James Blake

James Blake - Il battito del silenzio

L'evoluzione artistica del giovane electro-writer inglese prende vita alle lezioni di musica popolare ricevute alla Goldsmiths University di Londra verso la fine degli anni Zero, passando alla breve ma intensa carriera da dj nei club più in voga della capitale inglese, fino ad arrivare all'odierno cantautorato elettronico battezzato come "soul-step". Un percorso sonoro irto di intriganti commistioni dubstep miste a lunghi silenzi e umori vocali prossimi alla musica "soul" moderna

di Giuliano Delli Paoli

Siamo verso la fine del decennio Zero e James Blake è un ragazzino di appena vent’anni a cui piace piazzare musica nelle infuocate serate del Mass Club o dell’ancor più osannato FWD di Londra. La metropoli inglese è la solita fucina di talenti, ma il timido giovanotto sembra non avere alcun interesse in produzioni ex novo. E’ giovane, giovanissimo, e far muovere i fianchi ai suoi coetanei pare al momento l'unico vero scopo. Conclusi gli studi di musica popolare alla Goldsmiths University di Londra, Blake divide il suo tempo tra i club, i negozi di dischi e la propria stanzetta, luogo ideale in cui assecondare le prime tentazioni produttive senza subire il peso di un qualche giudizio. Svincolatosi dunque dall’ambiente esterno, il piccolo e introverso dj londinese prova lentamente a sovrapporre sezioni ritmiche alla propria voce. Essere poi il figlio di James Litherland, chitarrista dei mitici Bandit e solista dal timbro a dir poco delicato ma purtroppo mai pienamente compreso nell’unico album “4th Estate”, è una piccola benedizione.

Blake sembra voler rimodellare proprio l’intimità e il nichilismo espressivo del padre, elaborando i suoi costrutti avvalendosi di un’elettronica scheletrica, a tratti criptica e perforante. E' dunque un’ugola caldissima a rimbalzare fin dalle prime prove tra le quattro mura della propria stanza. L’effetto è subito di quelli strabilianti. Blake mescola ritmi prossimi alla neonata musica dubstep e umori vocali intimamente soul. A un primissimo impatto, pare di ascoltare un improbabile incrocio tra Antony Hegarty e il William Bevan più isolazionista. Lo spazio tra le singole note della sua tastiera assume poi un peso formidabile. C’è un piccolo vuoto cosmico a cui Blake tende in ogni sua piccola composizione. Il silenzio diventa l’elemento imprescindibile a cui puntare con una certa frequenza, mentre le pause tra un sospiro e l’altro si allungano e le parole tendono timidamente a sovrapporsi l’una con l’altra.

220270blake_01Arriva il 2009 e gli amici XX danno vita a uno degli esordi più delicati e introversi nel panorama "pop" indipendente. Blake segue passo per passo la produzione del disco, e resta folgorato dall'impalpabilità intrinseca dei sample gestiti da Jamie Smith a tal punto da rettificare di sana pianta le prime bozze del proprio operato, deviando di scatto verso un'inaspettata essenzialità ritmica. Così, lo sfondo dubstep diventa solo una maschera. Mentre la sostanza pare suggerire un minimalismo elettronico garbato, caratterizzato da inserti percussivi sbilenchi solo in apparenza e intriganti commistioni piano/beat. La Hemlock Recordings di Jack Dunning, aka Untold, è la prima etichetta ad accorgersi delle potenzialità del giovante talento inglese. Vengono prodotti quasi all’istante i primi due singoli “Air & Lack Thereof” e “Sparing the Horses”, tracce perlopiù strumentali che evidenziano quella che sarà l’ossatura ritmica dell’imminente mutazione elettro-cantautorale. La prima delle due diventa, tra l’altro, un appuntamento fisso negli spettacoli dal vivo dei Mount Kimbie. Mentre lo storico disk jockey Gilles Peterson le fa girare di continuo sulle frequenze della BBC, esaltandosi ad ogni passaggio e invitando lo stesso Blake come ospite del suo programma. Sono le prime fasi di una carriera artistica pronta ad esplodere. Da questo preciso momento in poi il ragazzo comincia a sfornare senza concedersi sosta alcuna Ep e remix di artisti di vario genere (Mount Kimbie, Untold, Scuba, Blawan). E lo fa a proprio nome o con il moniker di Harmonimix.

