Vampire Weekend

Vampire Weekend

I moderni vampiri dell'indie-pop

La band capitanata da Ezra Koenig ha saputo rinnovare l'indie-pop statunitense grazie all'innesto di elementi etnici e a una fantasia senza limiti, imbastendo una ricetta coloratissima e che non teme paragoni

di Fabio Guastalla

Figli prediletti della New York degli anni Zero, cresciuti a contatto e in un rapporto di reciproco scambio con i Dirty Projectors di cui il frontman Ezra Koenig e il multistrumentista Rostam Batmanglij sono anche diventati per un breve lasso di tempo turnisti, i Vampire Weekend sono stati oggetto di un culto cresciuto tramite il passaparola via Internet ben prima che l'album d'esordio vedesse la luce. Anche senza la spinta della Rete, in ogni caso, resta difficile immaginare una sorte differente per la band che è stata, ed è tuttora, la massima esponente della corrente indie-pop del terzo millennio. Merito di uno stile unico, in grado di contaminare l'indie-rock americano con sonorità world e velleità artsy, ma anche di quella freschezza di fondo che attraversa come una brezza leggera ogni brano dei newyorkesi.

Dal passaparola al contratto discografico

Non occorre riavvolgere il nastro di molti anni per ritornare alle origini dei Vampire Weekend. È la metà degli anni Zero quando due studenti universitari con il pallino per la musica si mettono in combutta per registrare un brano rap. Si chiamano Ezra Koenig e Chris Tomson, e come nome d'arte scelgono L'Homme Run in quello che sembra già un precoce tentativo di mescolare lingue e provenienze diverse. Loro stessi, infatti, vantano provenienze lontane: Koenig è nato in una famiglia ebrea di origini rumene e ungheresi, Thomson ha nel sangue in pratica mezza Europa, con ascendenze irlandesi, ucraine, inglesi e tedesche. Un melting pot destinato ad allargarsi con l'arrivo degli altri due membri della band, il multistrumentista Rostam Batmanglij di origini iraniane e il chitarrista Chris Baio di origini italiane (scoprirà poi una lontana parentela con Steve Buscemi). Assestata la formazione, non resta che trovare un nome definitivo: Vampire Weekend, come il titolo di un cortometraggio che Koenig progetta di girare, salvo poi rinunciare all'idea.

Anche perché, mentre Koenig e Batmanglij scambiano idee e visioni d'intenti con i Dirty Projectors, forse l'unico progetto con cui effettivamente sia plausibile un paragone, il gruppo sta iniziando a bruciare le prime ma significative tappe. Una battle of the band che si svolge a fine 2006 presso la Lerner Hall, nel cuore della Columbia University che i quattro stanno per terminare, è il banco di prova per testare qualche brano autografo. L'idea è di spendere i primi soldi guadagnati nel mondo del lavoro per autoprodurre un album completo l'anno successivo. Le cose però vanno diversamente. Basta una sola canzone lanciata in largo anticipo per testare il gradimento dei blogger e dunque del pubblico là fuori per far fare ai Vampire Weekend un salto ben più alto di quello che avevano preventivato.
Sospinto dal passaparola, “Cape Kod Kwassa Kwassa” giunge alle orecchie della redazione di Rolling Stone, che senza battere un ciglio la piazza al 67° posto della lista delle “100 migliori canzoni dell'anno”. Come inizio non c'è male, considerando che i vampiri newyorkesi non hanno ancora licenziato il loro album di debutto. “Cape Cod Kwassa Kwassa” è un'irriverente parodia del mondo universitario e di certa classe benestante che lo frequenta (“As a young girl/ Louis Vuitton/ with you mother on a sandy lawn/ as a sophomore with reggaeton/ and the linens you're sitting on” […] “is your bed made?/ is your sweater on?/ do you wanna fly?/ like you know I do, like you know I do”), e già contiene quelle radici world che il quartetto innesta con invidiabile coerenza sopra le sue morbide melodie. Tra riff di chitarre e colpi sui bonghi, sembra di partecipare a un falò sulle spiagge di Long Island.

