Burial

Burial

Al di là delle nuvole

Da nerd introverso e misterioso a paladino della dubstep. La singolare ascesa di William Bevan, in arte Burial. Una storia che prende forma nella periferia di Londra fino ad arrivare al cuore di milioni di persone e insospettabili adulatori. Il rumore della pioggia come sinfonia dell'anima, in uno squarcio post-moderno di rivalsa dub e angelici campionamenti vocali

di Giuliano Delli Paoli

Londra, 2005. L'epopea dei raver è un ricordo decisamente lontano. Ciò che resta della drum'n'bass è solo un cumulo di frammenti elusivi, esplosi del tutto verso la fine dei Novanta e conficcatisi come schegge nei settori più disparati. Non si vola più intorno ai 160 bpm e i bassi acquistano maggiore spessore. A prendere quota nei giovani produttori londinesi è la cura maniacale di ogni singola pulsazione. Ma è soprattutto un ritrovato amore per la dub e la jungle a suggerire nuove intriganti commistioni, nuove possibili mutazioni. Lo scozzese Steve Goodman, aka Kode9, dagli studi della sua Hyperdub è tra i primi a scuotere quella che a un primissimo impatto sembra solo una "sensazione generale" circolata nei circuiti underground di una Londra triste e ferita dai vari attacchi terroristici. L'uomo segue a pelle il richiamo della uk-garage più oscura - su tutti El-B e Noel "Roxy" Smith in combo nell'Ep "Breakbeat Science" -  e la dub vocale dell'amico MC Stephen Samuel Gordon, meglio noto come Spaceape. I primi singoli mostrano subito nuova linfa. Qualcosa di oscuro e magnetico circonda la loro musica, caratterizzata da selvagge ripartizioni e tenebrose avanzate percussive. La seminale raccolta "Five Years Of Hyperdub" raccoglierà poi nel 2009 tutti gli elementi disponibili, utili a tracciare un primo punto d'arrivo di quella cosa chiamata dubstep.

Intanto, negli stessi dintorni londinesi, altri due produttori, Sam Shackleton e Laurie "Appleblim" Osborne, danno vita a un'esperienza parallela a quella di Steve e soci. E' un progetto di nicchia, decisamente insolito e illuminante nell‘universo post-garage inglese. Si chiama "Skull Disco" ed è l'etichetta da cui trae energia la verve ritmica della primissima dubstep. La loro formula prevede un tambureggiare feroce, anacronistico, a segnalare fin da subito la presenza di un tribalismo nuovo ed energico nel profondo sud della capitale inglese. Sam e Laurie vivono l'altra metà della storia. E "Soundboy Punishments" sarà il disco-raccolta che nel 2007 amalgamerà i meravigliosi cocci di questa breve ma intensa esperienza. Tuttavia, è ancora presto per  versare i citati elementi in un unico calderone. La dubstep è ancora una ragazzina a cui piace confondersi tra la gente, così come sono in molti a interpretarla erroneamente come una sorta di spenta ripresa di un trip-hop post-trickyano mescolato a certo dub dell'ultima ora.

In tutto questo bel fiorire e sminuire, William Bevan è solo un timido ragazzino inglese a cui piace uscire poco la sera, che adora chiudersi in camera bevendo litri di coca cola davanti a un monitor caldissimo, che prova a comporre musica fantasticando con i propri fantasmi fino a proiettarli su una sottile tela mossa al centro dal soffio di bassi pesantissimi e agitata ai bordi da breaks 2-step solo in parte trattenuti.
William è un lupo solitario come non se ne vedevano da eoni. A lui non piace affatto l'idea di farsi conoscere al di là della musica. I suoi pezzi sono i frammenti della propria inquietudine. E questo può bastare. William è un ragazzo a modo, introverso ma in fondo in pace con se stesso. Adora il rumore della pioggia e la desolazione urbana ad essa correlata. Detesta l'atmosfera live, i suoi ostili percorsi e i compromessi con il pubblico. La stanza in cui dorme è l'unico spazio in cui ama esibire le proprie faccende sonore. La sua tana è un mondo a parte, in cui si alternano voci campionate, disarticolate, squarci di luce e gocce di pioggia a ipotizzare un quadro desolante e al contempo celestiale. La musica di Will esula fin dai primi istanti dai contesti e dalle piazze. Will è solo e vuole rimanerci. Il suo talento ai controlli trae energia da una tormentata vibrazione interiore. Il ragazzo rifiuta seccamente di mescolarsi con il mondo. Egli è semplicemente un produttore abituato a nascondersi nell'ombra, amico di Steve e Kieran, un uomo semplice che adora restare zitto a fissare la propria ombra mentre fuori la gente aspetta che qualcosa cambi per davvero fingendosi felice e spensierata.

E' la primavera del 2005 quando questo misterioso dj-producer inglese decide di palesare la propria musica al mondo, esportandola dalla sua tana al resto del pianeta grazie al fidato Goodman. Nasce così il progetto Burial. I primi due Ep a suo nome, South London Boroughs e Distant Lights, esprimono di fatto il contenuto del successivo esordio omonimo. Il primo contiene quattro tracce a fornire una bozza del proprio temperamento. Luci basse e un'inquietudine ritmica da scenario post-apocalittico caratterizzano i primi quattro vagiti del giovane Will. Nel secondo, spuntano fuori un eccellente remix di Kode9 e altri tre pezzi inseriti successivamente nel disco d'esordio.