E’ il 2010, e il successivo Ep The Bells Sketch porta ancora i segni di un’acerbità produttiva che fa comunque ben sperare per l’imminente futuro. Blake giochicchia con timbriche e sovraincisioni vocali in linea Hyperdub, perfezionando il proprio tocco ai controlli pezzo dopo pezzo. Ma al giovante talento piace anche esplorare nuovi percorsi, come dimostra il progetto parallelo con l'amico Rob McAndrews, aka Airhead, mediante due tracce edite per la Brainmath:  il two-step futuristico di "Pekombre" e lo stratch pseudo black di "Lock In The Lion". Le prove generali continuano nei quattro movimenti di CMYK, con brevi momenti vagamente wonky (“I’ll Stay”) e minimal-beats in scia garage (“Postpone”). La faccenda comincia a delinearsi solo nel successivo Ep Klavierwerke, in cui le scorribande al piano tendono a mescolarsi al meglio con il ritmo, ancora una volta posto a metà strada tra quella cosa chiamata future-garage e la dubstep più grezza. Mentre lo stop&go zigzagato della conclusiva “Don't You Think I Do”, così come l’excursus ritmico di “I Only Know (What I Know Now)” alternato ai consueti inserti angelici appena abbozzati, sembrano suggerire ciò che caratterizzerà lo stile del nostro di lì a poco. Non a caso, giunge quasi inaspettata “Limit to Your Love”, sublime cover di uno dei pezzi più ispirati di Feist. Per la prima volta Blake sprigiona tutto il suo calore vocale, cade nel vuoto e si rialza mediante un basso ossuto e cavernoso. Mentre il ritornello è solo sfiorato nella parte centrale. E’ un piccolo grande successo che apre al nostro l’ingresso principale del circuito internazionale. I tempi dell’esordio sono quindi definitivamente maturi. E' giunto il momento di rischiare i propri due cents.

Spunta così il primo omonimo Lp, con l'estetica a porre i primi indizi sul contenuto attraverso un'istantanea appena sfocata posta in copertina, a immortalare il viso di James che pare vibrare su se stesso, quasi a scrollarsi di dosso il peso di un'emozione, una leggera e tremante pulsazione che reca al tempo stesso ansia ed eccitazione. Un'immagine che interpreta ad hoc le sensazioni tramutate successivamente in musica. Blake aggiunge fin da subito pochi ingredienti alla ricetta. Non c'è spazio per eventuali accelerazioni. L'urgenza espressiva è dettata da un'intimità melodica che punta dritto al cuore. Regna il silenzio, la quiete. Lo scorrere del tempo assume una centralità assoluta. Nulla è diluito. Nulla è inutilmente protratto. Arduo finanche estrapolare eventuali paralleli. Se proprio dovessimo tirare in ballo dei nomi, salterebbero fuori diverse soluzioni a seconda dei momenti. Arthur Russell, innanzitutto. Così come il timbro vocale dirotta la memoria recente verso il già citato Antony Hegarty. Tuttavia, è l’assonanza ben celata con ritmiche dubstep poste come fantasmi dietro il sipario, a fornire linfa alla corteccia. Il tip-tap obliquo da tappeto percussivo al piano sintetico di "Unluck" e il crescendo oculato con un'unica strofa (rubata da una canzone del padre, “Where To Turn”) in repeat di "Wilhelms Scream" mettono subito le cose in chiaro: siamo dinanzi a una teatralità minimale, mescolata a una recondita predisposizione verso costrutti melodici mansueti, ma pur sempre ricchi di spirito. Non ci sono veli da scoprire o trucchi da carpire. La prima parte di "Lindesfarne" scivola nell'ombra, prima che spunti un'andatura sorniona, atta a liquefarsi nel vuoto più totale. L'introspezione è favorita da una pacatezza ritmica che cede gradualmente il passo alle varie oscillazioni. In "Give Me My Month" è rievocato il Bill Withers più dimesso di "+'Justments". Con "To Care (Like You)" tornano a incendiare l'anima pause immacolate smorzate da battiti controllati, rallentati e strizzati in un secchio di beatitudine; così come la più che sopita invocazione gospel di "Measurements" culla i sensi polverizzandosi quasi senza disturbare. James Blake espone finalmente e appieno tutto il suo talento. Seguono partecipazioni alle varie rassegne europee, apparizioni televisive sempre più frequenti e un nutrito cumulo di adulatori al proprio seguito.

