Kanye West

Kanye West

Delirio e onnipotenza

Kanye West è una delle maggiori divinità dell'hip-hop moderno. Tra ossessioni, deliri di onnipotenza, collaborazioni plurime e campionamenti d'ogni sorta, Yeezy è senza dubbio il più attivo rapper/producer in circolazione. La sua formula è tanto ricercata quanto accessibile a tutti. Un artista sempre in continua evoluzione, caratterizzato da un trasformismo produttivo fuori dal coro che lo consacra tra i veri custodi della musica black contemporanea

di Giuliano Delli Paoli

Sintetizzare artisticamente Kanye Omari West è impresa ardua e impervia. Unire i cocci del suo mosaico sonoro è un po’ come tentare di accorpare le infinite incursioni stilistiche di Beck per il panorama indie o dell’ancor più versatile Bjork. Kanye West appartiene a quella categoria di musicisti proiettati tendenzialmente in una scena (in tal caso l’hip-hop in generale) ma confluenti passo dopo passo in mille e più universi paralleli. La sua carriera discografica evidenzia un trasformismo produttivo ce lo proietta spesso ben al di là dei recinti hip-hop tradizionali. Il suo pregio più grande è quello di aver assemblato l’hip-hop in una mescola i cui ingredienti sembrano non esaurirsi mai. In quanto a produzione e ricerca del beat, West non fa altro che curvare i percorsi tracciati da RZA e Jay Z in una spirale attraverso cui far scorrere nuovi flussi e nuovi ritmi, uniti ovviamente a fascinazioni pop di grande presa. La scelta dei campionamenti assume così un ruolo chiave nella stesura dei pezzi. Nei ripescaggi, West è un po’ il Madlib dell’hip-hop di massa. E’ un sarto i cui abiti si distinguono dalle restanti cuciture per la ricercatezza della stoffa, oltremodo pregiata e talvolta estrapolata dai luoghi più lontani. La sua creatività non ha confini, e sullo sfondo dei suoi pezzi predominano sonorità elettroniche, rock, e classicheggianti all'occorrenza. Il tutto con una freschezza melodica ispirata e poche volte realmente scontata.

A dar man forte a questa palese irrequietezza produttiva, è una pirotecnica ostentazione delle proprie capacità. I suoi concerti sono dei veri e propri spettacoli in cui nulla pare impossibile. E i singoli di lancio al disco diventano quasi sempre l’occasione per dar sfogo a una stravaganza scenica ai limiti dell’assurdo. Non ultima l’idea di proiettare sui palazzi di sessantasei città sparse nel Mondo il video del  brano “New Slaves”, da sirena all’imminente uscita del suo sesto disco effettivo da solista. Nel mondo di Kanye va via via fortificandosi nel corso degli anni la consapevolezza di un non precisata onnipotenza. West si sente un Dio. Nelle sue parole egli è il Dio del rap. Un musicista venerabile e al di sopra di ogni cosa. Una divinità a cui non piacciono i compromessi ma soprattutto una divinità senza eguali, praticamente unico nel suo infinito splendore. Le sue sono provocazioni che nascono non solo da un ego spropositatamente gonfiato, bensì da attente strategie di mercato, magari messe in piedi solo per destar scalpore e per far parlare di sé sempre e comunque.
La presenza di Kanye West sulle prime pagine dei rotocalchi occidentali diventa dunque una costante direttamente proporzionale alla sua carriera discografica. E dopo le prime timide apparizioni, il personaggio Yeezy (così lo chiamano i suoi amici e i suoi fan più accaniti) raggiunge agilmente la cima dello star system planetario. Kanye è la star da inseguire ad ogni costo. L’uomo dal cui cilindro è lecito aspettarsi uscire di tutto. Ma Kanye West è soprattutto un assiduo produttore. Un musicista capace di infilarsi praticamente ovunque e di arricchire il proprio bagaglio artistico mediante le collaborazioni più disparate. Negli ultimi dieci anni non si contano le produzioni in cui c’è anche la sua firma in bella vista. Tirando le somme, evidenziamo più di mille apparizioni tra album, video, compilation d’ogni sorta, remix, arrangiamenti, campionamenti e chi ne ha più ne metta. Insomma, Kanye è dappertutto. Sforna singoli come patatine al McDonald’s e fa nascere gruppi solo per l’occasione, come capita nel maggio del 2007 con il trio CRS in compagnia di Pharrell e Lupe Fiasco. Questa sua totale onnipresenza non è nient’altro che la conferma di un’ambizione smisurata e senza limiti negli attuali dintorni hip-hop.

Crescita ed evoluzione

Kanye WestNato ad Atlanta nel 1977, alla tenera età di tre anni Kanye è costretto a trasferirsi in seguito alla separazione dei propri genitori nella più pulsante e tenebrosa Chicago. Suo padre, Ray, è un ex-pantera nera e un acuto giornalista d’assalto negli anni della rivolta afroamericana. Mentre sua madre, Donda, era un’acclamata professoressa di inglese, nonché sua manager per i primi tre album.
Fin da adolescente, West mostra subito una spiccata vocazione per l’arte in generale e la musica. Non a caso frequenta corsi presso l'American Academy of Art di Chicago e si iscrive per un breve periodo alla Chicago State University, prima di accantonare tutto e seguire esclusivamente la propria vocazione per il groove, la musica nera e i campionatori.
Ma come già dicevamo poco sopra, Kanye West è innanzitutto un eccellente produttore, e già nel lontano 1996, appena diciannovenne, contribuisce alla formulazione di otto tracce del primo disco del rapper Grav, “Down To Earth”, per la benemerita Correct Records. Inizia così la sua carriera parallela, che lo vedrà divenire di lì a poco un eccellente talent scout e un ardito manager (non a caso, è mentore di John Legend, GLC, Consequence, Common e un’infinità di nuove promesse).

Siamo nel 2001 e Kanye ha soli ventiquattro anni. Dopo una serie di partecipazioni a eventi locali e più o meno occasionali, decide di dare finalmente una svolta alla propria carriera, una ragione vera per cui cominciare a fare musica. Si trasferisce dunque per un po’ di tempo verso l’East Coast con l’intento primario di migliorare il proprio bagaglio. Ma il suo vero obiettivo è raccogliere consensi dalla Roc-A-Fella Records, la celebre etichetta fondata da Damon Dash, sua maestà Jay-Z e Kareem "Biggs" Burke. Ed è proprio il primo dei tre a intuire quasi immediatamente le potenzialità del ragazzo, conferendogli nel giro di pochi mesi compiti importanti, come quello di seguire personalmente le giovani promesse del giro, o le parti strumentali dei singoli lavori, come accade ad esempio in “Bonnie & Clyde”, il singolo di maggior successo di “Blueprint”, fortunatissimo album di Jay Z.  E’ il preludio a un’ascesa irrefrenabile e a una carriera talmente luminosa e versatile da far impallidire negli anni a venire i suoi stessi padri putativi.

La trilogia universitaria

Prima di lanciare il suo personale album d’esordio, Kanye deve purtroppo affrontare le conseguenze di un gravissimo incidente che lo costringono a rimandare qualsiasi impegno per un lungo periodo. Lo stesso tragico episodio verrà successivamente esorcizzato nel video del brano “Through The Wire”, una sorta di cartolina della vita privata di West prima e dopo lo schianto. College Dropout viene pubblicato il 10 febbraio del 2004 ed è subito una sfilza di collaborazioni eccellenti a caratterizzare ogni singolo brano di West. Syleena Johnson, GLC, Consequence, Jay-Z, J. Ivy, Talib Kweli, Common, Twista, Jamie Foxx, Ludacris, Mos Def, Freeway e il coro maschile di Harlem impreziosiscono fin dai primi sussulti l’opera prima del talentuoso rapper americano. E appare ben chiara anche la volontà di allontanarsi sistematicamente dalla superficialità intrinseca che caratterizza il paroliere medio dei propri colleghi. Con West tornano lentamente di “moda” angosce, paure, speranze, drammi personali e non. L’idea è di allontanarsi dalla pochezza sistematica di rime atte a descrivere e a esaltare esclusivamente di quartieri in fiamme o di una sprovveduta ricchezza sopraggiunta magari troppo in fretta e con ben più di una zona d’ombra. Spiccano così liriche tese a definire ben altro che un cumulo di gioielli comprati per rinvigorire l’orgoglio nero o per accaparrarsi troie d’alto rango.
Sotto il profilo squisitamente musicale, prende forma un intarsio di nuovi colori, nuovi suoni e campioni inediti per la scena hip-hop del periodo. In College Dropout troviamo i cori dosati con cura, una ritrovata teatralità r’n’b e un romanticismo urban in grado di soddisfare i palati apparentemente più distanti.
L’album ottiene ben nove nomination ai Grammy Awards del 2005, e "Jesus Walks", secondo singolo del lotto, diventa uno dei maggiori tormentoni dell’estate americana. 