Seguono dodici mesi di trepidante attesa prima di incrociare nuovamente l'enigmatico moniker nella mailing list della Hyperdub. Nei primi mesi del 2006 viene finalmente annunciato Burial, primo Lp di Bevan. Un disco in cui tutto è reso vita senza sfruttare a pieno la polifonia dei sintetizzatori, il cui l'umore nero sembra rimandare senza troppi giri di parole ai primi tumulti bristoliani.
E' un album che sprigiona un suono agghiacciante e cavernoso, atto a seppellire una sopita speranza post-moderna. Nelle sue tracce c'è poca luce. Mentre il cielo appare buio e minaccioso. Nei suoi costrutti regna un'irrequietezza implosa propria del produttore nerd distaccato dal resto del mondo. Così, al metronomo elettrico di "Wounder" è associato un basso nevralgico, mentre la splendida "Prayer" fornisce la naturale definizione di dubstep senza l'urgenza di aprire un vocabolario o far fede a strampalati concetti espressi su qualche rivista a stelle e strisce.
La prima opera di Will ottiene immediato riscontro da gran parte della critica e in essa trovano spazio anche diversi strazianti passaggi malinconici, quali i pianti acidi in perfetto stile Eno e in piena scia Aphex intercettati in "Forgive" e "Night Bus". La massiccia "Southern Comfort" ci riconduce poi nei vecchi rave da impianti dimessi. Le sue infuocate palpitazioni dub incarnano l'espressione più malata della primissima opera di uno scultore di cui non sarà possibile conoscere la reale identità fino al tardo 2007.
In questa prima prova sulla lunga distanza, l'obesità dei bassi è magistralmente alternata a un lento ribollire elettronico. E' possibile intuire un parziale distacco da tale oscura condizione esclusivamente nei vaneggi filo-soul di "Gutted". Il resto è un'asfissiante permanenza tra le macerie della drum'n'bass più toma, in cui tutto suggerisce assenza e abbandono, disincanto e rassegnazione. Ma ciò che colpisce realmente del giovane Will, è il dovuto distacco con il quale egli propone le proprie incessanti modulazioni elettroniche. La sua musica emana un profumo industriale e si solleva come una nube tossica sul cielo di Londra.

burialuntPassano diversi mesi e l'anonimo Bevan assume i connotati di un miraggio da inseguire, qualcosa per cui vale realmente la pena di aspettare e approfondire. Niente apparizioni. Solo poche parole rilasciate sul sito dell'amico Kode9, un succulento terzo Ep di anticipo a un immediato secondo Lp, Ghost Hardware, e il gioco è fatto. E così, la già smodata curiosità nei suoi riguardi cresce giorno per giorno, mese per mese, esplodendo finanche in allucinanti ipotesi di mistificazione da parte di qualche celebre dj-producer inglese. Per diverso tempo saltano fuori le teorie più assurde. C'è finanche chi crede che Burial in realtà sia solo la maschera di un Tricky o di un Norman Cook in preda a qualche nuovo delirio. Ma sono solo voci di corridoio prive di fondamento.
Trascorrono pochi mesi e William Bevan riappare nei radar affollatissimi dell'underground UK, alla stregua di una piccola luce a intermittenza. Verso la fine del 2006 coordinate ancora non identificate del tutto indicano nuovamente la presenza gradita del misterioso mig di casa Hyperdub. "Archangel" è il singolo bomba che apre le porte di un nuovo cataclisma dubstep. I campionamenti vocali aumentano e appaiono a tratti più "regolari", delineando per certi versi l'avvenuta mutazione/contaminazione "pop". Bassi pesanti come il piombo, posti da contrappeso a una scarica eterea di ombrose deflagrazioni, costituiscono il punto di forza di un agglomerato ritmico clamorosamente alieno.
Così, lo svezzamento di un settore, (ri)battezzato dubstep, prosegue il suo folle ciclo nel secondo scatto pragmatico del produttore londinese: Untrue. Kode9, deus ex machina della Hyperdub, si siede dietro al mixer, produce e ringrazia. In questo secondo Lp, Burial cerca di mettere a fuoco tutte le esperienze multiformi che hanno nutrito il fenomeno nell'arco di un anno. Assieme a Benga, Vex'd, Skream!, Digital Mystikz e Scuba, anche il nostro reinventa in qualche modo se stesso senza stravolgere ciò che aveva saldamente trasmesso nella prima prova, andando così a cercare nuovi orizzonti di pace per tutto il movimento "breaks". Rimosso in parte quel substrato assordante di beat pachidermici, con Untrue Burial fortifica la propria vena melodica, inserendo in un contesto cyberpunk cori soul, campionamenti al telefono (!), impalpabili orientalismi strumentali, zuccherose divagazioni pseudo lounge paradossalmente accostabili alla house più deep, pescando anche nel 2-step/uk-garage dei Novanta. L'oscuro annichilimento lascia il posto a un quadro desolante in cui spunta sempre una piccola luce da inseguire.
E' ancora una voce dimessa a introdurre le gesta del nostro eroe, cui segue l‘irresistibile ascesa di "Archangel", incarnazione primaria delle future diramazioni "pop" di Will. Lo studio si allunga oltre i confini del ritmo fino a trattare il cantato come un effetto da manipolare a ogni frase. Odio e nuovo amore, attraverso uno scudo di pulsazioni dub, tastiere sacre, scenari arcaici. Si diceva prima dei ritmi che Burial riesce a comporre, è forse questo il gradino che ancora lo separa stilisticamente dai tanti. Il ragazzo afferma che gli piacciono tanto i beat storti, che si diverte a giocarci, e in questo gioco finisce per accavallare e fondere idee distanti. Spinge ancora più in verticale la sua proposta, che si ridefinisce in mille strati non certo pressati ma lasciati liberi di toccarsi e allontanarsi, creando ambienti sonori affascinanti e nebulosi. Sono numerose le cose certe con questo disco, più di tutti quella che il pupillo di Kode9 non si è fermato di certo a fare il "compitino", anzi. Untrue manda l'immagine di un uomo che pare aver trovato la sua strada per il dub, puntando dritto a far vacillare nuovamente le convinzioni di molti. Will riesce finalmente ad aprirsi, l'oscurità dell'esordio si è fatta meno fitta, sia sull'uomo sia su ciò che vuole dirci. Ma Untrue è un disco che va ben presto oltre le stesse intenzioni di William, diventando negli anni successivi il manifesto di un nuovo percorso, il riferimento supremo della dubstep che punta al "pop", finanche a certo r'n'b.