Il tour nel Regno Unito di spalla a The Shins nell'autunno del 2007 è la conferma del grande interesse che sta crescendo attorno ai Vampire Weekend. Ormai tutti si sono accorti di Koenig e soci (la rivista Spin li vota “The year's best new band”), compresa XL Recordings che è la più lesta a sottoscrivere un contratto con la band. Nel frattempo, la definizione di uno stile del tutto unico è già a buon punto: il manifesto sottoscritto dai membri della band prevede l'esclusione di tutto ciò che è troppo “rock”, così come vengono messe al bando le distorsioni, le influenze trip-hop e quelle post-punk. La fonte di ispirazione primaria è invece il pop africano moderno, una terra di conquista tutta nuova per Koenig e Batmanglij: “Se guardi oltre l'indie-rock, ci sono sempre state persone occidentali interessate alla musica africana, ma in una sorta di ottica new age, come se conferisse una sorta di spiritualità superiore. A noi interessa la modernità della musica africana. Usano chitarre elettriche. Non è una specie di terra mitica prima del tempo”, dichiara Koenig a The Guardian. Basta aggiungere un po' di irrequietezza dei Feelies, di classe di David Byrne, di senso melodico di Paul Simon e il gioco è fatto.
Poi c'è il modo di porsi, e di vestirsi: il look. Quell'aria da bravi ragazzi, da studenti universitari della middle class giusto un tanto irrequieti, come tengono a far vedere nei videoclip, i capelli sempre in ordine, le polo Ralph Lauren e il perfetto Ivy League style non sono semplici pose per la stampa, ma un vero e proprio modo di essere. Avete presente i film di Wes Anderson? I Vampire Weekend sembrano incarnarne i protagonisti.

Da “Vampire Weekend” al successo planetario

Il 29 gennaio del 2008 esce l'esordio Vampire Weekend, un album che ha tutte le ragioni per poter essere definito come “atteso”. Un grande lampadario preso di sbieco, quasi inquietante nel suo incombere su una stanza affollata e virata in tono seppia. È qui la festa, è qui che la scena indie-pop americana si dota di quel tocco di esotismo che le manca per diventare definitivamente iconica. Come nota con la consueta arguzia Gabriele Benzing nella recensione scritta “in diretta” per Ondarock: “Il segreto sta nel fatto che il loro intruglio di sapori afrobeat, frenesie indie e melodie catchy non ha niente a che vedere con la classica cartolina terzomondista che ammicca alla world music: la loro non è un'Africa reale, è un'Africa sognata tra le pareti di una cameretta del college, ed è proprio questo a dare il brivido di essere i primi esploratori di un continente di fantasia. Le spezie esotiche dei Vampire Weekend vengono dall'angolo della strada: se pretendessero di spacciarsi per genuine non si distinguerebbero da un qualunque menu etnico alla moda; invece non fanno mistero del loro spregiudicato combinare mondi apparentemente inconciliabili. E così quell'incrocio meticcio inventato a tavolino in qualche dopo-lezione al campus diventa qualcosa di nuovo e inaspettato, in cui Louis Vuitton fa rima con reggaeton e il cielo ha i colori di Benetton”.
Quello dei Vampire Weekend è una sorta di baccanale gentile che resta indeciso tra l'assumere una compostezza British (altra influenza dichiarata) e l'irrefrenabile voglia di fare casino e basta. Molte canzoni sono un saliscendi di queste due anime, a cominciare dall'anima da big band tascabile di “Mansard Roof”, fino a confluire nel pop schizoide di “A-Punk”, che viene inglobato in un numero imprecisato di soundtrack di film e videogiochi e rappresenta tuttora la canzone più nota in assoluto dei vampiri newyorkesi. Il lato più intellettuale del progetto sgorga in pezzi come “Oxford Comma” o “I Stand Corrected”, ma sono comunque esercizi per post-universitari appena usciti dall'aula – Koenig in realtà c'è già rientrato, in veste di professore di lingua alle scuole medie. Un brano che si intitola “Campus”, del resto, cos'altro potrebbe rappresentare?
Una menzione la meritano anche “M79”, con il suo apparato barocco a sostenerla, e “Walcott”, se non altro perché fin dal titolo riprende il protagonista che Ezra Koenig aveva immaginato per il cortometraggio mai realizzato. Colonne sonore postume per film inesistenti.