Preso dunque pieno possesso delle proprie potenzialità e forte di un arsenale di campionamenti fuori dai consueti schemi mainstream della black music formato Mtv, dopo pochissimi mesi  Kanye West torna a cavalcare l’onda dando vita all’immediato secondo disco, dal titolo Late Registration. Nel giro di un anno un sempre più egocentrico Kanye si ritrova dunque col suo bel faccione sulla copertina del Time Magazine. E’ ulteriore benzina per il suo ego. Nemmeno troppo a sorpresa, quindi, West passa un’intera primavera a rilasciare interviste rassicuranti sulle sue intenzioni future: "Voglio fare un album pop, voglio essere la pop music, voglio quel suono alla Coldplay/Portishead/Fiona Apple, voglio…". In fondo le premesse sono perfettamente in linea con il personaggio. Dalle parole vengono quindi i fatti: chiama a coprodurre l'album Jon Brion (già con Fiona Apple, Badly Drawn Boy, Rufus Wainwright, ma alla prima esperienza in territorio hip-hop) e gli concede, strano a dirsi, grandi libertà di movimento, in linea con il progetto iniziale di rivoluzione pop. Brion non si tira indietro e incornicia il West-sound con inserti orchestrali, xilofono e chiusure dei brani con cascate di synth. A completare l'opera hip-pop, gli ospiti invitati alla corte di Kanye West: Adam Levine dei Maroon 5, Jamie Foxx (qui nella sua versione da Oscar di Ray Charles) e Brandy danno calore soul, mentre Nas, Jay-Z, The Game, Common e Cam'Ron offrono interpretazioni ordinarie su basi extra-ordinarie. Due squadre, due intenti: il pop-soul e il mainstream rap meno banale. 
Ad aprire le danze proprio quella "Heard 'em Say", in duetto con Adam Levine, manifesto musicale di un uomo che cavalca r'n'b, pop-soul e hip-hop con disarmante facilità: il falsetto pop del cantante dei Maroon 5 si sintonizza perfettamente con il rallentato rappin di West. Sul sample di "Move On Up" di Curtis Mayfield, Kanye costruisce la perfetta "Touch The Sky" con atmosfere cinematiche funky anni 80 e George Clinton non è poi troppo distante. Se in "My Way Home" Common è protagonista assoluto e gioca con i sample tratti da "Home Is Where The Hatred Is" di Gil Scott-Heron, il palcoscenico di "Gold Digger" è sapientemente diviso a metà tra Jamie Foxx e Kanye West. "Gold Digger" è una delle hit del disco, impreziosita da un intro vocal di Jamie Foxx, che interpreta la celeberrima "I've Got A Woman" di Ray Charles.
Ancora soul e batteria tribale in "Addiction", colonne sonore di telefilm anni 80 come tappezzeria nella lunghissima "We Major", un Otis Redding rispolverato dalla collezione personale di suoni a commentare "Gone" e altri gioielli musicali ancora: "Roses", "Hey Mama" e "Diamonds From Sierra Leone". Il primo è uno degli episodi più soft-soul del disco, con una voce sussurrata quasi spoken che declama: "La medicina migliore è quella di chi ha i soldi, Magic Johnson ha trovato la cura per l'Aids, mentre i poveri neri del quartiere continuano a morire, cosa significa? Che se mia nonna giocasse in Nba, ora sarebbe ancora tra noi?". "Hey Mama", con il sample "Today Won't Come Again" di Donal Leace, avvicina la musica di Kanye West a quella degli ultimi Outkast: il virgilio di entrambi è Prince, autore totale, come totali vogliono essere le musiche di Kanye e del duo Andre3000/Big Boy.
"Diamonds From Sierra Leone", in doppia versione con annesso remix, è una dura accusa politica nei confronti della guerra civile nello stato africano, originata da interessi meramente economici (la Sierra Leone è una dei maggiori esportatori di diamanti). Musicalmente la superba voce di Jay-Z si trova in perfetta armonia con la base di "Diamonds Are Forever" di Shirley Bassey (canzone ai più famosa per il leggendario film di James Bond).
Kanye West mette così tutti in riga, confermandosi  il miglior creatore di beat in circolazione, ma non solo. Egli ha anche il grande merito di aver ri-nobilitato la scrittura dei testi. Superato ampiamente il periodo Public Enemy e old school, con West si torna a percepire un rinnovato interesse per quello che succede al di fuori della propria Lexus e ci si ricorda che il mondo è ancora teatro di ingiustizie. Ecco quindi il commercio di diamanti e la guerra civile in Sierra Leone, l'inadeguata assistenza sanitaria, la sperequazione economica e la crescita del tasso di tossicodipendenza tra i giovani.
Late Registration trasuda di pop music, di black pop music, di quei beat che hanno animato le discoteche 30 anni fa, ma che continuano ad animarle tutt'oggi, tra Funkadelic, Prince e soul music.
La prima vera grande scommessa di Mr West, è dunque vinta a mani basse. L’operazione è riuscita pienamente. La bontà della proposta musicale è di quelle simili ai confratelli Outkast, in grado quindi di raggiungere un pubblico trasversale. Segue di lì a poco Late Orchestration, il disco-live agli studi Abbey Road capace di risaltare mediante una grassissima orchestra le indiscusse qualità sceniche del nostro, nonostante il risultato risulti a un primo impatto un po’ pacchiano e a tratti eccessivamente autoreferenziale.

Kanye WestA chiudere poi la “trilogia universitaria“ iniziata con College Dropout, è il terzo disco di West sulla breve distanza: Graduation. Stavolta, West decide di pescare dalla floridissima scena elettronica francese. La daftpunkiana "Stronger" è il singolo di lancio al disco e diventerà top 5 dei singoli dell’anno. E’ un piccolo brano rivoluzionario dell’universo hip-hop odierno, tanto rivoluzionario, quanto passatista, perché in odor di quella comunella storica che fu Afrika Bambaataa e Kraftwerk. Per molti l’hip-hop nacque lì e da lì riparte anche Kanye West, rispolverando ancora una volta, come già Afrika Bambaataa, la scena dance europea, e ancora una volta confezionando un prodotto transgenere e quindi di per sé significativo.
Se “Placet Rock” fu simbolo e turning point di tutto, “Stronger” è la presa di coscienza di quello che ad oggi può davvero essere considerato il massimo esponente del genere. Campionando "Harder, Better, Faster, Stronger" dei Daft Punk, Kanye West non solo paga tributo a un monumento della musica elettronica contemporanea, ma costruisce un perfetto e inattaccabile gioiello pop. Di meglio non si può chiedere, nemmeno chiamando l’ormai inflazionato Timbaland. Poi, sempre su quella stessa spiaggia, con i soliti salviettoni al vento e i soliti pensieri sul nulla, si legge spazientiti di una improbabile lotta discografica tra Kanye West e 50 Cent, con quest'ultimo che minacciava di smettere con la musica se nella prima settimana non avesse venduto più del rivale. Ora, a bocce ferme e per amor di chiarezza, ma soprattutto con i dati in mano, leggiamo testuali: 957.000 copie per Graduation e 691.000 copie per "Curtis" solo sul suolo americano. Nel resto del mondo Kanye ha doppiato il rivale. Se le parole valgono qualcosa, 50 Cent dovrebbe ipoteticamente  lasciare le scene musicali, ma così non sarà, stante l’ultima dichiarazione paranoica sganciata dell'ex galeotto: "Nella sua intera carriera, Kanye West non ha mai venduto nemmeno la metà di quello che ho totalizzato io solo con il primo album. E’ chiaro che la Def Jam ha orchestrato il tutto, investendo dei soldi nel comprare un vasto numero di copie per fargli fare bella figura". Il commento a voi.