Il 2008 è il primo anno sabbatico e l'ormai noto William Bevan è sulla bocca di tutti, belli e brutti. Se ne accorge anche un attento Thom Yorke in vena di console, selezionando i pezzi di Bevan a getto continuo nel masturbante dj-set allestito a sorpresa dal musicista di Wellingborough presso il celebre club "Low End Theory" di Los Angeles. Insomma, tutti parlano di Burial e tutti cercano Will. Finanche Tiziano Ferro (!) lo cita in un'intervista, definendolo come uno dei manipolatori più eccitanti del momento. Ma il ragazzo continua a non mostrarsi e a muoversi in gran segreto nei fidati circuiti della Hyperdub, fino al bel giorno in cui ripesca l'amico Kieran Hebden, con il quale aveva trascorso anni felici presso la Elliott School di Londra.
Nasce subito un'immediata intesa e una fantastica collaborazione: Moth/Wolf Cub. Due tracce a incendiare il mondo e a suggerire nuovi mondi paralleli da seguire all‘infinito, come se l'accecante raggio di luce di "Untrue" fosse già un lontano ricordo. Burial & Four Tet: la mamma e il papà, il nero e il bianco, lo yin e lo yang, il bene e il benissimo. Quando si è saputo della collaborazione a pochi giorni di distanza dall'uscita del disco, a tutti sembrava uno scherzo, difficile crederci e ancora più difficile immaginarsi cosa potessero combinare due dei migliori produttori degli anni Duemila. Uno giovane ma già veterano, l'altro un uomo della strada che nel giro di due dischi ha mietuto cuori e orecchie. Dicevamo due tracce, un lato ognuna della gomma su cui sono incise, a coprire 18 minuti di solchi.

burialtetMoth/Wolf Cub
è un Ep fatto in casa come le cose buone della vita. "Moth" atterra e basta. Ti manda ko subito e continua tranquilla a inferire. E' la grana produttiva di Burial. C'è quel grossolano sporchissimo che caratterizza le sue produzioni, l'uso di sample vocali fritti e impanati in mezzo a una tonnellata di riverberi, delay e echi. Sotto Four Tet fa pedalare la banda, alza una cassa dritta che fa quello che tutti i dj techno, house, casalinghi e superstar, mezze seghe e fenomeni - aspettavano: il suono Burial messo in pari. Si scrolla di dosso la pregiudiziale break e monta su vigoroso un suono massiccio, profondo e terribilmente urbano che fa felici, rasserena con il suo synth melodicamente techy ma con attorno il grigio più sporco delle metropoli. "Wolf Cub" è materia sonora di Four Tet, chi non riconoscesse quel cosino lì all'inizio (tabla? Sitar? Una cosa che non esiste?) come marchio di Kieran Hebden, prego abbandoni la sala. Cresce come crescevano le creazioni a marchio Orbital, Boards Of Canada, B12, come mamma Warp ci ha insegnato durante tutti i Novanta. Prima una cosa e poi l'altra, con calma e cura millimetrica. Prima l'ambiente, poi la melodia cut'n'paste e poi i bassi grassi che sembrano spifferi di vento con il gain sbagliato. La stasi dopo l'intro come preludio perfetto alla struttura futuredub di Burial che entra nel flusso come una sassata e fa ripartire il giochino melodico, una cosetta da bambini come in "Everything Ecstatic", con quella capacità di appoggiarsi sopra a ritmiche non sue che Kieran ha maturato nelle collaborazioni con Steve Reid.

Nello stesso periodo, sul profilo Myspace di Flying Lotus appare per qualche giorno una traccia senza titolo composta a quattro mani con Will. Trattasi di un'acerba prova d'intenti dei due, con diversi break sconnessi in perfetto stile FlyLo inseriti in un ipotetico videogame dagli scenari oscuri.  L'anonimo pezzo resterà solo un celere assaggio di un'eventuale nuova collaborazione rimasta tutt'oggi ancora in soffitta. Il 2010 è il secondo anno sabbatico di Will. Ma in realtà la sua musica è già penetrata praticamente ovunque. Se ne accorgono un po‘ tutti. Ed è  possibile scorgere i suoi costrutti finanche alla radio. "Night Air" è il primo singolo del secondo disco di Jamie Woon e Will è magicamente lì. Un successo in cui il timido produttore inglese mette il proprio vitale zampino, dopo essere rimasto profondamente colpito dalla voce calda e ammaliante di Woon al punto da missare anche una sua vecchia traccia, "Wayfaring Stranger".