Il successo arriva istantaneo, sia in America che nel Regno Unito, un Paese con il quale i Vampire Weekend dimostrano di avere molte affinità. Le apparizioni al The Late Show With David Letterman e al Saturday Night Live certificano la popolarità di una band che entra nella Top 20 su entrambe le sponde dell'Atlantico. Appena due anni dopo, sempre nel mese di gennaio (2010), arriva il secondo album intitolato Contra, accompagnato da un lungo tour mondiale che li vede suonare sui palchi più importanti del pianeta, compreso il festival di Glastonbury. Il disco è ascoltabile integralmente sul sito ufficiale dei Vampire Weekend, ma questo non gli impedisce di esordire al numero 1 della Billboard 200.
La materia sonora non si è spostata di una virgola e i quattro sanno ormai maneggiarla con una cura e una disinvoltura a dir poco invidiabili. Contra è dunque la piena affermazione di uno stile in qualche modo unico, quello di un indie-pop che si colora di inflessioni world, come in “Horchata”, che vola sulle ali di una spensieratezza smaccatamente vacanziera in “Holiday”, che ormai non teme nemmeno più di lanciarsi in territori a tutti gli effetti rock, partorendo anzi due discrete bombe come “Cousins” e “Giving Up The Gun”, entrambe lanciate come singoli.
Non mancano i pezzi in cui i Vampire Weekend si guardano allo specchio, compiacendosi di ciò che vedono. “White Sky” è un frivolo esercizio di stile e nulla più. “Run” un riuscito guazzabuglio di riff elettronici, aperture orchestrali, progressioni ritmiche che mutano forma in corso d'opera. “Diplomat's Son” immette in sei minuti di lunghezza timbri caraibici e andature reggae anestetizzate nel traffico metropolitano di New York. Le tiepide acque di “I Think Ur A Contra” chiudono il sipario in tono minore, come a ritrovare una dimensione intima e umana dopo una lunga festa.

Da "Modern Vampires Of The City" a "Father Of The Bride"

Con Contra, che viene nominato ai Grammy come “Best Alternative Music Album” e i tour che ne seguono, i Vampire Weekend sembrano voler cavalcare l'onda ma, nonostante si parli di un nuovo disco già negli ultimi mesi del 2011, soltanto a maggio del 2013 vede la luce il terzo capitolo del quartetto, registrato tra New York e Los Angeles: Modern Vampires of the City. Nel mezzo c'è pure l'endorsement di Barack Obama, che nel 2012, in campagna elettorale, cita i quattro tra le sue band del cuore.
Pur senza discostarsi dallo stile che contraddistingue la band, questo terzo capitolo presenta qualche motivo di novità. In primis nel mood, leggermente meno estroverso e a tratti più riflessivo, pur senza rinunciare alle esplosioni gioiose di sempre. Koenig lo presenta come un disco “più scuro e organico” e “l'ultimo di una trilogia” che in pratica è solo immaginaria. Di sicuro sarebbe difficile immaginare certi brani nella scaletta dei precedenti lavori: la malinconia agrodolce per clavicembalo di “Step” e quella sospinta dall'hammond di “Don't Lie” sembrano materializzarsi nella bruma metropolitana (nebbia o smog?) che riempie gli spazi tra i grattacieli in copertina. Un'altra novità consiste nella presenza di un produttore, nella fattispecie Ariel Rechtshaid, già al lavoro con molti big della scena rock e pop internazionale, al fianco di Batmanglij, fino a quel punto l'unico produttore della band di cui fa parte.
Che ci sia lo zampino di Rechtshaid in determinate scelte, è più di un sospetto. Sempre Koenig dichiara alla stampa di trovare piacere nell'esplorare istanze che in passato la band trovava noiose, con il piano, la chitarra acustica e l'hammond che trovano maggiore spazio. Ecco dunque che il lirismo tutto nuovo e aggraziato di “Hannah Hunt” si culla in un'intimità ovattata e crepuscolare, stagliandosi come uno dei brani più intensi mai usciti dalla fucina newyorkese (“Our days were long/ our nights no longer/ though we live on the Us dollar/ you and me, we got our own sense of time”).
È pur vero che non mancano i capitoli in cui i Vampire Weekend giocano a fare i Vampire Weekend. “Finger Back” e “Ya Hey” sono puri esercizi di stile, l'uno sonico e l'altro autodissacrante, mentre a “Obvious Bicycle” basta assumere un'espressione un poco più seriosa per aprire altri scenari, se non nuovi quantomeno laterali.
E poi c'è quel piccolo capolavoro di “Unbelievers”, con la grancassa che invita a battere i piedi a tempo e di nuovo l'hammond a colorare una sorta di marcetta intensa, un carosello ispiratissimo che fa il paio con l'ancor più estroversa “Diane Young”, uno di quei numeri esplosivi che i quattro riescono a piazzare a ogni album e in cui sembrano perdere per pochi minuti l'autocontrollo per invitare ad ascoltare il più travolgente dei baccanali. Due brani meravigliosi, due manifesti dell'arte musicale dei Vampire Weekend.
Di tutt'altro tenore è il binomio finale composto da “Hudson”, il fiume che attraversa New York ritratto in tinte grigie e quasi solenni, e “Young Lion”, il pianoforte che accenna arie classiche e le voci che insediano timbri da West Coast. Un presagio per il futuro?