Ma Graduation è purtroppo un lavoro meno corposo, meno denso, meno trasversale e musicalmente meno ricco del precedente Late Registration. E' l'album più pop di Kanye West, certamente meno acuto e intelligente, ma di più facile ascolto. Vicino ai dispensatori di hip-hop intelligente, ma da scaffale: tra gli ultimi esempi si citi per tutti Common - tra l’altro prodotto proprio da Kanye. Le atmosfere costruite con sapienza di "Flashing Lights" sono un riferimento all'attitudine cinematografica di Craig Armstrong, ricche di pathos perfino malinconiche. Il mood un poco riflessivo prosegue con "Can't Tell Me Nothing", strappato musicalmente dagli archetipi soul-hip-hop: rappato docile e chorus black. Punge e non fa male: punge perché, a fronte di una vasta letteratura musicale costruita proprio su questi binari di  hip-hop imbastardito e di lezioso esercizio pop per MC’s poco veloci e con voce zuccherosa, Kanye non manca di timbrare il cartellino anche qui, costruendo su di sé un brano da scodinzolamento cranico avanti e indietro, per sere buie, per palasport illuminati da accendini. E una ballata hip-hop. Ma forse è proprio con "Champion" che Kanye West ritrova il suo passato, sample dance-pop luccicante, mentre  "Everything I Am" è lo specchio di cosa è Kanye in questo momento della sua vita e di quello che vuole diventare in futuro. Vuole creare musica di massa per la massa, musica hip-hop da ascolto e quindi non può che rispolverare jazz e soul. Del resto, "Everything I Am" è uno scacciapensieri musicale, poco ingombrante, decisamente sopportabile dalle orecchie di chiunque, facilmente decodificabile, perché privo di quelle barriere culturali che rendono l'hip-hop ancora poco alla portata di tutti.
Insomma, se con Late Registration si può parlare di hip-pop, qui il passo avanti è dato da una maturità e profondità tipica dell'adult-rock, e possiamo dunque parlare di adult hip-pop.

Veniamo poi ad alcune considerazioni sugli ospiti: Mos Def è l'animatore di "Drunk And Hot Girls". Un paio di cose al riguardo: Mos Def è conosciuto più per le sue vicende cinematografiche e da piccolo schermo che per le prove su disco. Della sua esperienza musicale si ricorda con discreto piacere lo split con Talib Kweli in "Black Star". Il resto è giustamente nell'oblio. Il brano è invece un gustoso rap-rock: con il termine non si intenda il crossover alla Run DMC, ma piuttosto un rappato simil-cantato a cui è accompagnata una base delicata, qualche vagheggiamento jazzy, pochi beat ingombranti e paranoiche ripetizioni del refrain. E' rilassatezza pura. L'altro featuring di riguardo è Chris Martin dei Coldplay, ormai personaggio (no)globale, simbolo pulito della pop-music e dunque preda preferita di questo Kanye West in vena di diventarne  la nuova icona. Il brano è "Homecoming" e Chris Martin si lancia nel divertissment puro, rappando improbabilmente anche lui, rileggendo in chiave maschile quello che generalmente è affidato alla bella voce black di turno. Si risentono a distanza i richiami del reggae caraibico meno festoso (un po' Wycleaf Jean per intenderci).
Dunque, con Graduation Kanye West fa le cose in grande con il singolo, che rimarrà incastrato da qualche parte nella storia del genere. Tuttavia, prevale a volte la voglia di strafare, altre il minimalismo che dal produttore Kanye West non si riesce proprio a capire, soprattutto perché si è rivelato nel tempo uno dei migliori costruttori di suoni di tutto l'hip-hop. Trovarlo qui, al suo terzo album, con basi sì perfette, ma poco orchestrali, poco costruite e complicate, stupisce e lascia forse interdetti. Ciò nonostante, "Stronger", vale una carriera per qualsiasi rookie dell'hip-hop, e non va dimenticato.

Onnipotenza, delirio e risorgimento

Kanye WestA segnare in questo lasso di tempo la vita privata di Kanye è soprattutto la morte della madre Donda, venuta a mancare improvvisamente dopo una complicazione per un intervento di chirurgia estetica, e alla quale dedica “Hey Mama” contenuta in “Late Registration” durante la performance a Grammy del 2008. Il 7 settembre dello stesso anno Kanye si esibisce agli Mtv Video Music Awards  con il suo nuovo singolo “Love Lockdown”, di lancio al quarto album in studio, 808's & Heartbreak, il quale uscirà solo due mesi dopo. Purtroppo, in quegli stessi giorni West viene arrestato all'aeroporto di Los Angeles con l'accusa di vandalismo per aver aggredito un paparazzo in procinto di fotografarlo. La scena viene prontamente ripresa da un altro paparazzo e il video che ne consegue circola impietosamente sul web contribuendo ad affondare seppur parzialmente la sua immagine. Tuttavia, l’episodio non avrà fortunatamente grosse ripercussioni sul profilo artistico.
Mr. West, sempre più uomo del risorgimento rap, rompe quindi ancora una volta gli indugi senza troppe esitazioni, e se ne va per la sua strada. Col senno di poi, Graduation suonerà ancor più come un album di transizione, forse dovuto: comunque indeciso. Fino a questo punto, West ha quindi il grande merito di aver mostrato - nei suoi primi due dischi - come possa essere possibile coniugare classifica, Grammy, talento e cultura (musicale e non) mettendo il tutto al servizio del suono. Essenziale per questo è stata la base di partenza: prima che un rapper, West è un musicista coi fiocchi. E pertanto può permettersi di ascoltare i suoi moti interiori e assecondarli, anche stravolgendo tutto. Perdere la propria madre non è poi semplice neanche se si hanno barconi pieni di dollari: ed è questa la molla di 808s & Heartbreak, disco di palese urgenza espressiva. Un concept su sentimenti essenziali e cuori infranti, su amore e abbandono, in cui il mezzo musicale è piegato all'interiorità e rappresentato quanto meglio possibile dalla vesta grafica (sfondo grigio e cuore rosso al centro).
Minimalismo è la parola chiave della nuova avventura. Synth, pianoforte, percussioni, beat e vocoder vanno a creare substrati freddi e poco pastosi su cui si infrangono melodie soul spesso sbilanciate dal lato del pathos. West rinuncia alla sua abituale produzione gonfia, accendendo solo note basilari; non rappa e non canta, si limita a passare la voce in autotune, rimarcando il gioco di contrasti gelo/calore.
Detto di motivi e modalità dell'operazione - che vogliamo assumere neutra in sé per sé, ma che comunque va lodata perlomeno per il coraggio. L’urgenza espressiva è sinonimo non solo di sincerità, ma anche di frettolosità. Lo stesso singolo "Love Lockdown": un deciso beat doppiato dal piano e caricato dalle percussioni, che si ripete in trance sino al crescendo finale in cui i battiti aumentano e prendono sottolineature di synth, sfoga una più che dovuta tensione senza tuttavia dover necessariamente impennare. All'ottimo biglietto da visita - notevole anche il video - fa seguito un altro singolo d'impatto, ma qualitativamente minore, "Heartless". Un rap "alla nuova maniera", con suggestioni esotiche e un testo mediocre. Se la quadratura del format resta fuori discussione (nei due singoli la differenza è piuttosto di sostanza), l'ascolto dell'intero album porta ad avere più di una remora sul dosaggio degli elementi.
Lo scontro pathos-distacco messo in scena da melodia e suono supera i limiti da ambo i lati nella lunga "Say You Will". Il contrasto fra le lugubri frasi di synth e il lamentoso autotune di West è censurabile e il brano riprende quota soltanto durante la coda strumentale. Il discorso va ripetuto pari pari per "Bad News", in cui la scialuppa di salvataggio è un duetto violino-battito ossessivo. 
Ci sono altri brani che meritano applausi sinceri: trattasi della giostra pop di "Robocop" (forse il pezzo più ricco di colore, con campanelli e frasi di violino), un concentrato di talento e fantasia, e della sua gemella "Paranoid". E' questo il vero cuore del disco, in cui tutto fila liscio e che si conclude nella dolcissima "Street Lights" ("all the street lights glowing, happen to be just like moments passing in front of me"), con tanto di reminescenze shoegaze.
I testi, forzatamente meno articolati ma anche molto meno ispirati del solito, nel complesso poco aggiungono e poco tolgono. Le note di "Coldest Winter" - accorata dedica alla madre - accompagnano via con più di una punta di amarezza per quanto si è riuscito a udire solo a tratti.

Il 2009 è l’anno della collaborazione con Malik Yusef nell’album G.O.O.D. Morning, G.O.O.D. Night, diviso nei due atti "Dusk" e "Dawn". Ma si tratta di un disco quasi interamente pensato e prodotto da Yusef. Stranamente, West si limita alla sola supervisione dell'opera, esaltandosi nei singoli "Magic Man", ballad interpretata in compagnia di Common e dell'immancabile John Legend, e nell'orchestrale "Promise Land" con Adam Levine.
A tale partecipazione segue una più che dovuta e meritata pausa lavorativa. E Kanye ne approfitta per soddisfare alcuni dei suoi innumerevoli  capricci, come ad esempio la sostituzione dell'arcata inferiore dei suoi denti con dei diamanti fissi a forma di denti.