Arriva il 2011 e arrivano anche altre due collaborazioni eccellenti. Tom Yorke realizza il suo sogno e in trio con Will e Kieran realizza l'Ep Ego/Mirror per la Text. "Ego" è una fuga sensualissima e coloratissima su basi hebdeniane a cui si alterano micro palpitazioni dubstep. Al contrario, "Mirror" offre uno squarcio di pura catarsi 2-step con i consueti breaks del primo Burial da sfondo al cantato malinconico e mesto di Yorke. Pochi giorni e Will esce nuovamente allo scoperto con il suo personale quarto Ep, Street Halo, composto da tre tracce, o meglio tre schegge lanciate dal quartier generale della Hyperdub per svuotare i secchi stracolmi di bava posti sotto le mascelle di una platea sempre più eccitata.  In effetti, cos'altro potrebbe nascondersi dietro l'ennesima rapida apparizione dell'illustre capofila? Un antipasto del terzo meteorite? Un'impaziente anticipazione di quello che delineerà i tratti della creatura in grembo al giovane talento? Nulla di tutto questo. Le voci che circolano nel palazzo continuano a indicare che manca ancora molto tempo all'evento del nuovo decennio e che il presente trittico non ha alcuna pretesa, se non quella di mostrarci le sembianze sonore di un Burial in stato di grazia. Will prosciuga la matassa dal ph prossimo allo zero nell'omonima opening-track, riga in cassa dritta, riprendendo laddove "Raver" calava il sipario di Untrue, mostrando così ingredienti nuovi per il futuro e il suo lato più "danzante". Groove immacolato alternato a un'estasi vocale soppressa solo in parte dalla cavernosità dei bassi e delle sfumature. E l'apoteosi continua. Da contraltare, "NYC" riconduce gli animi nell'ombra: broken-beat appena abbozzato, qualche piroetta per scaldare l'ambiente e una tetraggine da sfondo a voce vocoder in implorazione soul. Il rimbalzo liquido di "Stolen Dog" smorza poi i toni ed evidenzia un'evoluzione più organica del beat.

L'evento resta di quelli grossi, nonostante Street Halo sia solo un Ep, mentre il silenzioso Will continua a mietere vittime a destra e a manca. A contattarlo stavolta sono gli alfieri del trip-hop e in fondo i padri putativi della dubstep: i divini Massive Attack. Nasce così l'ennesima eccitante collaborazione, guarda caso nuovamente sotto forma di Ep, e in edizione rigorosamente limitata. Due tracce distese su un dodici pollici confezionato ad hoc per soli mille fortunati sollevano l'ennesimo polverone (tra l'altro annunciato) in rete. Ai sempreverdi e inossidabili Robert e Grant fa gola il lanciatissimo Will, a pieno titolo prosecutore parziale del suono massiccio dei due vecchi manipolatori di Bristol. Un matrimonio che in qualche modo non spiazza più di tanto gli addetti ai lavori e parte del pubblico, considerate le estenuanti e ripetute fusioni commerciali in atto tra i più disparati produttori. Tuttavia, mai come in questo caso l'amalgama è di quelli che scottano, vista soprattutto la plausibile affinità elettiva tra le tre bestie sacre in questione.
Una traccia a quattro mani e un remix. E' questo il "misero" bottino estraibile dall'incontro/scontro Massive Attack vs. Burial: basi estratte, modellate e deformate dal ragazzo della Hyperdub e voci gestite dal gatto e la volpe. La prima metà del disco è occupata da "Four Walls", in cui i tre si scatenano (si fa per dire) verso il terzo minuto dando vita a una sorta di marcia funebre sorretta meravigliosamente dal canto celeste e al contempo raggelante. Dodici minuti di esotismo elettronico e melanconia a pacchi. Mentre nell'altra metà spunta inaspettatamente una rivisitazione lunare di "Paradise Circus", cantata a suo tempo dalla musa Sandoval nell'onesto "Heligoland".
I tre riescono in qualche modo a mistificare la faccenda, provando a renderla più intimamente estatica, inserendo il solito tappeto sonoro bevaniano da scenario decadente con tanto di coda angelica e rallentamento vocale centrale, supportato dai bassi perennemente profondi e dal tic-tac elettrico fatto ribollire a più riprese e a mo' di magma. Purtroppo, la resa illune che ne consegue non conferisce grandi dosi emotive. E tirando le somme, sembra funzionare solo la stesura congiunta ex-novo tra i pionieri del trip-hop e il perno centrale di quella strana cosa chiamata dubstep.

insideVerso la fine del 2011 è ancora un altro Ep a essere annunciato dal quartier generale della Hyperdub. Secondo Ep post-Untrue, post-capolavoro degli Anni Zero, post-manifesto della nuova dubstep. Così, Kindred scotta fin dal primo minuto. Brucia calore e diffonde lampi di luce, ora tenui, ora improvvisamente accecanti. Le quattro parti che compongono l'introduttiva title track propongono subito gemiti angelici lontani sovrapposti a una secca decostruzione 2-step. William palpita e si disperde. Resta la desolazione. Ma spunta un'oscura speranza. E se con Street Halo il ragazzo preferiva nascondersi ancora nell'ombra, in Kindred c'è da mettere la testa fuori dal guscio e saper mordere. Dopo i meritati apprezzamenti, Will inizia a concepire l'idea di dare una scossa secca al proprio suono, prima che sia troppo tardi e prima che qualcuno cominci a stancarsi dei suoi assidui isolazionismi ritmici. "Loner" è dunque cassa. Will lancia la propria maschera in pista, spiazzando tutto e tutti.
L'introverso produttore si lascia improvvisamente trasportare dal battito del proprio cuore senza più dover fare i conti con personali fantasmi da nutrire. La sua è una fuga androide in scia dancefloor. Al quinto minuto si infiammano i motori prima dell'arrivo. L'ultima propulsione. La meta è raggiunta. Bisogna tornare a casa. Un lento ribollire inquieta i consueti campionamenti vocali. La notte è finita. Ma la vera apoteosi è ancora alle porte. Il terzo capitolo è quello conclusivo, ma soprattutto l'inizio (?) di un nuovo cammino.
A conti fatti, Burial è cosciente di dover sopportare sempre e comunque il "peso" di mostrare nuova materia e nuova linfa dubstep ai contemporanei e ai posteri. Ma William Bevan è anche un ragazzo dalle spalle larghe e il cuore grosso quanto una casa. Così "Ashtray Wasp" incarna tutto ciò che fa di Untrue un disco importantissimo per l'evoluzione stessa della musica dubstep nel pop contemporaneo. I primi quattro minuti mostrano le ali spiegate dell'Arcangelo Will, cambio di rotta nel vuoto prima di raggiungere quota al quinto e continuare a diffondere dall'alto una scarica di orgasmi soul-step, ridotti nelle ultime battute da un ritmo più conciso, in coda magistralmente colorato seguendo l'insegnamento dell'amico Kieran.