220270blake3Trascorrono soli sette mesi ed è la volta di un nuovo Ep, Enough Thunder. Sospinto a gonfie vele dall'accecante scia luminosa dello splendido esordio, il giovanissimo dj-producer prova a tirar fuori dal cilindro sei nuove perle sonore, confidando nello stato di grazia compositivo palesato alla nutrita platea in più di un'occasione. Coccolato fin troppo dalla benemerita BBC Radio 1, la neonata stellina londinese non rinuncia alle prime collaborazioni eccellenti. Così, ecco spuntare l'acclamato e meritevole Bon Iver nella singhiozzante e un po' stucchevole "Fall Creek Boys". Pulsazioni meno vibranti e profonde assecondano fin da subito un climax di fondo mediamente più inquieto e asciutto. A rimarcare questa nuova veste armonica, è l'introduttiva "Once We All Agree", in cui Blake mette ulteriormente a nudo le proprie emozioni, lasciandole decantare su pochi tasti e basse ripartenze eccessivamente (auto)commiserevoli. Lo stesso dicasi della conclusiva "Enough Thunder", che chiude un cerchio tratto con poca convinzione. Ben altro discorso merita invece la sfuggente diramazione timbrica di "We Might Feel Unsound", nella quale è un acceso vespaio ritmico ad accompagnare la lieve melanconia vocale del timido electro-writer inglese. Mentre l'immensa "A Case Of You" di sua maestà Joni Mitchell è solo reinterpretata con troppa fretta e senza la minima personalizzazione. Così Blake scivola al centro del piatto nel comodo riempitivo di turno, prima di disorientare i timpani e l'anima con "ritrovata" maestria nella cyber-tronica coda di "Not Long Now". In definitiva, Enough Thunder mostra nel complesso diverse zone d'ombra evitabili e un Blake a tratti sottotono. Ma è solo un mezzo passo falso, un inciampo accidentale. 


Il 2012 è l’anno della prima sosta in vista di una nuova e più luminosa ripartenza. Giusto il tempo di raccogliere diversi singoli nella compilation "Hard To Find", e la propria stanza/studio torna ad essere il suo covo produttivo. Overgrown si presenta subito come il classico secondo disco di un giovanissimo talento, promosso con ampi voti già alla prima uscita e a cui ora tutti chiedono conferma. La prova del nove di un musicista capace di spiazzare la platea con pochi eleganti ingredienti e di posizionarsi in un colpo solo nel piccolo Olimpo delle “cose nuove” provenienti dal Regno Unito. In diverse fasi del disco, resta solo parzialmente immutata l'urgenza espressiva di trascinare la melodia nei meandri di un'intimità soul a tratti "evangelica", mentre sullo sfondo un’elettronica ridotta all’osso in più di un’occasione (“I Am A Sold”, la hegartyana “DLM”) occupa gli spazi mediante un synth scarno ed efficace. Parimenti, la sezione ritmica sposa, seppur lievemente, impalcature proprie del dubsteb di matrice Hyperdub.
Scendendo più a fondo nell’opera del giovane electro-writer inglese, troviamo d’un tratto (e un po' a sorpresa) anche nuove pulsazioni o insospettabili derive sintetiche, in alcuni casi prossime al suono targato 50 Weapons (!), come accade ad esempio negli improvvisi cambi di ritmo di “Digital Lion” (frutto di una collaborazione ben riuscita, e a detta di entrambi anche molto intensa, con sua maestà Eno) e “Voyeur”, le due tracce che evidenziano maggiormente le coordinate del nuovo cammino intrapreso da Blake.