Kanye WestNell'ottobre 2010 pubblica poi il mini-film intitolato "Runaway", della durata di 35 minuti, in cui appaiono lui stesso e la modella Selita Ebanks.
E’ la promozione ufficiale del suo nuovo disco, la futura pietra miliare del genere hip hop My Beautiful Dark Twisted Fantasy, in uscita il 22 novembre del 2010. Kanye West torna così alla ribalta più illuminato che mai. D'altronde, il successo gli ha dato alla testa. Fa piangere le principesse del country-pop in diretta tv, adotta una copertina pornografica e fa di tutto per apparire come il migliore in circolazione. E come dargli torto (!). Nei due anni antecedenti nessun altro artista è più vessato da media, youtube-dipendenti e puristi dell'hip hop. Lo è soprattutto da una buona parte della comunità afro-americana, quella più religiosa, che solo pochi anni fa l'aveva salutato come un eroe, un intelligente esempio di rapper "progressista" e che si ritrova quasi incredula e delusa dalla fascinazione di West per l'arte e i simbolismi neoclassici ed egizi (interpretati come satanici o massonici) e per le atmosfere sempre più cupe con cui condisce i suoi ultimi video e il suo blog, sempre ricco di patinati servizi di moda, accessori di lusso, ville futuriste e belle donne.
A quanto pare però, nonostante l'ego spropositato, intelligente lo è per davvero e a tutto ciò West risponde esclusivamente dando lezione di bravura e sfogo alla sua insaziabile curiosità; la sua ricerca del bello l'ha portato a realizzare un album che potrebbe essere la summa della sua carriera, ma anche quella dell'attuale panorama pop americano, incastrando e ricostruendo generi e riuscendo a far convivere nello stesso progetto, credibilmente, promesse dell'indie-folk come Bon Iver e prodotti della manifattura r'n'b come Rihanna.
My Beautiful Dark Twisted Fantasy non è soltanto l'annunciato ritorno in territori più hip-hop dopo la non troppo apprezzata (ma sottovalutata) svolta synth-soul e "cantata" di 808's & Heartbreak. È molto di più: un'esplosione di colori, suoni e voci, un lavoro quasi corale, visto il numero di artisti coinvolti, del quale West tesse le trame senza perdere, miracolosamente, il bandolo dell'intricata matassa. L'esperienza dell'album precedente (così come la sensibilità più pop che caratterizzava Graduation) non è rimasta un episodio isolato e, tutt'altro che rinnegata, funge da filtro per rileggere, da una prospettiva diversa, il canovaccio rap degli esordi, portandolo a un livello più universale, che trascende i generi e i gruppi di appartenenza.  La sua influenza è tangibile nella minimale malinconia del singolo "Runaway" o in quella di "Blame Game" (l'imprevedibile matrimonio stavolta è tra Aphex Twin e John Legend) ma anche nelle distorsioni industrial di "Hell Of A Life", nelle sinuosità funky di "Gorgeous" e nel battito dance di "Lost In The World", forse il momento più visionario e affascinante del disco, col suo straniante incipit a cappella digitalizzato, che sfocia in un trascinante ed estatico tribalismo.
Ritmi tribali e cori sciamanici anche per il primo estratto "Power", quasi un punto di incontro tra "Jesus Walks" e "Love Lockdown", il vecchio e il nuovo West, il suo passato, rappresentato anche dalle celestiali atmosfere di "Devil In A New Dress" (in cui ritornano i campionamenti di voci soul a mo' di eco) o dall'aggressività rap di "Monster" (con l'astro nascente Nicki Minaj in stato di grazia) e il suo futuro, che qui ha le sembianze di "All Of The Lights", il prossimo singolo, una giostra di fiati e incastri percussivi che ricorda certi esperimenti dell'ultima Björk, ma senza rinunciare a un ritornello killer.
Avrà anche venduto l'anima al diavolo, Mr. West, ma la sua musica non ha mai suonato tanto luminosa e libera come in My Beautiful Dark Twisted Fantasy.

La fusione

Nel 2011 è la volta di Watch The Throne assieme all’amico e mentore di sempre Jay Z. Un groove denso, cupo e insinuante, accompagnato dalla voce della nuova promessa del soul Frank Ocean, ad aprire il tanto strombazzato e poi pluri-rinviato lavoro, la cui gestazione e pubblicazione non sono certo prive di ombre. Non è la prima volta che Jay-Z e Kanye West lavorano assieme, eppure l'idea di un intero album composto a quattro mani ha da subito solleticato la curiosità degli appassionati e inevitabilmente caricato il progetto di grosse aspettative, per giunta tradite nel momento in cui i due hanno pubblicato, mesi fa, il loro primo singolo, l'eccessivamente sontuoso e presuntuoso "H.A.M", cesellato come un pesante mobile rococò e ormai relegato a bonus track nell'edizione deluxe dell'album, quasi a voler aggirarne l'impasse. Gli ultimi mesi sono stati particolari per entrambi, con Kanye West che si è ritrovato nella scomodissima posizione di dover bissare l'osannato, un po' inaspettatamente, My Beautiful Dark Twisted Fantasy e Jay-Z reduce dall'enorme riscontro commerciale di diversi singoli, ma sempre meno riverito dalla critica musicale.
Sarà quindi forse per prudenza che finalmente l'album vede la luce quasi a sorpresa, quando nessuno quasi ne parlava più, accompagnato da molto meno rumore di quello che ci si aspetterebbe associato ai due nomi più importanti e influenti dell'hip-hop degli ultimi vent'anni. Anche l'iniziale idea, poi accantonata, di pubblicare l'album a nome The Throne sembrava quasi un voler metter le mani avanti e dichiarare che questo disco fosse un qualcosa di indipendente dal resto delle loro discografie. Difficile però vederla sotto quest'ottica quando i tanti nomi coinvolti nella realizzazione dell'album sono praticamente gli stessi che prendevano parte alle loro ultime prove discografiche (molti di questi brani provengono dalle stesse session), e quando si ritrova la solita sfilza di imprevedibili citazioni/ricostruzioni, da James Brown ai Cassius, passando per Phil Manzanera.
Decisamente meno variopinto e concept rispetto all'ultima fatica di West e più rigoroso rispetto a quella di Jay-Z, Watch The Throne vede i due ergersi a paladini di una certa classicità hip-hop, che fa mostra con orgoglio delle proprie radici black quando rappano su un vecchio disco rotto di Otis Redding (o di Curtis Mayfield, in una delle quattro non imperdibili bonus track), quando sporcano di asperità blues una nostalgica e dolente "Gotta Have It" (a produrre sono dei Neptunes sempre più sobri) o come quando trasformano un loop di cori infantili in una avventurosa messa voodoo ("Murder To Excellence").
L'allarme incombente di "Welcome To The Jungle" e l'invettiva techno-rap da club futurista di "Who Gon Stop Me", così come la filastrocca cibernetica di "Niggas In Paris", riportano però a un presente sempre più elettronico e frenetico, evidenziando che un disco del genere ha anche, suo malgrado, il dovere morale di conquistare le classifiche statunitensi. E probabilmente ci riuscirà grazie al pop dolciastro e patriottico di "Made In America" e alle torride ritmiche di "That's My Bitch" (in cui sgomita una Elly Jackson sempre più vogliosa di conquistare gli States), o con una roboante e sfacciatamente catchy "Why I Love You" (forse il momento che più farà storcere il naso ai puristi) e soprattutto con una pirotecnica "Lift Off", che potrebbe ripetere l'exploit di "All Of The Lights" (stavolta il nome femminile di punta è, un po' prevedibilmente, quello della signora Carter, molto più convincente qui che in tutto il suo ultimo album).
Watch The Throne non rimarrà forse il capolavoro che era lecito aspettarsi, ma è un disco solido e che sa intrattenere; i due artisti riconfermano la loro alchimia e non fanno a gara per rubarsi la luce dei riflettori, anzi, nonostante la mente sonora del progetto sia quella di West (e si sente ogniqualvolta è lui a entrare in scena), è spesso il rap di Jay-Z a dominare l'album e a impostare i pezzi. I due re possono dunque tirare un sospiro di sollievo: non indossano vestiti nuovissimi, ma sono tutt'altro che nudi e, nonostante non sembri più così inarrivabile, il trono rimane ancora ben saldo.