A soli sei mesi di distanza esce Truant, sesto Ep in carriera contenente solo due tracce, l'introduttiva title-track e “Rough Sleeper”. A un primo impatto, resta intatta la capacità del ragazzo di coalizzare le proprie esperienze in un’unica mescola. Non a caso, in apertura subentrano tra un morbido stacchetto e l’altro fascinazioni hebdeniane, tintinnii esotici, mentre la sezione ritmica non trova pace e cerca di sollevare dal suolo l’anima dell’ascoltatore, proiettandola in una ricorsa spezzettata di battiti assolutamente imprevedibili, mutevoli a seconda del momento e dell’oscura atmosfera da ricreare.

La successiva “Rough Sleeper” ricalca gli stessi sentieri ma con una maggiore speranza di fondo. C’è una nuova luce. E a tratti la pioggia nella quale Bevan adora rifugiarsi sembra solo un lontano ricordo, mentre una sorta di pulsante ascesa, placata qua e là da improvvise sterzate e pause avanzate a mo’ di fruscio del giradischi, ritrascina i cuori tra l’oblio e il paradiso. L’andazzo è fondamentalmente sempre lo stesso, ovverosia two-step di pregevole fattura zigzagato mediante inquietanti inserti metallurgici, atmosfera vagamente industrial e una malinconia perenne a suggerire alienazione e un imprecisato tormento.


Il cerchio deve ancora magicamente chiudersi. Kindred e Truant potrebbero essere comodamente considerati come un unico disco. Entrambi i 12" incarnano l'ennesima mutazione di un camaleonte urbano, l'ennesima conferma di un talento, l'ennesimo lampo di genio di un visionario. L'oscuro custode e il timido giullare vivono finalmente sotto lo stesso tetto.

Il 2013 segna invece una prima sostanziale svolta. Il ragazzo si ripresenta al pubblico nuovamente con un Ep, il settimo, seguendo l’arcana linea tracciata con successo fin dal principio. Con Rival Dealer, l’introverso manipolatore soddisfa ancora una volta la propria essenzialità produttiva, regalandoci solo (si fa per dire) tre tracce. Coloro che attendevano con ansia il terzo disco sulle lunga distanza, dovranno pertanto accantonare ancora una volta le proprie speranze. All’uomo di punta della Hyperdub piace uscire poco, bene e al momento “giusto”. Nel suo mondo non esistono forzature. E per certi versi ciò non fa che rafforzare lo spessore della propria figura.


L'Ep contiene tre episodi diversissimi a suggerire nuove sensazioni, nuove diramazioni possibili. Spuntano quasi inaspettati umori meno nefasti da palesare. Qualcosa di angelico e metafisico deve aver scosso l’animo del timidissimo Bevan. I richiami a una sopraggiunta serenità sono evidenti, in qualche maniera ricalcati dalla necessità di alternare battiti e sample vocali con improvvise pause di riflessione in scia dream-ambient. Burial estrapola nuovamente voci ed effetti da universi musicali tra i più disparati. Nella stessa title-track se ne contano diversi. La traccia più dinamica del terzetto mescola la solenne esplosività dubstep inaugurata in “Archangel” e momenti di vera e propria quietudine, come appare ben chiaro nella seconda metà del brano mediante il breve ripescaggio di Säju, grazie al quale è palese l’intento di formulare un climax pseudo sacrale modello Enya.

Nella seguente "Hiders"l’uomo dichiara a tutti di aver acquisito una nuova sensibilità melodica, trascinandosi in una sorta di amplesso celestiale che prende improvvisamente quota attraverso una sezione ritmica sorprendentemente eighties. A introdurre invece la conclusiva “Come Down To Us” è un impietoso “Excuse me, i’m lost”, prima che un andazzo orientaleggiante in proiezione Muslimgauze ne rimarchi lo spirito inquieto.

Rival Dealer ci consegna un Burial decisamente più propenso a diffondere i propri turbamenti, il cui nichilismo sembra aver trovato un ammaliante punto d’incontro con una ritrovata speranza. Tuttavia, questa nuova commistione d’intenti non raccoglie appieno i suoi frutti, mostrando in diversi punti tratti soporiferi. Occorrerebbe inoltre un piatto più ricco di pietanze per poter analizzare a fondo l’eventuale nuova direzione. Non resta dunque che continuare ad attendere il terzo Lp, così da poter analizzare al meglio la solidità dell’avvenuta mutazione.


Trascorrono due anni, e Bevan sgancia un singolo bomba per la Keysound intitolato Temple Sleeper. E' uno strano meteorite, in cui traspare tutto l'amore per lo stile garage più contaminato. Il ritmo è frenetico, mentre una tastiera da cinema horror diffonde ansia e smarrimento, tra improvvisi stro&go, assurde accelerazioni minimal, e chi più ne ha più ne metta. Sembra di  trovarsi praticamente nel bel mezzo di un rave hardcore degli Anni Novanta.