Ma come già accennato poco sopra, Overgrown riesce a riprendere a dovere l’isolazionismo electro-soul dell’esordio, con Blake che canta adagiandosi fin troppo spesso su sentieri vellutati, magicamente supportato dal synth tra incantevoli giochi di luce e repentine ombre, in un incastro di leggiadri stop&go; è il caso della stessa title track o dell’emozionante ascesa melodica di “To The Last”, in cui prende forma un’implorazione vocale degna del miglior Jamie Woon. Al centro del piatto giace poi la perla del disco. L’avvenuta fioritura del nostro. “Retrograde” cancella ogni dubbio e solleva le emozioni dal suolo, proiettandole pian pianino verso l’alto in un crescendo epico e passionale, con la tastiera che pare essere suonata direttamente da un angelo caduto dal cielo. E non è un caso che tale meraviglia sia il primo singolo ufficiale del lotto.
Non rimane che evidenziare in penombra l’impalpabile ballad “Take A Fall For Me”, collaborazione parzialmente convincente con Robert Diggs, aka RZA, da cui è possibile evincere un’improbabile fusione tra l’hip-hop di natura mainstream e l’introversa andatura in vaga scia dubstep palesata da Blake. Tuttavia, quest’ultima resta comunque l’unica e microscopica “macchia” di una tela clamorosamente candida, sulla quale James Blake è riuscito a sfogare con la consueta riservatezza le proprie passioni, il proprio impeto, in una danza appena abbozzata di morbide sfumature soul e ricami elettronici ancora una volta decisamente ispirati. L'evoluzione, dunque, continua.

Grazie al divino Overgrown, l’attenzione verso la sua musica cresce esponenzialmente a destra e a manca: da David Letterman così come sulle maggiori riviste musicali, senza contare le innumerevoli “coccole” ricevute dalla BBC Radio che lo invita a più riprese, celebrandone in toto l’estro alla stregua dei migliori. Come se non bastasse, il buon James finisce dentro l’ultimo disco di Beyoncé, prestando la propria voce in uno dei brani più toccanti e spiazzanti del lotto, tanto da lasciare “senza fiato” la diva di Houston. A dar man forte poi a questa inarrestabile espansione, è la sinergia venutasi a creare tra il 2012 e il 2015 con un’altra giovane stella: Frank Ocean. Un sodalizio artistico che ha contribuito a rendere ancor più succulento e particolare il mood sonoro del nuovo album, intitolato The Colour In Anything, terzo Lp dell'electro-writer londinese, annunciato a sorpresa dallo stesso tramite le frequenze della benamata BBC Radio 1 poche ore prima del lancio digitale. Un annuncio improvviso solo per metà, visto che i singoli “Timeless” e “Modern Soul” avevano di fatto preavvisato la platea circa l’imminente arrivo del nuovo album.

Oltre al già citato Ocean presente nella vesti del prezioso ispiratore in tracce come “My Willing Heart” e “Always”, Blake ha chiamato a sé anche l’illustre Justin Vernon (Bon Iver) con il quale aveva già interagito nel brano “Fall Creek Boys” presente nell’Ep del 2011 “Enough Thunder”, dando vita alla magnifica “I Need A Forest Fire”, uno dei brani più esaltanti del disco. L'artwork della copertina è stato inoltre realizzato da Sir Quentin Blake, noto illustratore britannico di libri per bambini. Il tratto elegante e dalle tinte pastello con la figura di Blake stilizzata in leggera penombra rimarca un’intimità genuina, in netta corrispondenza con gli umori espressi dal musicista. Mentre la presenza in cabina di regia dell’ultra navigato Rick Rubin arricchisce definitivamente il tutto, conferendo alla produzione la giusta quantità di collante sonoro tra le diverse strutture armoniche.


220270blake4The Colour In Anything è innanzitutto un album cantautorale. Settantasei minuti e ben diciassette canzoni attraverso i quali il compositore mette definitivamente a nudo la propria anima. Le fughe elettroniche alla “Digital Lion” svaniscono e lasciano il posto ad un’introspezione poetica la cui patina elettrica avvolge e seduce senza mai abbandonare determinati confini, mentre nuove e delicate trovate “ritmiche” (si prenda ad esempio il metronomo a mo’ di scratch presente in “Love Me In Whatever Way”) non invadono eccessivamente lo spazio ricco di elementi terzi e micro articolazioni incasellate con estrema cura.