Nel 2012 esce poi l'album compilation Cruel Summer per la G.O.O.D. MUSIC. (Getting Out Our Dreams), l’etichetta fondata nel 2006 dallo stesso West. Ad accompagnarlo è la solita sfilza di amici, da R. Kelly a Jay-Z, fino all’esordiente Big Sean, Ghostface Killah, Common e Dj Khaled, passando tra gli altri per John Legend e Jadakiss.
Cruel Summer è una raccolta che passa quasi in sordina, nata dalla collaborazione di West con gli stessi musicisti della G.O.O.D.. Una sorta di continuum sonoro masturbante e autoreferenziale, con rime e campioni mai realmente pungenti da cui si evince troppe volte l’inconsistenza del flow, a evidenziare la scarsa bontà di una proposta mai come in questo caso atta solo a sponsorizzare la cerchia di amici più vicina a Yeezy. E basta considerare l’effimero ipnotismo della tanto osannata “Mercy”, in combo con il giovane Big Sean, per rendere un’idea più precisa dell’andazzo di questo lavoro.
Ciò nonostante, è lecito aspettarsi ancora tanto dal talentuoso rapper di Atlanta. D’altronde, la musica nera mainstream non è mai stata in così buone mani dai tempi d’oro del Wu-Tang Clan e di Notorious B.I.G..

Una divinità rap

E il "tanto" arriva con l'attesissimo Yeezus, sesto disco di West sulla lunga distanza. West vuole differenziarsi ad ogni costo. E’ in cima all’hip-hop formato mainstream, ma è al contempo la prova più lampante di come si possa scappare a gambe levate dalla banalità dei campionamenti odierni, dal fossilizzarsi cocciutamente su ritmi digeriti da un pezzo da tappeto a flow ormai asettici e privi di mordente. Kanye vuole essere la divinità a cui gli altri rapper possano un giorno ispirarsi in una qualche maniera. La sua è un’ambizione che non conosce tregua, il cui obiettivo rimane stupire e affondare a qualunque prezzo. Dunque via tutto. Via la patina grassa e via le laccature da gradasso. Via anche la copertina. 
Yeezus appare così “grezzo” ed elettricamente eccitato. Lo si capisce fin da subito. L’introduttiva ”On Sight” è cyber-rap sparato a palla, stoppato qua e là da un coro di fanciulli, scarno e penetrante. West è incazzato e gioca a fare il capo tribù che si scaglia contro tutto e tutti (“Black Skinhead”), o a nascondersi nel buio sganciando bordate di synth e urla improvvise, quasi a osannare il proprio immane delirio (“I Am A God”).
Da un lato c’è la voglia sfrenata di soddisfare un egocentrismo sonoro fuori dalla norma. Dall’altro lato è palese la volontà di defilarsi dal porcume del “fu” ghetto mediante trovate per certi versi stranianti e talvolta decisamente efficaci. In tal senso, il pathos creato nella melanconica “Hold My Liquor” con tanto di chitarrone eighties in controluce, la dice lunga sulle consolidate capacità di West nel saper  tirar fuori soluzioni emotivamente sensazionali e ritmicamente imprevedibili.
La produzione dei Daft Punk sulle prime tre tracce poi si fa sentire, ma non troppo. Così come appare un attimino smodata la presenza di cinquanta tra collaboratori e produttori chiamati dal talento di Atlanta per saziare a modo la propria sete di grandezza. Allo stesso tempo, i testi sguazzano tra denunce di razzismo, amori da tenere al caldo e le consuete farneticazioni autoreferenziali che mai come stavolta toccano vertici ai limiti della sostenibilità umana, vedi la stessa “I Am A God” in cui non rinuncia ad esternare provocazioni di tale portata: “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’”. Spunta anche Frank Ocean nella celebrata “New Slaves”, intento a piazzare un sample di una band progressive ungherese dei 70, gli Omega. Si passa dal pericolo di poter annegare nell’alcool (la già citata “Hold My Liquor”) all’allarmistica cavalcata oscura di “Send It Up” con tanto di sirena sullo sfondo e la resurrezione musicale del Cristo come metafora del proprio dominio sulla scena rap contemporanea.
“Bound 2” chiude il disco differenziandosi nettamente dalle atmosfere cupe e tenebrose dell'album, mescolando sample di stampo Motown con l’intento di celebrare l'amore di Yeezy per i suoi padri putativi, ma soprattutto per la sua amata Kim. 

Purtroppo, o per fortuna, Kanye West non conosce alcuna unità di misura. Lui è fatto così. E’ inverosimilmente gradasso ma è anche dannatamente bravo. Prendere o lasciare.

Trascorsi tre anni tra le solite provocazioni (vedi le frasi inopportune su Beck e Bruno Mars, poi ritrattate) e apparizioni più o meno bizzare, il nostro torna a farsi musicalmente vivo nel 2016. Se Yeezus aveva introdotto la nuova incarnazione di West quale (semi)Dio arrogante e sfacciato, il tempo trascorso dopo quel disco ha reso chiaro quanto stressante sia dover mantenere una simile reputazione: un nuovo album da preparare, sfilate di moda a intervalli regolari, tweet deliranti serviti come pane quotidiano, e addirittura un annuncio di corsa alla presidenza Usa nel 2020.

A farne le spese è stata proprio la gestazione del nuovo disco, a dir poco frenetica e caotica. Tra continui cambi di titolo, che vi risparmiamo per pietà, e tracklist mutanti fino al giorno stesso dell’uscita, The Life Of Pablo sintetizza radicalmente la schizofrenia del Kanye West di oggi: un lavoro che si pone non come qualcosa di compiuto, ma come una fotografia hic et nunc dello stato mentale di Mr. West. Quando, qualche tempo fa, aveva proclamato in toni roboanti il nuovo disco come “l’album della vita”, a nessuno era venuto in mente che il significato di tale espressione non fosse metaforico, ma letterale: “Pablo” è, cioè, il disco che meglio di tutti ritrae la vita di Kanye West, per ciò che è stato ed è al presente. Non vi sono maschere o alter ego a far da filtro.
Del resto, l’antinomia tra il West interiore, per certi versi ancorato al ricordo degli affetti e a un bisogno di spiritualità, e il West pubblico, volgare e strafottente, è un contrasto irrisolvibile, quasi fosse una sorta di Dr. Jekyll & Mr. Hyde. E così, se da una parte è capace di confessare i suoi tormenti in una veste intimista, come avviene nello splendido tris “Real Friends”, “FML” e “Wolves”, pregne di nostalgia e fragilità, dall’altra la sua vena esuberante sfocia in imbarazzanti sproloqui nelle spumeggianti “Famous” e “Highlights”. E il buon Kanye si prende anche il gusto di sfottere chi rimpiange il suo stile old-school degli esordi nel geniale divertissment “I Love Kanye”, che con buona dose di ironia lascia intendere il disegno sottostante a questa pseudo-crisi d’identità.
The Life Of Pablo è un minestrone di suoni, un disco in cui si trova tutto e il contrario di tutto. Certo, è confuso: e come potrebbe non esserlo? Basterebbe leggere la lista dei credits, infinita e pubblicata soltanto allo scopo di sfoggiare la monumentale mole di sample, produttori e collaboratori di cui Kanye ha disposto per realizzarlo. Di tutte le possibili “vite di Pablo” questa appare la versione che semplicemente West aveva in testa un paio di settimane fa. Ed è anche questo lo rende un lavoro unico e affascinante nella sua immediatezza.
Non ci resta che certificare che tra vari deliri di onnipotenza, al settimo album Kanye West è ancora in grado di far parlare di sé, e in termini assolutamente positivi, per la cosa che gli riesce meglio. Che volete di più.

Deliri che tuttavia finiscono per "capovolgere" la sua personalità, portandolo verso una nuova coscienza, non per questo meno autolesionista e a suo modo bizzarra. Il rapper più celebrato al mondo, o giù di lì, trascorre parecchi mesi lontano dall’amato star system e da tutto il pattume che mediamente lo circonda, tra festini vari, e uno stile di vita a dir poco forsennato. Dopo il ricovero, l’abbandono dei social, e le foto scottanti che lo ritraevano in condizioni apparentemente pietose, West torna come un fulmine a ciel sereno. E basta un tweet celebrativo di Trump a rimetterlo su tutte le pagine. Una sinergia con il Tycoon che ovviamente fa discutere, parimenti non meraviglia chi lo conosce e segue dagli esordi. Già, perché Kanye è fatto così: adora provocare, tirare fuori affermazioni ascoltando esclusivamente la propria pancia, e un po’ meno la testa; è dannatamente impulsivo, talvolta scorretto, ma è uno di quelli che non finge mai una presunta cordialità, e soprattutto non rinuncia alla propria autenticità, al maledetto pensiero del momento, al di là degli effetti collaterali, delle risatine dei tantissimi altri big solitamente imbevuti fino al midollo di politically correct e sostegni smodati al candidato democratico di turno.