In qualche modo sì, con il senno di poi. “Modern Vampires Of The City” si riposiziona al numero 1 della chart di Billboard e i “vampiri” si imbarcano in un altro lungo tour mondiale che li vede impegnati fino al settembre del 2014. Ezra Koenig frattanto si sposa con l'attrice Rashida Jones, con la quale è fidanzato da anni (nel 2018 nasce anche un figlio, Isaiah Jones Koenig), e va a vivere a Los Angeles dove, tra un progetto e l'altro (scrive e produce serie animate per Netflix), trova anche il tempo di produrre l'album “Lemonade” di Beyoncé. Di nuovi dischi per molto tempo non si trova traccia, anzi: il 26 gennaio del 2016 viene reso noto che Rostam Batmanglij non fa più parte dei Vampire Weekend, anche se continuerà a collaborare con loro. Soltanto a fine anno i fan vengono rassicurati a proposito del futuro del gruppo, che dopo la lunga militanza in XL passa a Columbia, etichetta dell'universo Sony. Con l'apparizione come headliner all'End of the Road Festival a Brighton nel settembre del 2018, i tempi per l'uscita del quarto album sono ormai maturi.

A inizio 2019 iniziano a essere pubblicati, a coppie, i primi singoli del nuovo album, con “Harmony Hall” e “2021” a fare da apripista. Father Of The Bride è la prima prova in studio dei Vampire Weekend dopo sei anni di silenzio discografico. Al trio si affiancano numerosi produttori e artisti impegnati in featuring di vario genere. In cabina di regia c'è di nuovo Ariel Rechtshaid, ma un ruolo importante lo gioca di nuovo il fuoriuscito Rostam Batmanglij, anche perché una parte del lungo repertorio (18 canzoni) viene recuperato da session piuttosto datate. Di certo Koenig si assume un ruolo ancora più importante nell'economia della band, anche a livello di songwriting, con vari brani che sembrano bozze mai terminate e arrangiamenti in genere più spogli (ma non per questo meno interessanti), per poi attorniarsi man mano di strumenti e compagni d'avventura, stabili od occasionali. Il che spiega anche la presenza di così tanti ospiti: Danielle Haim in tre brani, Steve Lacy dei The Internet in due, e poi il rapper iLoveMakonnen in uno dei singoli apripista, “This Life”, scritto insieme a Mark Ronson. In questo andirivieni di artisti, si nota come le voci siano lo strumento più “esplorato” e studiato dell'album, tra cori mutuati da colonne sonore cinematografiche (“Hold You Now”), vocalizzi audaci per esercizi di stile ancora più audaci (“Sunflower”), duetti affiatati (“Married In A Gold Rush”, “Stranger”) e vocoder estemporanei (“Flower Moon”).
Koenig sembra concedersi una libertà ancora più grande di quella finora provata nei tre precedenti lavori, che certo non peccavano di monotonia o men che meno potevano essere sospettati di originalità. “Hold You Now” e “Jerusalem, New York, Berlin”, i brani che aprono e chiudono l'opera, per quanto dotati di featuring, si tuffano in una dimensione cantautorale del tutto inedita per Koenig, ma che potrebbe aprire nuove finestre in un ipotetico futuro, anche con il solo accompagnamento di piano come in “My Mistake” o di suoni sintetici, nel caso di “2021”. Pure l'introspezione di una "Big Blue" o il gusto agrodolce di “How Long?” e “Unbearably White” non hanno moltissimi epigoni nei lavori precedenti, ma evidenziano il contrappunto riflessivo di un fare musica che non ha comunque mai partorito angoli bui.