E’ ancora una volta l’anima gospel, annessa al modernariato di matrice soul, ad elevare sopra cieli aperti e immensi lo spirito inquieto e al contempo riservato del cantautore inglese. Un excursus melodico penetrante, che affonda con delicatezza la propria lama sottile mediante parole atte ad esternare in più di un’occasione intense prese di coscienza (“Don't use the word, forever/We live too long to be so loved/People change and I can be tethered/We think we are the only ones/You can't walk the streets a ghost anymore/You can't walk the streets a ghost anymore”). Tra le tracce dell’album spiccano in volo i fantasmi di un ventisettenne che insegue la pace interiore. Un ragazzo in fuga dal mondo, perso tra i suoi innumerevoli e inseparabili piani digitali, sempre pronti ad alimentare al meglio ciò che agita la mente e il cuore.


La voce calda e struggente di Blake talvolta pare provenire dal centro di una cattedrale post-moderna, con la tastiera sempre pronta ad avvolgere la scena, tra motivetti R&B in voce vocoder (“Choose Me”) e irresistibili aperture celesti dal flusso candido ed evocativo (la stratosferica “Radio Silence”).
I rimandi al passato sono decisamente nobili. Provate ad ascoltare "Peace Go With You, Brother (As-Salaam-Alaikum)" del duo Gil Scott-Heron/Brian Jackson o il Bill Whiters dimesso e asciutto di “Liza”, e avrete un’idea, seppur con le dovute distanze temporali, delle origini lontane di questa preziosa ricetta. Una formula che Blake provvede a lanciare direttamente su Marte, dando così luce ad un inimitabile affresco post dubstep, post soulstep, post tutto.


Due anni dopo diventa quasi inutile negare una certa ansia collettiva legata all’uscita del quarto disco. A prescindere dalla bontà espressa in passato e dallo status quo meritatamente raggiunto, ad alimentare il tutto sono state una serie di concause ben precise, tra featuring d’ogni sorta ad opera del Nostro e due singoli rilasciati nel 2018 che hanno mostrato uno stato di grazia ineccepibile. “If The Car Beside You Moves Ahead” e “Don’t Miss It”, ovvero due perle luminosissime ma dal destino contrapposto, messe sul piatto da un giorno all’altro, a fungere da antipasto fin troppo delizioso di un disco il cui titolo non ha fatto altro che gonfiare ulteriormente le speranze della vigilia, fino a lanciarle nell’esosfera come un pallone sonda in cerca di nuove meraviglie: Assume Form

Dunque, una dichiarazione d’intenti ben chiara, quella espressa a "chiare" lettere da James Blake. Tuttavia, la scelta di escludere dall’opera il primo dei due singoli sopracitati ha immediatamente suscitato una forte delusione, oltre ad accendere il sospetto che la volontà manifestata di "assumere forma" fosse in realtà tutt’altro che limpida. A tal riguardo, le diverse collaborazioni presenti nell’album indicano in linea di principio una condotta tesa a mescolare ancora di più le carte in gioco. C’è il blasonato Travis Scott e c’è la raggiante Rosalía, la promessa Moses Sumney e l’istituzione André 3000. Ci sono la trap, il flamenco, l’electro soul (gemello a quello dello stesso Blake) e la strofetta rap in salsa Outkast trita e ritrita. Tutto strizzato in un secchio e amalgamato in alcuni punti alla meno peggio, con addirittura due gettoni di presenza del beatmaker statunitense Metro Boomin. Le speranze di trovarsi dinanzi a una compiutezza definitiva si sono quindi sgretolate quasi all’istante. E il rischio di imbattersi in un vero e proprio guazzabuglio ha assunto concretezza traccia dopo traccia, consolidandosi in diversi episodi davvero poco riusciti, parimenti dissolvendosi nei momenti più significativi e ispirati del lotto.  
Blake ha espresso più volte quale fosse in realtà il leitmotiv dell’opera, ossia “diventare finalmente raggiungibile, assumere forme materiali, lasciare la propria testa e unirsi al mondo”. Un amplesso, però, deboluccio e a più riprese privo di mordente. E “forme” spesso poco compiute, come scarabocchi tracciati sul foglio tra un sovrappensiero e l’altro. Linee inspiegabili, come quella che unisce Blake a Travis Scott in “Mile High”. Una trap ballad come milioni di altre disperse nel web. Un brano che non aggiunge nulla e che serve solo ad accende la prima sirena d’allarme, dopo la ben più riuscita title-track, che apre il disco con un giro al piano delicatissimo, fatato, in perfetta scia con il pathos irresistibile che da sempre alimenta la sua scrittura. E un’interpretazione vocale sublime, con gli archi nel finale a indirizzare anima e cuore verso il raggiungimento di una struggente beatitudine. Una meraviglia purtroppo polverizzata dall’episodio successivo. 

