I’m not excited
But should I be
Is this the fate that half of the world has planned for me?
I know I love you
And you love the sea
Wonder if the water contains a little drop little drop for me
(Vampire Weekend - "Unbelievers")
Tre anni dall'ultimo "Contra", cinque dall'esordio omonimo e sette dalla nascita della band: i Vampire Weekend tornano sulla scena imbottiti di zuccherini pubblicitari, sponsorizzazioni hollywoodiane (Steve Buscemi, cugino di n grado con Chris Baio) e un album, "Modern Vampires Of The City", dall'hype elevatissimo. Un'attesa cominciata nel 2011, quando i quattro annunciano di lavorare alla produzione e svelano, come è ormai consuetudine, pezzettino per pezzettino quelle che sono le idee, i progetti, le intenzioni e le tecniche di composizione. Per la prima volta la band newyorkese di Ezra Koenig assembla canzoni composte in solitaria, istintive, da lui definite "naturali": una battuta di batteria colpita da Chris Thomson viene pensata nella chiave sonora disegnata dalle strofe di Rostam Batmanglij o sulle linee di basso trascritte da Baio; il risultato non è scontato, ma raggiunge a fatica il contenuto qualitativo del precedente "Contra".
In "Modern Vampire Of The City" la tendenza tutta americana a fare ciò che pare rimane viva, rimarcata da un utilizzo di strumentazioni "classiche" e da una lettura pop del songwriting che rimane, a modesto parere di chi scrive, la migliore qualità di Koenig. Perché se è vero che quest'ultima uscita discosta la band dai binari canonici del "mainstream di ambiente indipendente", poco aggiunge però al valore artistico che la stessa si era costruita in questi anni, portando sugli scudi la sola figura cantautorale di Ezra Koenig. Il frontman dimostra di rimanere uno dei migliori interpreti alt-pop della scena mondiale per qualità canore, capacità interpretative e idee artistiche: è come se la voce, nei Vampire Weekend, fosse lo strumento in più che ha fatto la fortuna di band come Queen o Stereophonics, chiaramente accompagnata da una squadra di musicisti capace di creare un tappeto sonoro in grado di trovare l'incastro giusto.
Nonostante si muovano come cani sciolti per le strade degli States - l'album è stato registrato tra Los Angeles e New York - i Vampire Weekend rappresentano appieno la nuova identità americana degli anni Duemila, mostrandola attraverso il meltin' pot più patriottico che abbiano assemblato finora; e non s'impiega poi molto a "imparare" questo ritratto in bianco e nero dell'America contemporanea, proprio per le immense capacità popular della band: la bella "Step" è una hit single di qualità, in cui il clavicembalo annuncia uno scambio di rime hip-hop intenso, da impasto di parole, che si chiude con un ritornello tutto milk-shake al cioccolato e banana split, all'angolo tra la ventiduesima e l'ottava, dove un juke-box suona in sequenza Beastie Boys e Roy Orbison. Ed è chiaro che il treno pigliato alla stazione di "Unbelievers" viaggia verso sonorità del passato più prossimo e di quello più recente - mix tra The Monkees (quelli di "I'm A Believer") e Mumford & Sons - con la batteria che alimenta il fischio del vapore dell'hammond, salutato da signorine con evidenti difficoltà nel tenere a bada le loro gonne sollevate dal passaggio veloce del locomotore. Che poi ci salti sopra anche George Michael con i suoi Wham!, ebbene accade per davvero passando per "Diane Young", il primo singolo estratto da "Modern Vampires Of The City". Il side veloce e frenetico comprende anche "Finger Back" e "Worship You" altre prove favorevoli a Koenig, tra sonorità passate degli stessi Vampire Weekend e compagni di giochi come i concittadini Yeasayer.
"Don't Lie" è la traccia a metà, che identifica la stanchezza del vivere contemporaneo, ma alla fine, fa festa ancora una volta nel concertino di trombe, tromboni e caroselli; e tutto il filone che parte da "Obvius Bicycle", la traccia d'aiuto per capire che stiamo ascoltando i Vampire Weekend, e arriva a "Hudson" - post-dubstep tenebroso, da fumo di tombini e colletto del cappotto tirato su fino agli occhi, con camminata svelta, braccia incrociate e sguardi sospettosi in riva al fiume - è riempito dalle tracce più interessanti del disco: "Hannah Hunt" e "Everlasting Arms" su tutte. Nella prima c'è lo sfiato prorompente dei vapori pop della band, con lo sfogo finale causa di lacrimoni romantici; nella seconda, i balzi africani cari ai quattro ritornano insieme a certe armonie sentite qualche tempo fa (alt-J) e metriche canore del Phil Collins di "But Seriously". E poi c'è "Ya Hey", dalla forma regolare e il contenuto particolare; toccate di fuga alla Bach sono intervallate da vagiti di jodel e cori africani che spiazzano: è forse la manifestazione più libera nell'intero disco, che propone di chiusa "Young Lion", una sonata pianistica stonata e soave, con impasti vocali tipici della west coast dei sixties.
Va quindi dato merito alla band di aver proposto, in quaranta minuti, tracce diverse tra loro, senza un filo conduttore obbligato, con la libertà di spaziare durante l'ascolto; si avvertono comunque dei singhiozzi di tanto in tanto, forse per aver maldigerito l'aspettativa creatasi attorno, con la netta sensazione che, su lungo perioodo, quella libertà possa portare a svalutare la totalità dell'opera. Checché se ne dica o se ne scriva, "Modern Vampires Of The City" posiziona comunque i Vampire Weekend nelle parti alte del maindiestream mondiale, mostrandoli a un pubblico più allargato e consacrandoli, volenti o nolenti, sull'altare dell'alt-pop.
12/05/2013