Nel percorso poco ortodosso di David Longstreth c’erano già le avvisaglie dell’ennesimo capovolgimento artistico dei Dirty Projectors, e le sempre più raffinate architetture di “Bitte Orca” e “Swing Lo Magellan” già evocavano tutta la potenza e l’energia dell’r&b. Scardinate le tecniche e le regole della perfezione estetica, il passo successivo per il musicista americano è stato quello di raffinare la scrittura delle canzoni, entrando di forza nel moderno mainstream.
La collaborazione con Kanye West, Rihanna e l’ancor più stretta partecipazione all’album di Solange “A Seat To The Table” hanno di fatto anticipato le intenzioni di Longstreth di dire la sua sull’evoluzione dell’art-soul contemporaneo.
Il settimo capitolo dei Dirty Projectors è in verità il primo album solo dell’irrefrenabile leader, e la scelta di intitolarlo semplicemente con il nome dell’ormai estinta band sottolinea la volontà del musicista di considerare quest’ultimo capitolo come il principio di un nuovo percorso. La separazione dall’ex-compagna e collega d’avventura Amber Coffman marchia prepotentemente la narrazione lirica e musicale dell’album: il suono non è mai stato così denso e vertiginoso, le nove canzoni sono altrettanti tasselli di una rinascita emotiva e creativa che stritola l’anima.
“Dirty Projectors” è un album che farà arrabbiare molti puristi, la dose di saccarina e soul rischia di risultare indigesta per tutti coloro che fino ad ora avevano perdonato a Longstreth il suo perfezionismo anti-pop, anche se dietro il tono melodrammaticamente r&b di brani come “Death Spiral” ci sono le stesse istanze di “Swing Lo Magellan”, progetto dal quale l’autore estrapola un sample per l’introduttivo spiazzante slow-soul di "Keep Your Name".
Non è un voler cavalcare l’onda quello che sposta l’asse creativo dei Dirty Projectors: la catarsi soul è pura ed autentica, una sinergia white&black che rimanda a uno dei pochi nobili precedenti, ovvero gli Scritti Politti di Green Gartside, qui evocati nell’eccellente “Up In Hudson”: sette minuti di calma e caos che nella sua dicotomia tra doo-woop/soul e guitar-drone/indian-rhythm centra la perfezione pop.
David Longstreth ha trovato il coraggio di esternare sentimenti universali e semplici come l’amore, e nel farlo non usa metafore o finzioni intellettuali. Attraverso il soul e l’r&b l’autore mette a nudo un labirinto emotivo nel quale è facile perdersi.
Alla maniera di Marvin Gaye in “Here My Dear” organo e orchestra imprigionano il romanticismo di "Little Bubble", accettando l’amaro sapore della sconfitta in "I See You": un ulteriore atto di debolezza dal quale Longstreth ricava la forza per una rinascita spirituale, dove “dimenticare e riconciliarsi” appaiono come le uniche vie d’uscita possibili.
Dissonanze etno-soul (“Work Together”), ballate menzognere (“Ascent Through Clouds”), incerte divagazioni elettro-soul (“Cool Your Heart”) e ingegnose sinfonie funk (“Winner Take Nothing”) sottolineano infine l’abilità di Longstreth di entrare in punta di piedi nel mondo di How To Dress Well, Blood Orange e Kanye West, preservando l’unicità della sua musica. “Dirty Projectors” è forse l’album più arrendevole della sua carriera ma, proprio per questo, il più sincero e autentico.
03/03/2017