Ebbene, è in questo tran tran di candidi bagliori e luci spente in ogni senso che Blake induce a dimenarci, confondendo, illudendo, mostrando da un lato personalità e profondità e dall’altro lato un’insolita superficialità nello sbrigare fin troppo celermente la faccenda; l’abbraccio con il mondo espresso in origine pare quasi forzato dalle logiche attuali del mercato, perlopiù poco sentito. Un andazzo che però non riguarda la riuscitissima “Tell Them”, prodotta con l’immancabile e onnipresente Dominic Maker del duo amico Mount Kimbie e dal fidato Dan Foat, con la partecipazione del lanciatissimo Moses Sumney, il quale si candida a pieno titolo come uno dei più promettenti songwriter in circolazione; insomma, uno dei pochi in grado di proseguire con una propria versatilità stilistica l’eterna rinascita della musica soul applicata alle macchine. Un brano munito anche di un certo appeal esotico. Stesso dicasi, ma per motivi ovviamente più spagnoleggianti, di “Barefoot In The Park” cantata assieme alla superstar dell’art-pop latino Rosalía, con tanto di refrain passionale e passo gitano.

220270blake5Il sample estratto dall’eterna melodia de “La Contessa, Incontro” del compositore romano Bruno Nicolai è al contrario l’abbraccio più riuscito dell’album. Il punto di contatto più azzeccato con il mondo esterno, nel caso specifico con il passato. Mentre il coretto di “Power On”, ad allietare e introdurre gli umori conflittuali presenti nel testo, evidenziano quanto siano de facto inutili le strizzatine d’occhio a generi distanti come trap e rap. L’eterea solitudine e la dolce melanconia che traspaiono nella dimessa e conclusiva “Lullaby for My Insomniac” confermano ancor di più tale sensazione.
Assume Form è un album stilisticamente instabile, pur mantenendo intatta una sua veste primaria lungo tutto lo strambo tracciato. Un’instabilità che alla lunga pesa sul risultato finale, al netto dei momenti più nobili ed efficaci.    

L'Ep Before arriva un anno dopo e raccoglie 4 canzoni con cui esaudire i mai spenti desideri dancefloor, quindi riprendere e omaggiare i primi tempi da dj ma soprattutto “avere finalmente la sicurezza di inserire la voce sopra ritmi dance”, come egli stesso dichiara. E infatti la title track sembra uscita da un disco dell’amico Jamie XXRefrain appiccicoso, quattro quarti e crescendo soul a intendere un sentimento di rinascita post pandemia, con il video girato durante il lockdown che dice tutto. Più spigolosa e meno immediata “Do You Ever”, a metà tra r’n’b e dubstep. Mentre la conclusiva “Summer of Now” riporta il songwriter londinese sulle proprie praterie: introspezione a pacchi, pause all’organo e cambio di rotta con vocina filtrata alla Burial alternata al cantato soave e profondo. Con la sopracitata title track di certo il miglior momento del lotto.
Before segnala dunque un James Blake complessivamente ancora in forma, anche se resta inspiegabile per l’ennesima volta l’assenza di singoli lanciati poco prima, “You’re Too Precious” e la commovente “Are You Even Real”, quest’ultima tra le canzoni più belle mai scritte da Blake.