Più confortevoli, per i fan di lunga data, sono i momenti più ludici dell'opera: la spensieratezza di “Harmony Hall” inaugura impensabili paragoni con i Primal Scream, mentre l'uptempo allegro “This Life” potrebbe essere un outtake dei primi lavori. Che la penna sia ancora più che mai affilata lo dimostra anche un pezzo come “Stranger”, una gemma tascabile di indie/chamber-pop che non ascoltavamo da troppo tempo. L'immancabile afflato esotico è garantito dalla travolgente samba di “Sympathy”, con tanto di handclapping a sottolineare la matrice latina, nonché dalle movenze esotiche della aggraziata “We Belong Together”.

Volutamente sconclusionato, imperfetto e talvolta fuori fuoco ma a tratti irresistibile, ricco di sostanza ma leggero nei toni, Father Of The Bride mostra il lato più spontaneo della band di Ezra Koenig, che alla sua maniera ci invita a recuperare la spensieratezza e l'innocenza che crediamo perdute.

Ricominciare da tre: "Only God Was Above Us"

A cinque anni di distanza, Only God Was About Us segna una nuova, significativa tappa nella storia dei Vampire Weekend. Che nel frattempo sono rimasti in tre, a causa dell'addio da parte di Rostam Batmanglij, e che nel corso degli ultimi anni si sono prodigati a limare e sistemare i suoni delle nuove canzoni.

Il 28 aprile del 1988, mentre effettuava un volo di routine tra le città hawaiane di Hilo e Honolulu, il velivolo Aloha Airlines 243 perdeva un pezzo di copertura della fusoliera all'altezza di tredicimila piedi, provocando uno squarcio all'interno dell'aeroplano. Tra i superstiti intervistati in seguito all'atterraggio di emergenza, uno commentò: "Only God was above us". La frase fu ripresa in prima pagina dal New York Daily nell'edizione del 1° maggio, così come appare nella copertina del quinto album dei Vampire Weekend, uno scatto del fotografo Steven Siegel (autore di tutte le immagini dell'artwork) ambientato all'interno di un vecchio vagone della metropolitana nel quale un'altra figura umana, sullo sfondo, si staglia in una posizione che nulla ha a che fare con la gravità.

Se l'incidente aereo è propedeutico a far tornare indietro di qualche decennio le lancette e dunque l'intera ambientazione dell'opera, è l'intimità di una scena quotidiana - la metropolitana, i suoi passeggeri - a immortalare l'immagine di una New York d'antan che, a dispetto delle svariate città in cui le canzoni sono state scritte, rifinite, cesellate per quasi un lustro, rappresenta lo scenario unico di questo nuovo repertorio. Nelle linee agrodolci che si rincorrono in "Only God Was Above Us", tra avamposti giocosi e contemplazioni ammantate da una patina di malinconia, si ha come la sensazione che Ezra Koenig e compagni abbiano trovato l'esatto punto di equilibrio nella duplice anima che attraversa la loro musica: quella festosa, appunto, e quella riflessiva.

