Sui deliri di onnipotenza di Kanye West è stato scritto di tutto, e tirarli in ballo nel 2019 appare quantomeno riduttivo. Già, perché il rapper chicagoiano, per quanto possa continuare a risultare simpatico nella sua “ingenua follia”, ha ormai fracassato i benemeriti maroni con le sue uscite da strapazzo e le sue dichiarazioni fuorvianti, recentemente di natura anche politica. In questo tran tran di masturbazioni mentali, proclamarsi il più grande di tutti non crea nemmeno più scalpore, soprattutto per chi segue West fin dai primissimi vagiti. Insomma, la faccenda inizia a puzzare parecchio e di analisi sulle stravaganze del Nostro non si avverte assolutamente il bisogno.
E così, l’artista, il musicista, il rapper, il messia – fate un po’ voi – è tornato con un disco annunciato tra il consueto tira e molla, rilasciandolo per giunta senza una degna copertina, un po’ come accadde per “Yeezus”, praticamente l’antesignano cyber di questa sua nuova produzione, che fin dal titolo, "Jesus Is King", punta a suggellare un amplesso definitivo con Dio. In un’intervista rilasciata alla Apple, infatti, il rapper più discusso del pianeta dichiara praticamente ciò che giace a monte di queste undici tracce: “Adesso che sono a servizio di Gesù, la mia missione è diffondere il vangelo. Per questo voglio far sapere a tutti quello che Gesù ha fatto per me. In passato ho diffuso tanti messaggi. Vi ho fatto sapere l’importanza che aveva per me la moda, adesso, invece, voglio farvi sapere che non sono più uno schiavo, sono un figlio di Dio e sono libero”.
Al netto di queste mirabolanti esternazioni, la musica contenuta in questo suo nono disco strizza l’occhio al gospel fin dal primo istante, e non è un caso che sia proprio il coro del Sunday Service, celebrato da Kanye durante un corso a Calabasas, in California, il 6 gennaio 2019, ad aprire le danze. Una celere introduzione con motivetto classico in stile gospel per mettere le cose in chiaro fin dal primo momento e palesare al mondo quanto sia importante Dio in ogni istante della vita quotidiana. E' un’istantanea senza la voce del rapper, con piano accelerato, che mostra sostanzialmente la nuova immagine di West, trasformatosi in una versione rap di Deloris Van, la suora un po' svitata interpretata da Whoopi Goldberg nella pellicola del 1992 di Emile Ardolino, "Sister Act".
Ebbene, se dovessimo inquadrare il nuovo idioma di Kanye West, bisognerebbe scomodare i culti religiosi delle comunità afroamericane e intenderlo come una sorta di pastore improvvisato sulla via di Damasco, o per essere più espliciti sulla via della sua enorme villa di Hidden Hills. A conti fatti, il suo avvicinamento alla religione, inaugurato appunto a inizio anno con il Sunday Service, conta relativamente, e nelle trame del disco l’aura da predicatore è solo un mezzo per piazzare, ad esempio, un “Alleluia!” nella successiva “Selah”, con tanto di organetto da tappeto tra un’imprecazione spirituale e l’altra, e sample del The New Jerusalem Baptist Church Choir.
Insomma, un polpettone gospel con il rapper in preda alla sua ennesima crisi mistica. Una transizione inaugurata nel precedente “Ye”, messo in piedi dopo il celebre ricovero in ospedale, l’abbandono dei social e le foto scottanti che lo ritraevano in condizioni apparentemente pietose.
Si prosegue abbastanza spediti all’insegna di una mescola rap-gospel obiettivamente poco incalzante, con nuovo sample di "Can You Lose by Following God" dei Whole Truth, in attacco e in loop nel passo di "Follow God". West insegue il suo Dio, e quando c’è da abbassare i toni e piegarsi alla volontà divina, magari mediante una ballata acustica (inserendo anche qui l’immancabile sample, stavolta da “Martín Fierro” del Grupo Vocal Argentino con Chango Farías Gómez), le cose sembrano funzionare meglio. Si torna su piani più elettrici nel giro daftpunkiano di “On God”, e viceversa dal Signore, con andazzo trap alternato alle “illuminazioni” di turno, per l’occasione assieme ad Ant Clemons e Ty Dolla $ign, in “Water”, con il coro a sostegno, mentre si sollevano a mo' di litania preghiere assortite:
Jesus, flow through us
Jesus, heal the bruises
Jesus, clean the music
Jesus, please use us
Jesus, please help
Jesus, please heal
Jesus, please forgive
Jesus, please reveal
L’andatura smooth è assolutamente riuscita e introduce al meglio le seguenti alzate gospel di “God Is”, con ripescaggio dell’omonimo brano “God Is” del Reverendo James Cleveland accompagnato dal The Southern California Community Choir. Il supporto del cantante - guarda caso ancora una volta di stampo gospel - Fred Hammond, in “Hands On”, con la produzione di Timbaland e Angel López, espone l’ennesima ballad morbida con West rapito da nuove sensazioni spirituali e un mood canoro che ricorda la ricetta soul-step di James Blake, ovviamente condita dalla discesa dello spirito santo sulla terra, e soprattutto sulla testa del buon Kanye.
Il tempo scandito dal metronomo di “Use The Gospel” offre un ulteriore sunto pastorale, con il "predicatore" accompagnato del gruppo rap Clipse, un ex-duo composto da Pusha T e No Malice, intento a chiedere perdono a Dio e a mostrare gratitudine per le sue benedizioni. Una traccia esaltante, a dirla tutta la meglio calibrata del lotto, con solo sax a mezza via e refrain avvincente. L’epica e brevissima chiosa di “Jesus Is Lord” a suon di tromba, e campione a metà strada di “Un Homme Dans La Nuit” di Claude Léveillée, pone fine al cenacolo. Un cerimoniale spesso pomposo, sorretto da un richiamo spirituale posticcio.
Purtroppo, non si sa quanto durerà questa sua (con)versione clericale. D’altronde, Kanye West non potrà mai essere un pastore qualunque. E al prossimo giro potrebbe tranquillamente cambiare pelle e scatenare l’inferno. Una speranza tanto blasfema, quanto per alcuni aspetti musicalmente necessaria.
30/10/2019