Dopo una serie di rimandi forzati a causa della pandemia, nell'autunno 2021 arriva finalmente il quinto album: Friends That Break Your Heart. Una prova a tratti incerta, che ha inesorabilmente a che fare con il desiderio di Blake di raggiungere un successo planetario che però cozza con il suo stile talvolta sfuggente, introverso, vagabondo. E lo dimostra a chiare immagini il video di “Say What You Will”, dove egli stesso interpreta un musicista dannato, dimenticato, mentre ammira la quotidianità di un suo collega che ce l’ha fatta. Dunque, è un Blake pensieroso, schivo, tematicamente omogeneo. Un uomo in preda a crisi di mezza età anzitempo, a malinconie che scorrono come un fiume, prima di sfociare nel mare magnum delle emozioni irrisolte. E’ un po’ l’umore dell’introduttiva “Famous Last Word”. Una ballata tanto concisa quanto fuggiasca.


I tratti disegnati da Blake al piano e al microfono continuano a seguire le medesime scie soffuse di Assume Form, variando nei tre amplessi sparsi lungo il percorso: SZA, J.I.D & SwaVay, Monica Martin. Tre collaborazioni in cui riaffiorano i tentativi di camuffare tutto sotto una patina urban che in realtà poco aggiunge, tutt’al più sottrae respiro alla materia viva di cui Blake dispone, come nel caso di “Coming Back”, prima dei tre featuring citati.
L’amore mai nascosto per partiture gospel, prosciugate di volta in volta da una voce che comunque sia resta sublime, nonché strumento portante, torna in auge nei momenti più centrati e guarda caso più appartati del lotto, su tutte “Funeral”. Discorso a parte merita invece “I'm So Blessed You're Mine”, a conti fatti il giro meglio riuscito con il “refrain” immediato - l’altro è quello del singolo sopracitato “Say What You Will” - e una delicatezza di fondo da contraltare che rende tutto particolarmente ammiccante. Si scivola poi via tra una nenia e l’altra, un lamento e un rimpianto, per un parterre di sensazioni che culmina nell’ottima title track. Friends That Break Your Heart potrebbe suonare come il primo passo falso di un musicista sempre ispirato. Ci sono però alcuni momenti che travalicano questo verdetto, ponendolo a mezza via. Il tutto in attesa di tempi migliori.