Nel 2016 Will decide di affidarsi all'ennesimo maxi singolo. C’è poco da fare: per il manipolatore più misterioso e osannato del dubstep l’album è una sorta di tabù. Reduce dalla collaborazione con l’amico Zomby nel bel singolo a quattro mani “Sweetz” presente in “Ultra”, Bevan torna in pista alla sua maniera, attraverso due tracce tirate fuori ancora una volta in modalità Batman: dal secret listening iniziale spacciato da discogs, passando per una prima smentita ufficiale, e la tanto attesa definita conferma della stessa Hyperdub.

Le due tracce contenute in questo 12” mettono in risalto la smodata venerazione di Burial per pellicole del calibro di “Alien” (i dialoghi estratti qua e là), le atmosfere post rave, le serate uggiose e l’isolamento interiore; un nichilismo che si traduce in soluzioni tese a mettere in pace anima e corpo. Il giovane Burial capace di stordire mediante i fatidici wobble bass, le improvvise sterzate 2-step e le bordate garage talmente potenti da far venire giù le pareti, è oramai un ricordo decisamente lontano.

Spuntano parole di amore e speranza come "I will always be there for you", intonate alla solita maniera, tra campionamenti inaspettati di Keni Burke e del compositore giapponese Koji Kondo, improvvise fermate e battito cadenzato alla stregue degli amici Massive Attack (“Young Death”). Nella seconda metà del piatto, invece, Will accelera (si fa per dire), gioca con la melodia della magnifica “Return to the Origin“ di Mike Oldfield, e campiona la colonna sonora del videogame del 1988 “Last Ninja 2: Back With a Vengeance” curata da Matt Grey; il tutto tra i consueti stop&go alienati, le intramontabili atmosfere oscure e tenebrose, e l’amore spassionato per l’elettronica casereccia e pulsante dei tardi eighties.


A differenza di un singolo bomba come Temple Sleeper, Burial pone in evidenza tutto il suo charme da nerd introverso e sfuggente. E’ letteralmente impossibile stargli dietro e capire se un giorno arriverà il fatidico terzo Lp. Di conseguenza, non resta che aggrapparsi al suo istinto, con la speranza di ritrovarlo quanto prima e con molti più colpi in canna. 
Poci mesi e arriva anche un nuovo Ep, intitolato Young Death/Nightmarket. Il producer londinese mette ancora una volta in bella mostra l'amore per pellicole del calibro di “Alien” (i dialoghi estratti qua e là), e il legame indissolubile con le decadenti atmosfere post-rave; un nichilismo che si traduce spesso in soluzioni tese a mettere in pace anima e corpo. Il giovane Will capace di stordire mediante i fatidici wobble bass, le improvvise sterzate 2-step e bordate talmente potenti da far venire giù le pareti è ormai un ricordo decisamente lontano.
La pioggia che cade imperterrita alimenta nuovamente il disagio, e spuntano parole di amore e speranza come "I will always be there for you", intonate alla solita maniera, e poste da contraltare all'umore cupo e melanconico, tra campionamenti inaspettati di Keni Burke, del compositore giapponese Koji Kondo, e battiti cadenzati alla stregua degli amici Massive Attack (“Young Death”).


Arriva il 2017 e Burial rilascia un remix della memorabile "Inner City Life" del grandissimo Clifford Joseph Price, aka Goldie. In occasione del Record Store Day 2017, la Metalheadz, storica label di stampo drum’n’bass, decide di ristampare in versione speciale l'epocale traccia di Goldie, inserendo al suo interno anche la rivisitazione di William Bevan. E’ solo un assaggio di quello che sarà a suo modo un anno intenso per il buon Will.
E così, dopo aver riletto il pioniere Goldie in occasione del Record Store Day, la punta di diamante della Hyperdub conferma il suo ritrovato attivismo e si ripresenta alla sua maniera, sganciando a sorpresa il presente Ep da due tracce, intitolato Subtemple. Come da consuetudine, anche in questa nuova produzione il producer londinese punta tutto sulla sostanza, senza badare minimamente alla propria “immagine”, così come a cover ammiccanti e altre diavolerie con fini meramente promozionali. Il suo intento è semplicemente diffondere la propria musica. A conti fatti, Bevan continua a rimanere nell'ombra, "fregandosene altamente" delle varie prassi. A ogni modo, in queste due tracce “spunta fuori” il Burial più desolato. Il misterioso producer della scuderia di Kode9 non fa sconti nemmeno a sé stesso. Sia l’introduttiva title track, sia la successiva "Beachfires" alimentano un disagio fortissimo, e mettono in luce un climax tanto tetro, quanto estremamente melanconico. Si susseguono una dietro l’altra voci a intermittenza, frattaglie da cinema horror, rumori urbani, conversazioni prese da qualche angolo remoto della sua Londra, e suoni talvolta impossibili da decifrare. In questo schema depressivo, il cui orientamento sonoro non sempre giunge a destinazione, spuntano qui e là un orologio a tic tac, e poche note al piano che fungono da metronomo e da “melodia” all’insieme. Un insieme comunque nerissimo, da cui traspare per l’ennesima volta un immane distacco dal mondo, un isolamento da cui spesso è impossibile fuggire. Insomma: prendere o lasciare.