Tra le due, qui, vince senza dubbio la seconda. Se "Father Of The Bride" era un ponte verso la California attraversato da alcune tra le melodie più nitide e "pop" scritte dai Vampire Weekend - si pensi a "This Life" e "Harmony Hall", il nuovo album sembra piuttosto guardare alle umbratili atmosfere di "Modern Vampires Of The City". Allora New York era osservata dall'alto, con i grattacieli nascosti da una coltre di foschia o chissà, forse di smog. Qui, non a caso, la città ritorna ma la prospettiva è rovesciata: entriamo nelle sue viscere, nelle sue storie. Come quella di "Mary Boone", una collezionista d'arte la cui parabola è sintomatica delle narrazioni scelte per questo nuovo lavoro, che comincia con un "fuck the world" appena sussurrato e termina sulle note ridondanti e piene di speranza di "Hope" (appunto).

In questo riportare tutto a casa - in senso figurato e letterale - dei Vampire Weekend, in questa sorta di auto-catarsi, in questo lavoro di squadra durato anni in un ping-pong di tracce spedite da un membro all'altro da un lato a quello opposto del continente o del mondo, appare evidente come la strada maestra intrapresa da Ezra Koenig, Chris Baio e Chris Tomson (Rostam Batmanglij ha lasciato il progetto) sia quella che porta all'essenzialità. Che non significa ridurre elementi e orchestrazioni - anzi - ma trovare una pace (interiore) nuova, un'intimità che raramente nel sound degli americani avevamo riscontrato.

Certo, i momenti più movimentati e vampireweekendizzanti non mancano, come mette in chiaro quasi subito "Classical", con quel refrain obliquo che è ormai da anni un marchio registrato dei newyorkesi. Anche l'indie-rock di "Prep-School Gangsters" è lì a ricordarci che, quando i Nostri decidono di darci dentro con l'indie-pop, hanno pochi rivali oggigiorno. Un discorso che vale a maggior ragione per l'assalto sonico/tascabile di "Gen-X Cops", un numero che sembra sgusciare dalle mani dei concittadini MGMT. Il crescendo irresistibile di "Ice Cream Piano", tutta chitarra e tasti travolti dall'arrivo sulla scena del rullante e degli archi, è la migliore delle intro possibili.

In parallelo, c'è tutto un repertorio di brani che viaggiano in direzioni differenti rispetto a quelle più battute finora dai Vampire Weekend. La ballata "Capricorn" risplende nei rintocchi di pianoforte e nelle sue emergenti orchestrazioni, mentre declina un testo di straordinaria bellezza e malinconia sul tema della sconfitta ("Capricorn/ The year that you were born/ Finished fast/ And the next one wasn't yours"). La marcetta "Connect" sgorga da una cascata di note al piano, lo strumento principe di questo lavoro, ed è qui che vengono in mente possibili (e improbabili) paralleli con gli ultimi Arctic Monkeys, in un gioco forse inconsapevole di suggestioni tra le due sponde dell'Atlantico. I girotondi di tasti vanno a creare un altro brano di grande impatto nella sua apparente semplicità.

Meno a effetto ma egualmente notevole è la parabola sorniona di "The Surfer", un pop-rock indolente e avvolto in un tepore vagamente chill che sembra destinato ad accompagnare inesorabilmente i tramonti della prossima stagione estiva. Le accorate sponde trip-hop di "Mary Boone" - nella quale compare un sample dei Soul II Soul - si specchiano nelle atmosfere vagamente est-europee di "Pravda", laddove il climax non arriva mai ma la materia si stempera in un ritornello di rara bellezza.
Chiude i giochi l'ultima piccola-grande meraviglia di questo scrigno, una "Hope" che ci si può immaginare di ascoltare cantata da un cantautore di strada tanto quanto da un coro gospel, magari a Harlem, sicuramente da qualche parte a New York.