Nel 2023, un ritorno alle origini, ma ponderato. O meglio ancora, una visione nostalgica irrimediabilmente filtrata attraverso l’esperienza di tutto quello che è successo nel frattempo. Sì, perché dopo una serie di lavori che hanno visto James Blake allungarsi verso la grande industria discografica con comparsate e produzioni per altri, l’intimità di Playing Robots Into Heaven suona come un momento di sacro raccoglimento emotivo, anche per i suoi canoni.
Certo, sulle prime qualcosa non quadra, è come se il tutto volesse sfuggire via dalla porta di servizio, evitando d’incrociare amici, conoscenti e pubblico pagante. Ma la magia della materia elettronica si esprime anche nelle infinite tonalità di grigio, nel ponderare all’infinito sui propri passi fino a trovarsi tra le mani un quaderno digitale zeppo di nuove idee che si riordinano da sole. Playing Robots Into Heaven è dunque l’inaspettata sintesi del Blake-pensiero: frattaglie breakbeat e post-club mescolate con l'austero soul-step degli esordi, calcolando al millimetro l'equilibrio tra elemento vocale, stridori idm e un anemico calore umano. È come se il malessere cosmico di “Kid A” venisse acquietato con un abbraccio fraterno, lenito con un bacio e infine esorcizzato nella cava rimbombante di una pista da ballo rigorosamente vuota, lontano da sguardi indiscreti per non turbare l'intimità del rito. Ma quello che un tempo sarebbe stato concepito con polso ruvido sotto alle arcate del Fabric, oggi, viene processato seguendo un orizzontale gusto sinfonico per la stesura delle basi e l’orchestrazione dei sample, infilando brevi linee melodiche nel mezzo dell’operazione a cuore aperto di un produttore hip-hop – esplicativa l’apertura di “Asking To Break”, nella quale angelici frammenti vocali viaggiano di pari passo accanto a timide idee di piano e tastiera, quasi fosse materia cosmica degli Air rimaneggiata da Dj Shadow.
Lungo undici tracce per tre quarti d’ora scarsi di durata, il lavoro cangia in continuazione tra grigi paesaggi di brughiera e piovose notti metropolitane, costruendo la materia digitale attorno a una "soul-tronica" che sa di folklore universale. Ecco “Loading”, impreziosita da un suggestivo crescendo strumentale, e la splendida dance progressiva di “Tell Me”, che sembra uscita dal “Raven” di Kelela per quanto suona oleosamente oscura e vellutata. Poi ancora gli acquerelli di “Night Sky”, a ricongiungersi con l’ambient concettuale del duo Space Afrika, e i gorgogli dubstep di “Fall Back”, stavolta presi in prestito dal collega Burial. Referenze forse non nuove, ma assemblate da Blake con mano riconoscibile che non pecca mai di cattivo gusto.
Difatti, poco più in là, ci si imbatte nella costruzione a blocchi di “He’s Been Wonderful”, la quale, tra cori gospel e interferenze noise, parla lo stesso linguaggio di associazioni libere di “The Life Of Pablo” di Kanye, un afflato vagamente metafisico che poi ricorre anche nelle decostruzioni di dub e soca dello spinto singolo “Big Hammer”. Ed ecco l’amore: “I Want You To Know”, con voci angeliche intinte in un soul cibernetico disidratato dal contatto con l’atmosfera terrestre, e “If You Can Hear Me”, breve frammento pianistico dedicato alla figura paterna. Poco amorosa nelle liriche, ma stilisticamente affine, anche “Fire The Editor”, un introverso momento che si apre in un carillion d’innata dolcezza, ma infine lascia da parte la voce per concludere l’andamento “lirico” con una fremente linea di tastiera. Sono questi gli accorgimenti che fanno del disco un ascolto così raro e cantautoriale, anche al netto della mancanza di una forma canzone classicamente intesa: la comunione d’intenti tra voce, macchina, strumento e manipolazione digitale crea un impasto sonoro denso e inscindibile.
Non stupisce la ricezione tutto sommato tiepida ricevuta un po’ ovunque, dacché i motori dell’hype, prima o poi, imboccano il proprio naturale percorso discendente. Lo stesso autore ha pensato bene di ripresentarsi col suo lavoro più muto e insondabile dai tempi di Klavierwerke e CMYK, smorzando nuovamente i toni in favore di un profilo più basso, ben lontano dalle collaborazioni con Kendrick LamarBeyoncé e Travis Scott. Da qualche parte nell’intimità della propria mente, infatti, James Blake è l’introverso beatmaker di sempre, a proprio agio per mesi interi di fronte al computer con la stessa curiosità di quando ancora studiava musica alla Goldsmith di Londra. Eppure, Playing Robots Into Heaven è tutto tranne che un ascolto auto-compiaciuto o forzatamente referenziale: smagliato ma avvincente, tondo e spigoloso allo stesso tempo, diviso tra stradaiola energia hip-hop e profondo candore soul, suona estremamente contemporaneo ma mai modaiolo.

Contributi di Damiano Pandolfini ("Playing Robots Into Heaven")

James Blake

Discografia

The Bells Sketch Ep (Hessle Audio, 2010)
CMYK Ep(R&S Records, 2010)
Klavierwerke Ep(R&S Records, 2010)
The Wilhelm Scream Ep(Atlas, 2011)
James Blake(Universal, 2011)
Enough Thunder Ep(Atlas, 2011)
Overgrown(Atlas, 2013)
The Colour In Anything(Universal, 2016)
Assume Form(Polydor, 2019)
Before Ep(Polydor, 2020)
Friends That Break Your Heart (Republic, 2021)
Playing Robots Into Heaven (UMG/Republic, 2023)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Air & Lack Thereof
(da Air & Lack Thereof/Sparing the Horses, 2011)
The Wilhelm Scream
(videoclip, da The Wilhelm Scream Ep, 2011)

Limit to Your Love
(videoclip, da James Blake, 2011)

Retrograde
(videoclip, da Overgrown, 2013)

Overgrown
(videoclip, da Overgrown, 2013)

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