 

Ma il 2017 verrà ricordato soprattutto come uno degli anni più intensi per William Bevan. Dopo aver scosso un po’ tutti con il desolatissimo Ep da due tracce Subtemple, il ragazzo decide finalmente di abbandonare per un attimo la propria trascinante melanconia, regalandoci qualcosa di estremamente diverso.
Rodent segnala dunque una totale divergenza dal mood oscuro e alienato delle due tracce sganciate nella prima metà dell’anno, e mette in bella mostra un approccio totalmente votato a certa deep-house. A tratti sembra di ascoltare il Larry Heard (!) più deep dei Novanta. Burial riempie l’atmosfera con i suoi classici e reiterati inserti vocali dal vago piglio soul e salta fuori finanche un sax a intermittenza. Uno smacco per tutti coloro che dopo i fasti del precedente Ep avevano già sentenziato la fine dell’imprevedibilità del Nostro e del suo amore per la cassa dritta in quattro quarti. Ma non è tutto. A spiazzare ancor di più, è la successiva rivisitazione della medesima traccia ad opera di sua maestà Kode9, il quale stravolge letteralmente l'impasto con una stropicciatura personalissima a base di ritmi jangle, improvvise sterzate cibernetiche al synth, texture organiche, cambi di direzione epocali e da capogiro negli ultimi due minuti che lanciano letteralmente in orbita l’intero scheletro quanto creato in origine da Burial. Un remix capolavoro in stile footwork che definire il migliore dell’anno è un eufemismo. E un Ep che sorprende e che finalmente rigenera.

Burial torna a presentarsi nel caldissimo 2017 preannunciando come un normale producer (ebbene, sì!) l’arrivo del suo nuovo Ep da due tracce, intitolate “Pre Dawn” e “Indoors”. Stavolta, la vera notizia non è l’improvvisa apparizione del Nostro, bensì il suo momentaneo passaggio alla Nonplus di Alexander Green, aka Boddika. Una label più giovane e diversa come appeal e stile dall’ormai storica Hyperdub. 

Ciò nonostante, Burial decide di rimanere in parte fedele a sé stesso e al contempo di mettere in riga due bombe nucleari che per certi versi assecondano la sua follia, il suo distacco da tutto e tutti; mentre per altri versi lo proiettano su nuovi binari, nuove coordinate che alla fine del tunnel ci conducono in una sorta di giungla cibernetica in cui spunta supina una selvaggina hardcore da paura.
E' quindi un Burial cattivissimo, selvaggio, cinematico, disturbante, coatto, quello che traspare nell’introduttiva title track. ll Burial che proprio non t’aspetti. Certo, le pause desolanti a metà del brano e le oscure frattaglie in coda sono da tempo immemore parte integrante del suo marchio di fabbrica, ma la ripartenza acidissima e viperina che ne consegue esalta e spiazza oltre ogni misura. Nell’altra metà del piatto, troviamo invece un arricchimento sonoro nei primissimi istanti decisamente più cinematografico. Ma è solo una fugace illusione. Pochi attimi e spunta una cassa sfibrata e pulsante con voce minacciosa e ripartenza house assolutamente magnifica. 

La faccenda si amplifica con lo scorrere del tempo e l’andazzo killer non cessa fino a quando non subentra il solito stop&go dal piglio malinconico tutto breaks e sfarfallii cinetici. Insomma, con Pre Dawn/Indoors siamo dinanzi a una sorta di capovolgimento di fronte dal guizzo industrial da cui è letteralmente impossibile fuggire. Qualcosa di deviato e inconsueto. Di certo, non è lecito sapere se tutto questo possa fungere da preavviso a ulteriori sterzate. Viste le varie svolte dell’anno, e i cambi di direzione attuati, con Burial c’è da aspettarsi veramente di tutto. Nel frattempo, “lecchiamoci i baffi” e godiamoci a tutto volume queste due perle. Il futuro può attendere. 

 
Il 6 dicembre 2019, in occasione del quindicesimo anniversario della Hyperdub, esce la raccolta Tunes 2011-2019. E' il manifesto definitivo di una crescita mutata a seconda dell’esigenza e dell’umore del momento, dominata in ultima battuta dall’ibrido house-dubstep di “Claustro”, che con gli otto minuti di “State Forest”, capaci di definire un paesaggio tanto deturpato quanto meravigliosamente fosco, formano l’ultimo riuscitissimo Ep da due tracce di Bevan. La cernita è senza dubbio gustosissima, anche se mancano gli improbabili richiami deep-house di “Rodent” e quel miracolo garage targato Keysound che fu "Temple Sleeper". Scarti opinabili a seconda dei palati, per un insieme che già trascina con sé la nostalgia di un’epopea gloriosa. 

Due anni dopo è la volta dell'ennesimo Ep improvviso da due tracce: Chemz/DolphinzInsomma, il talento per antonomasia della Hyperdub proprio non vuole saperne e continua a centellinare le sue produzioni. E lo fa dividendosi tra momenti altissimi e altri di grande incertezza. “Chemz” è infatti un movimento ricco di torsioni in scia garage, inserti neo-soul, sample di ogni tipo confezionati con brio, a differenza delle uscite più recenti, votate perlopiù a una drammaticità di fondo e al solito nichilismo in salsa dubstep, marchio di fabbrica collaudato del musicista londinese fin dagli esordi.

Basterebbe sottolineare il cambio totale di ritmo intorno al sesto minuto, e quello ancora più frenetico verso il dodicesimo. Burial è scatenato. E' in versione hardcore (!). E pesca, tra un'accelerazione e l'altra, qualsiasi cosa. Tra gli altri, troviamo spezzoni di Michael Jackson, Ne-Yo, Mary Elizabeth McGlynn, Freeez, Lori Ruso, Linda Ross, Eden Transmission. Tre capitoletti, dunque, a formare un unico grande primo atto che potrebbe rappresentare (si spera tanto) il futuro.
’altra metà del piatto, occupata da “Dolphinz”, dura circa tre minuti in meno. Con essa, ricompare il climax tenebroso. L'oscurità appagante.  Nei primissimi istanti spuntano finanche suoni analogici alla stregua degli Add N to (X) (per intenderci), messi in scena prima che un synth immacolato anticipi i soliti passi isolati misti per l’occasione a un’indecifrabile variazione di luci e ombre, sirene distorte, respiri affannati e rumori di vario tipo. Senza girarci più di tanto: esattamente l’opposto di ciò che accade in precedenza.
Tirando le somme, Bevan continua a stupire nel (super)benissimo e nel “malino”. Non ce ne voglia ma sarebbe anche giunto il momento del grande ritorno. I flash improvvisi cominciano a stancare e ad abbagliare un po' troppo, spesso in maniera anche confusa.

