare il mondo con i suoi progetti musicali. È anche docente universitario e insegna storia della musica alla DePaul University di Chicago, la città dove vive stabilmente da anni. Ha scritto di musica per varie riviste del settore e possiede una notevole collezione di chitarre, esposta in parte anche sul suo sito internet. Geoff Farina ama la musica come pochi, e pochi lo amano quanto meriterebbe. Quei pochi, in compenso, sono persone molto fortunate.
Il ritorno dei Karate
Nel luglio 2022 in modo inatteso riecco tornare i Karate dopo 17 anni con un tour che dopo due date americane sbarca in Europa partendo da Bologna. A ulteriori due anni di distanza, a completare la reunion, arriva Make It Fit un nuovo disco di inediti che riprende le fila di un discorso interrotto - anche a causa dei problemi di udito di Geoff Farina - con la pubblicazione di Pockets. Ed è proprio dal sound maggiormente melodico e parzialmente normalizzato di questo ultimo album che i tre ripartono, memori di tutto ciò che li ha resi unici.
Bastano pochi riff e l'attacco del cantato per ritrovarsi in un territorio più che noto, declinato all'insegna di una immediatezza mai così marcata. "Defendants"-"Bleach The Scene"-"Cannibals" è una tripletta pop-rock accattivante che si appiccica alle orecchie senza lasciare scampo, ma è solo quando tornano certe declinazioni in bilico tra math ed emo che il suono torna a brillare prepotente. I bassi profondi e la chitarra jazzy di "Around The Dial", l'incrocio Clash/Fugazi di "Rattle The Pipes" non a caso sono i momenti migliori del disco, quelli in cui il marchio di fabbrica ritorna per un attimo ai fasti di capolavori quali The Bed Is In The Ocean e lo splendido Unsolved. Identico discorso vale quando il ritmo rallenta, la qualità c'è sempre ma certi apici vengono raggiunti soltanto nell'andamento slowcore di "Fall To Grace" e nella conclusiva intimità di "Silence, Sound".
Anche se parzialmente depotenziati dall'approccio meno spigoloso e da una scrittura particolarmente lineare Farina e soci si dimostrano pienamente fedeli a se stessi - anche e soprattutto nelle liriche incentrate sullo spettro sociale contemporaneo - giustificando un ritorno comunque ispirato, che val la pena augurarsi quale punto di ripartenza da cui ripartire per ritrovare slancio e la pienezza dei tempi migliori.
Contributi: Alessandro Fiorito ("Exit Verse"), Peppe Trotta ("Make It Fit")
KARATE | |
Karate (1996) | |
In Place Of Real Insight (1997) | |
The Bed Is In the Ocean (1998) | |
Unsolved (2000) | |
Some Boots (2002) | |
Concerto al Barchessone Vecchio (Ep, 2003) | |
Pockets (2004) | |
In the Fishtank 12 (Ep, 2005) | |
595 (live) (2007) | |
Make It Fit (2024) | |
SECRET STARS | |
Secret Stars (1995) | |
Genealogies (1997) | |
Fourteen Days In Belpaese – November 1998 (live, 1998) | |
GEOFF FARINA | |
Usonian Dream Sequence (1997) | |
Reverse Eclipse (2001) | |
Blobscape (2002) | |
5 Songs (Ep, 2006) 6,5 | |
Already Told You (Ep, 2006) | |
The Wishes Of The Dead (2012) | |
GEOFF FARINA & CHRIS BROKAW | |
The Boarder's Door (2010) | |
The Angel's Message To Me (2011) | |
GEOFF FARINA & OTHERS | |
Geoff Farina/Luther Gray III/Dan Littleton – New Salt (2005) | |
Geoff Farina/Luther Gray III/Nate McBride - Almanac (2006) | |
Geoff Farina/Pupillo/ Zerang - Still Life With Commercials (2009) | |
Lawnmower (Geoff Farina/Luther Gray III/Jim Hobbs/Dan Littleton) – West (2010) | |
GLORYTELLERS | |
Glorytellers (2008) | |
Atone (2009) | |
EXIT VERSE | |
Exit Verse (2014) |
Sito ufficiale | |
Testi dei Karate |