West decide così di rifugiarsi nel Wyoming. E tra le montagne dello stato più dimenticato degli States, il Nostro assembla pensieri sparsi come impulsi irregolari nella sua testolina, tirando così fuori un nuovo album in studio decisamente autobiografico, spiazzante fin dalla scelta del titolo, Ye, con tanto di foto ricordo dei monti innevati che lo hanno accolto. Uno scenario dunque surreale per l’osannato rapper, quanto di più distante dai tumulti spumeggianti con i quali è abituato a convivere, e che lo ha praticamente rivitalizzato, portandolo ad una continua riflessione sul proprio io, e sul bipolarismo decantato a chiare elttere in copertina. Una condizione quindi di estrema solitudine, smentita però dal super party privato organizzato in occasione della presentazione lampo del disco. Tuttavia, Kanye mette sul piatto una serie di digressioni sulla propria esistenza, sul rapporto con la moglie, tirando in ballo preoccupazioni paterne in fin dei conti comprensibili se esternate da una persona comune, ma spiazzanti nel momento in cui le sostiene uno degli uomini più ricchi dell’industria discografica mondiale, abituato da diversi lustri a destreggiarsi tra culi, tette e giovani modelle.

L’obiettivo primario di West, formulato mediante i testi dei sette brani presenti nell’album, è quello di riconciliarsi con se stesso, e abbandonare una volta per tutte i cattivi pensieri, quelli che lo hanno portato a pensare al suicidio più volte. Una preoccupazione e un sentimento che traspaiono nell’introduttiva "I Thought About Killing You", brano che espone i propri intenti in un dialogo surreale, che si amplia e diventa autodenuncia nella successiva “Yikes”, a sollevare un improvviso disagio dinanzi alle droghe, con tanto di invettiva contro la dipendenza, l'intossicazione da allucinogeni e oppioidi che induce a essere scontrosi con tutto e tutti. Il gancio melodico è di quelli che restano, e l’impatto è di quelli che stendono. Siamo dinanzi al West dei bei tempi: schietto, schizofrenico ma non troppo, conciso e dritto al sodo come mai nelle recenti uscite; a impreziosire il tutto è un beat asciutto con sample dalla magnifica “Kothbiro” dei kenioti Black Savage: una chicca pescata con il lanternino, a evidenziare l’acume che lo caratterizza da sempre. Ben altra tematica è quella affrontata in “All Mine”, con il “dramma” della fedeltà a fungere da volano a impulsi talvolta incontrollabili, e metaforizzati da un passo sfibrato, scarno e gigione quanto basta per aizzare gli ospiti di turno: Ty Dolla $ign e Ant Clemons.

 

Ritroviamo il primo anche in "Wouldn't Leave", stavolta in compagnia di Jeremih e del canadese PARTYNEXTDOOR. Un pezzo dedicato alla moglie Kim, con West nelle vesti dell’amante pentito, reo di aver lasciato dichiarazioni pubbliche pesanti e inopportune circa il loro legame. E’ una ballata neo soul melanconica, dal piglio gospel e ispirata dal folk intimista dell’amico Vernon.  I vari sample di “Hey Young World” di Slick Rick e di “Children Get Together” del collettivo The Edwin Hawkins Singers proseguono il contatto tra West e la sua parte spirituale, e che vede la presenza di Kid Cudi e Charlie Wilson, due amici con cui Kanye ha collaborato in diverse occasioni. L'intro preso di peso da "Someday" di Shirley Ann Lee ("Some day, some day / Some day I'll, I wanna wear a starry crown") è il leit motiv della seguente "Ghost Town", in cui ritorna un certo ottimismo corale, stoppato nel refrain centrale cantato in modo del tutto scazzato da Cudi, ad anticipare la morbida e paternale “Violent Crimes”; Kanye si scopre padre premuroso e finanche bigotto (“Until you have a daughter, that’s what I call karma / And you pray to god she don’t grow breasts too soon”), e spinge questa sua ingenua preoccupazione su poche note all’organo, e che delineano un climax da predicatore soul decisamente fuori tempo massimo. Ye si presenta quindi come un’opera repentina, frettolosa eppure con alcuni momenti esaltanti. Non è di certo il Kanye totalizzante e meticoloso del passato. E la produzione quasi “lo-fi” lo conferma. Ma è un West che riesce ad essere viscerale, sincero e “bastardo” nonostante tutto. Prendere o lasciare. 

Durante il suo catartico ritiro nel Wyoming, Kanye West non si occupa soltanto della realizzazione del suo breve ma tutto sommato soddisfacente Ye. Si dedica anche alla produzione degli album di alcuni colleghi: l’acclamato Daytona per il litigioso (e attuale direttore della sua GOOD Music) Pusha T, il controverso Nasir per il peso massimo del rap Nas e il secondo album della modella, attrice e cantante Teyana Taylor, intitolato K.T.S.E. Tutti dischi accomunati dal presentare in scaletta soltanto sette pezzi.

 
Il regalo più grande però West lo fa a sé stesso e soprattutto a un suo amico e collaboratore di vecchia data, il menestrello dell’hip-hop Kid Cudi. Sono passati quasi dieci anni dal suo acclamato album di debutto, quel Man On The Moon: The End Of The Day ricco di psichedelia, attitudine folk e memorabili ritornelli pop che sembrava dovesse lanciarlo quale nome più promettente del decennio in corso ma che purtroppo non ha mai avuto un seguito all’altezza delle aspettative. Colpa dell’agguerrita concorrenza (Drake in primis) ma anche di un prolifico talento non correttamente indirizzato e che si è via via diluito in uscite disordinate e non sempre ispirate. Depressione e dipendenza da droghe hanno poi completato il canavaccio di una storia che sembrava non contemplare un lieto fine, nonostante l’ultimo Passion, Pain & Demon Slayin' lasciasse intravedere un timido ma fiero colpo di coda. La mano tesa di Kanye West arriva insomma proprio nel momento in cui entrambi necessitano di una rinascita umana prima ancora che artistica. Dimenticati alcuni recenti attriti, l’album/progetto a quattro mani che ne scaturisce, intitolato Kids See Ghosts è quindi un’autocelebrazione di chi è riuscito a superare critiche e difficoltà, a ritrovare la fiducia in sé stesso e a concentrarsi sui sentimenti che contano davvero anche quando là fuori i fucili sono puntati contro (le sarcastiche mitragliate dell’invettiva d’apertura “Feel The Love”).

E’ una vera resurrezione musicale per entrambi, con l’uomo chiamato Cudi che finalmente si riposiziona sulla luna durante la riconciliante “Reborn”, ormai capace di convivere coi fantasmi del passato (quelli della spettrale e narcotizzante title-track) e di non dissipare inutilmente le sue energie (i pezzi in scaletta sono ovviamente sette). D’altro canto, proprio grazie all’inclinazione folk di Cudi e alla sua cadenza perennemente scazzata, quelle atmosfere low-fi che per molti hanno intaccato la qualità degli ultimi due lavori di West, finendo per donar loro quel non so che di raffazzonato, trovano finalmente in Kids See Ghosts la giusta collocazione e funzionalità, esaltando le canzoni e non facendole sembrare incompiute. Ed è così che Kanye ritrova il sacro fuoco di “Jesus Walks” in “Fire” e “4th Dimesion”, intrise di tradizione e umori gospel. Incurante delle dinamiche trap che dominano la scena attuale, anticonvenzionale e di rottura al limite del desueto, Kids See Ghosts è quanto di più grunge si possa immaginare negli anni '10 e non soltanto per via delle cadenze rock di “Freeee (Ghost Town Pt. 2)” e della chitarra di Kurt Cobain campionata nell’allucinata “Cudi Montage”.  A differenza della vecchia collaborazione con Jay Z in Watch The Throne, Kanye West non prende alcuna precauzione con Kid Cudi ed è per questo che, almeno stavolta, 1+1=3.

Sui deliri di onnipotenza di West è stato scritto di tutto, e continuarne a discutere nel 2019 appare quantomeno riduttivo, a dirla tutta anche dannatamente inutile. Già, perché il rapper chicagoiano, per quanto possa continuare a risultare simpatico nella sua evidente “follia”, ha ormai fracassato i benemeriti maroni con le sue uscite da strapazzo e le sue dichiarazioni fuorvianti, recentemente di natura anche politica. In questo tran tran di masturbazioni mentali, proclamarsi il più grande di tutti non crea nemmeno più scalpore, soprattutto per chi segue West fin dai primissimi vagiti. Insomma, la faccenda inizia a puzzare parecchio e di analisi sulle stravaganze del Nostro non si avverte assolutamente il bisogno. L’artista, il musicista, il rapper, il messia – fate un po’ voi – è tornato con un disco, intitolato Jesus Is King, annunciato tra il consueto tira e molla, rilasciandolo per giunta senza una degna copertina, un po’ come accadde per Yeezus, praticamente l’antesignano cyber di questa sua nuova produzione, che fin dal titolo punta a suggellare un amplesso spirituale tra West e Dio.
In un’intervista rilasciata alla Apple, infatti, il rapper più discusso del pianeta dichiara ciò che giace a monte di queste undici tracce: “Adesso che sono a servizio di Gesù, la mia missione adesso è diffondere il vangelo. Per questo voglio far sapere a tutti quello che Gesù ha fatto per me. In passato ho diffuso tanti messaggi. Vi ho fatto sapere cosa l’importanza che aveva per me la moda, ma adesso, invece, voglio farvi sapere che non sono più uno schiavo, sono un figlio di Dio adesso e sono libero”.
Al netto di queste mirabolanti esternazioni, la musica contenuta in questo suo nono disco strizza l’occhio al gospel fin dal primo istante, e non è un caso che sia proprio il coro del Sunday Service, celebrato da Kanye durante un corso a Calabasas, in California, il 6 gennaio 2019, ad aprire le danze. Una celere introduzione con motivetto classico in stile gospel per mettere le cose in chiaro fin dal primo momento, e palesare al mondo quanto sia importante Dio in ogni istante della vita quotidiana. E' un’istantanea senza la voce del rapper, con piano accelerato, che mostra sostanzialmente la nuova immagine di West, trasformatosi in una versione rap di Deloris Van, la suora un po' svitata interpretata da Whoopi Goldberg nella pellicola del 1992 di Emile Ardolino, "Sister Act". Ebbene, se dovessimo inquadrare il nuovo idioma di Kanye West, bisognerebbe scomodare i culti religiosi delle comunità afroamericane e intenderlo come una sorta di pastore improvvisato sulla via di Damasco, o per essere più espliciti sulla via della sua enorme villa di Hidden Hills. A conti fatti, il suo avvicinamento alla religione, inaugurato appunto a inizio anno con il Sunday Service, conta relativamente, e nelle trame del disco l’aura da predicatore è solo un mezzo per piazzare, ad esempio, un “Alleluia!” nella successiva “Selah”, con tanto di organetto da tappeto tra un’imprecazione spirituale e l’altra, e sample del The New Jerusalem Baptist Church Choir. Insomma, un polpettone gospel con il rapper in preda alla sua ennesima crisi mistica. Una transizione inaugurata nel precedente Ye, album messo in piedi dopo il celebre ricovero in ospedale, l’abbandono dei social e le foto scottanti che lo ritraevano in condizioni apparentemente pietose.
Si prosegue abbastanza spediti all’insegna di una mescola rap-gospel obiettivamente poco incalzante, con nuovo sample di "Can You Lose by Following God" dei Whole Truth, in attacco e in loop nel passo di "Follow God". West insegue il suo Dio, e quando c’è da abbassare i toni e piegarsi alla volontà divina, magari mediante una ballata acustica (inserendo anche qui l’immancabile sample, stavolta da “Martín Fierro” del Grupo Vocal Argentino con Chango Farías Gómez), le cose sembrano funzionare meglio. Il supporto del cantante - guarda caso ancora una volta di stampo gospel - Fred Hammond, in “Hands On”, con la produzione di Timbaland e Angel López, espone l’ennesima ballad morbida con West a inondare nuove sensazioni spirituali, con quella vibrazione/deformazione canora che tanto ricorda la ricetta soul-step di James Blake, ovviamente condita dalla discesa dello spirito santo sulla terra, per l'esattezza sulla testa del buon Kanye.
Il tempo scandito dal metronomo di “Use The Gospel” offre un ulteriore sunto pastorale del rapper, stavolta accompagnato del gruppo rap Clipse, un ex duo composto da Pusha T e No Malice, intento a chiedere perdono a Dio e a mostrare gratitudine per le sue benedizioni. Traccia esaltante, a dirla tutta la meglio calibrata del lotto, con solo sax a mezza via e refrain avvincente. L’epica e brevissima chiosa di “Jesus Is Lord” a suon di tromba, e campione a metà strada di “Un Homme Dans La Nuit” di Claude Léveillée, pone fina a un cenacolo che, per quanto esaltato, mostra un Kanye West a tratti eccessivamente pomposo e afflitto da un richiamo spirituale posticcio.

Purtroppo, non si sa quanto durerà questa sua (con)versione clericale. D’altronde, Kanye West non potrà mai essere un pastore qualunque. E al prossimo giro potrebbe anche scatenare l’inferno. Una speranza tanto blasfema, quanto a tratti musicalmente necessaria.

E infatti, tra rimandi, post immediatamente cancellati, anticipazioni sommarie, presentazioni improvvise e performance in streaming da record - di cui l’ultima, a Chicago, da oltre un miliardo di interazioni - mancava, evidentemente, qualcosa di veramente scioccante. E così, pochi istanti dopo il lancio ufficiale del decimo album in carriera da parte della Universal dell’agognato decimo disco, West fa sapere al mondo che tutto è stato tirato fuori “senza il suo permesso”. Marketing a orologeria? L’ennesima trovata scenica? La miliardesima polemica contro tutto e tutti? Chissenefrega. Una cosa, però, è certa: Donda nasce, come da previsione, tra le fiamme. Un fuoco che, smaltita la sbornia inziale del lancio esplosivo con annessa bomba social sul finale, è innanzitutto interiore. Il rapper di Atlanta mette al centro dell’universo la madre Donda, scomparsa nel 2007, e il resto della sua famiglia. Non c’è spazio per nessun altro. O quasi. Il suo orizzonte tematico è circoscritto in un flusso di coscienza che interseca passato e presente in ben 27 momenti per quasi due ore di musica (per l’esattezza 1 ora e 48 minuti). Per l’occasione, Kanye ha addirittura ricostruito la casa d’infanzia al Soldier Fields Stadium di Chicago, “ricelebrato” il suo matrimonio, esorcizzando il fallimento avvolto dalle fiamme e con la presenza di una sposa misteriosa vestita da un abito haute couture.


L’avvio è emblematico, esplicativo di un dolore già chiaro fin dalla copertina e con il quale il musicista mira a nutrirsi per tutta la durata dell’album, nel nobile intento di mandare in soffitta i turbamenti del divorzio con Kim Kardashian - alla quale sono dedicati implicitamente molti versi - e liberarsi così definitivamente da ogni peso. L’open track, "Donda Chant", è il nome di battesimo di suo madre. Donda viene ripetuto per 52 secondi da Syleena Johnson in diverse cadenze. Una litania che anticipa la lunghissima liturgia alle porte. Ma soprattutto un cerimoniale che non bada a spese, soluzioni estemporanee e ospitate di turno. La lista, d’altronde, è da consuetudine “nuziale”. Non manca quasi nessuno. Spuntano e ricompaiono, tra gli altri, Jay ZTravis Scott, The Weeknd, Vory, Playboi Carti, Lil Baby, Kid CudiFrancis and the Lights, Pop Smoke, e i “discussi” DaBaby & Marilyn Manson presenti in “Jail 2”, traccia rimasta in ballo fino all’ultimo, essendo il primo accusato di abusi sessuali e il secondo ancora nella bufera per frasi omofobe lanciate al festival Rolling Loud di Miami.

“Jail” con Jay Z e Francis and the Lights pone la faccenda in chiaro all’istante. Kanye ricorda la crisi coniugale con parole di rinascita e una melodia epica quanto basta per essere definita alla stregua di una “Heroes” alla sua maniera. La prima parte dell’opera scorre via proprio così, tra saliscendi killer, beat spaziali che cozzano tra imprecazioni, preghiere, e cori gosple. E’ ciò che accade nella successiva “God Breathead”, accesa da un campione di “Belle Head (Live)” dei Liquid Liquid. Non a caso che si stata rubata dal cassetto di “JESUS IS KING”.

Donda rispecchia comunque l’umore del suo precedente, ma la vocazione religiosa ora è perlopiù un’espediente necessario per calibrare nuove soluzioni, infarcire un disagio, nutrire una perdita. Donarsi a Dio resta, quindi, un onesto escamotage narrativo. L’esaltazione evangelica, in buona parte della prima metà del piatto, è a suo modo contratta. West rincorre una liberazione totalizzante. Chiede, ansima, volteggia. Insomma fa di tutto per pulirsi la coscienza, girare su se stesso e provare a rigare dritto e imbattersi finalmente verso un nuovo cammino.

La luce in fondo al tunnel riappare invece in “Believe What I Say”, traccia dal basso birichino e dalla tastiera caldissima che non sfigurerebbe in un disco di Thundercat, con il sample rotante di “Doo Wop (That Thing)” di Lauryn Hill a impreziosire. La corale “24” espone, in netta contrapposizione, i prima vagiti della rotta cristiana intrapresa in coda, mentre “Moon” affievolisce gli animi in terzetto con Kid Cudi e Don Toliver. In “Heaven And Hell” West è solo. E non potrebbe essere altrimenti. Superbo, ancora una volta, il cambio ritmico sulla seconda strofa. Tra una confessione e uno sputo in faccia ai demoni del passato, si arriva all’epocale “Jesus”. L’apporto in cabina di regia di Jay Electronica è fondamentale e spinge Ye in alto. Il crescendo è stabilmente celestiale. Stesso dicasi della seconda versione da 11 minuti piazzata in fondo come un mantra purificatore. Tanto vale anche per la discussa “Jail 2”, variante rock della prima.


Potremmo girarci intorno e più banalmente sollevare dubbi sulla necessità di una durata simile. Potremmo, magari, storcere il naso per la presenza di qualche riempitivo. Ma Donda è l’album più intimo, compatto e animato dai tempi di My Beautiful Dark Twisted Fantasy. Estimatori accaniti di Life Of Pablo permettendo. L’altra versione di uno spirito in fiamme. Checché se ne dica in giro delle sue sparate, West rimane l’asso di sempre. E questa è molto di più di una buona notizia. Nell'attesa della prossima fuga dal suo iperuranio.

Dopo aver piazzato goffemente il cui secondo capitolo di Donda, che resta una nemesi mal riuscita del primo, sulla piattaforma Stem Player, il rapper americano torna con un album a dir poco discutibile insieme al suo nuovo amico, Ty Dolla $ign: Vultures 1. E' il primo capitolo di una trilogia che West mette in piedi per dar sfogo a tutti i suoi slanci emotivi. Bisogna però fare subito i conti con i testi di un album misogino, razzista e fuori controllo. Insomma, Kanye a questo suo nuovo giro la fa fuori dal vaso parecchie volte, e a più riprese sputa sentenze vergognose o apparecchia offese da circolo nazifascista. Il trend intrapreso ormai da tempo, del resto, è quello di un esagitato cantore di politiche discutibili in parte vicine agli sciamani di Capitol Hill, altrove nostalgiche, a cominciare dal look, di quella cosa chiamata Ku Klux Klan. Sì, avete letto bene: quella che Tarantino irride con classe in uno dei momenti più divertenti di “Django Unchained”. Ma se le mogli incapaci di cucire un cappuccio nella memorabile scenetta del film restano nell’ombra delle mura domestiche, la nuova musa di West, Bianca Censori, spunta di spalle in copertina con il suo di dietro appena velato, ed è da diverso tempo ormai una sorta di feticcio erotico da esibire senza fronzoli ovunque, tra pompini veneziani e scatti da Penthouse.

Dunque West, per quanto provi a prendersi sul serio, finisce spesso per smarrirsi dentro i suoi stessi controsensi. Sono i paradossi di un musicista in delirio da una vita, quantomeno da una decina d’anni. Follie che però cozzano con la qualità delle partiture. Lo scollamento tra racconto e musica è, piaccia o meno, parte integrante di questo primo capitolo della trilogia “Vultures”.

Al netto quindi della merda fascista che delinea in tante occasioni i versi dell’album, come da unico esempio esplicativo “I just fucked a Jewish bitch”, uno dei tanti passaggi osceni della title-track, West si smarca dalle sonorità graffianti di album come Yeezus, e anche dall’epica famigliare che bordeggiava l’ottimo Donda, il cui secondo capitolo resta una nemesi mal riuscita del primo sulla piattaforma Stem Player creata dallo stesso rapper americano. E questa è già una prima “buona” notizia in uno scenario caratterizzato perlopiù da uscite oscene. Basta infatti ascoltare il passo incalzante dell’”ottima” “Paid” per ritrovarsi al cospetto di un West musicalmente meno artefatto. Non a caso i sample dell’album si contano sulle dita. Da segnalare giusto il non accreditato campione tratto da “BACKROOMS” di Playboi Carti feat. Travis Scott nella cavalcata corale di “Carnival”, in cui addirittura salta fuori il coro cantato dagli ultras della Curva Nord dell'Inter, ossia un "oooh" messo in loop per tutto il tempo da West, tra una nuova offesa e l’altra, come quella rifilata a Taylor Swift: “I mean since Taylor Swift, since I had the Rollie on the wrist. I'm the new Jesus, bitch, I turn water to Cris'”.

 

Ben impostato sul piano ritmico anche il fraseggio metrico tra West e Ty Dolla in “Back To Me”, con Freddie Gibbs e le sue teorie sessuali a fare da “incomodi”. Mentre un pezzo come “Hoodrat”, in cui la mano pesante di Tyrone William Griffin, Jr. si fa sentire e ci dice che West in “Vultures 1” sia incredibilmente l’anello debole, non meriterebbe di stare dentro un disco così divisivo e in ugual misura musicalmente sbilanciato. Ciò che poi fa veramente ridere per non piangere è che West spesso si scaglia contro la sua stessa comunità e lo fa come se fosse un proprietario terriero del Tennessee nella prima metà dell’Ottocento.
Per quanto concerne ancora una volta la musica, non mancano molti passaggi a vuoto come l’orientaleggiante “Do It”, l’irrisolta “Paperwork”, traccia a tratti quasi fastidiosa per il frastuono industriale messo da intermezzo, e l’insignificante “Beg Forgiveness”. Di tutt’altra “pasta” è invece “Burn”, in cui salta all’orecchio una melodia soul posta da contraltare al racconto personale di West che per l’occasione tira fuori il diario dal cassetto per mandarle a dire alla sua celebre ex e ai vecchi impresari.  

West eleva al massimo grado il suo delirio di onnipotenza. Il dramma però è che la base rotta funziona. E allora non si può che salutare questo primo appuntamento della trilogia firmata dal duo ¥$ con un sentimento ibrido: repulsione totale per i contenuti e allo stesso tempo grande rammarico per le musiche che sono a volte riuscite nonostante tutto. Va inoltre detto che in Vultures 1 manca un istant classic, ovvero uno di quei ganci melodici che in passato hanno reso West il Re che purtroppo (per lui) ancora crede di essere.  



*Contributi essenziali di Pier Eugenio Torri ("Late Registration", "Graduation"), Ciro Frattini ("808s & Heartbreak") e Stefano Fiori ("My Beautiful Dark Twisted Fantasy", "Watch The Throne", "Kids See Ghosts"), Gioiele Sforza ("The Life Of Pablo")

Kanye West

Discografia

KANYE WEST
The College Dropout(Roc-A-Fella, 2004)

Late Registration(Roc-A-Fella, 2005)

Graduation(Roc-A-Fella, 2007)

808s & Heartbreak (Roc-A-Fella, 2008)

My Beautiful Dark Twisted Fantasy(Roc-A-Fella, 2010)

Yeezus (Def Jam, 2013)

The Life Of Pablo (GOOD Music, 2016)

Ye (Def Jam, 2018)

Jesus Is King (Def Jam, 2019)
Donda(Getting Out Our Dreams, Def Jam, 2021)
KANYE WEST & TY DOLLA SIGN
Vultures 1 (YZY, 2024)
KANYE WEST & JAY Z
Watch The Throne (Roc-A-Fella, 2011)

KANYE WEST & MALIK YUSEF
G.O.O.D. Morning, G.O.O.D. Night (GOOD, 2009)

KIDS SEE GHOSTS
Kids See Ghosts (GOOD/Def Jam, 2018)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Through The Wire
(videoclip da The College Dropout, 2004)
Jesus Walks
(videoclip da The College Dropout, 2004)
Stronger
(videoclip, da Graduation, 2007)
Love Lockdown
(videoclip, da 808's & Heartbreak, 2008)
Runaway
(videoclip, da My Beautiful Dark Twisted Fantasy, 2010)
Niggas In Paris
(videoclip, da Watch The Throne, 2011)
New Slaves
(videoclip, singolo, 2013)

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