Al netto della dicitura “Ep” francamente evitabile, scelta forse per “affetto”, o mera continuità con il passato (vallo a capire!), l'atteso Antidawn EP supera ampiamente la soglia dei 40 minuti ed è composto da cinque movimenti che per certi versi hanno poco a che fare con le inclinazioni ritmiche palesate qui e là negli ultimi due lustri. Perché ad ascoltare gli undici minuti di “Strange Neighbourhood” la sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un ologramma sfocato di Vanessa Rossetto (!). Tradotto: rumori sparsi, imprecazioni alla rinfusa o abbastanza dozzinali (“Make me feel like I'm in love”), con il consueto filtro un po’ vocoder, un bel po’ Alvin and the Chipmunks sotto metadone. Insomma patchwork, destrutturazioni in apparenza casuali, o meglio la notte secondo William Bevan ma senza la sua musica. E' in sostanza una suite insignificante, dalla sofisticazione melliflua, di cui davvero si fatica a comprendere l’essenza.

Si passa così alla title track e alla decantata oscurità della notte, fascinazione secolare di Burial, in cui la perdizione regna ancora una volta sovrana: “I'm in a bad place / With nowhere to go”. C’è assenza di battito, musica, melodia. Addirittura spunta il suono di un accendino malfunzionante, tra grilli, droni vaporosi, “pause” (da cosa?) e parole come “Tonight, i know it's coming”. In parole povere: sembra di stare con poche persone sull’ingresso di una chiesa e attendere l’entrata del parroco, mentre il sacrestano prova in lontananza qualcosa che dovrebbe somigliare a un organo, a frammenti di registrazioni sacre di cui non si capisce manco la liturgia da reggere. La riduzione al sopracitato vapore, ostentata in presentazione, è dunque un’inutile fascetta.

“Shadow Paradise” prosegue al centro del piatto nella medesima non-direzione. C’è però un accenno all’organetto, che a quanto pare dovrebbe garantire una vacua percezione dell’oblio alla base di tutto: “Lonely, there's one / Alone in our reverie”. E la faccenda non cambia nemmeno in “New Love” e “Upstairs Flat”. Certo, si potrebbero stiracchiare nuove iperbole rischiando di apparire soporiferi quanto l'album in questione, ma la verità è che ci si ritrova soltanto al punto di partenza, ossia in compagnia di Bevan alle porte di una chiesa in pieno inverno, tra rumori e voci sparse.

La domanda nasce purtroppo spontanea: perché Burial ha deciso di tirare fuori un disco come Antidawn EP? Nessuno lo saprà mai. E alla fine non resta che entrarci per davvero in chiesa, con il nobile intento di pregare un ritorno quantomeno degno del suo nome.  

La logica imporrebbe invece Streetlands come naturale prosecuzione di Antidawn Ep. L’imprecisato cammino di William Bevan verso una non-direzione. L’assenza di battito, i sospiri da metronomo tra le partiture, il deflusso incessante di rumori, a bramare talvolta l’abisso, altrove uno spazio impossibile. Ma per quanto l’approccio resti sostanzialmente affine al passato più o meno recente, in particolare nell’introduttiva “Hospital Chapel”, Streetlands espone qualcos’altro.


Sacralità, innanzitutto. Estasi dello spirito. Come d’altronde suggeriscono i cori tibetani quasi strozzati a mezza via nella title-track. Preghiere da un universo parallelo che ha il suo ponte di Einstein-Rosen nell’anima di Burial. Nei suoi pensieri. E nel suo essere ancora una volta maledettamente sfuggente sul piano produttivo.
E’ un’imprevedibilità dei toni che si assesta nella terza parte del movimento, toccando addirittura quote paradisiache, quantomeno a intermittenza. Già, perché lo scopo di Burial è ascendere a scatti. Propendere verso l’alto senza mai azionare il protossido d'azoto, o nos se preferite, cullandosi in una sospensione perenne che diventa ansia di liberazione attraverso voci filtrate di angeli che volano nell’ombra.
Si diceva di una musica adirezionale, dunque. Stabile in ogni direzione come ioni. Elettrostatica che si fa pulsante in “Exokind”, per un miracolo di mera progressive electronic ambientale.


William nel 2024 mette da parte (?) l’amata Hyperdub per iniziare magari a farsi largo tra le fila della XL.
Accantonati gli isolazionismi ambient del recente passato, l'assenza di cassa e di una direzione precisa, in Dreamfear Burial riagita le acque con una doppietta che fa ripensare all’altra sua comparsata con un’etichetta diversa dal solito, la Keysound di Dusk e Blackdown, nell’ormai lontano 2015: Temple Sleeper.
Dunque break come la jungle di trent'anni fa comanda, con ripartenze in controtempo verso l’universo freestyle, contorsioni qui e là e pause improvvise come se ci fosse da cambiare spesso il lato di un vinile. Insomma, la title-track è un assalto frontale misto a sassate lanciate da ogni direzione possibile. Tredici minuti di beata irrequietezza con sample talvolta indistinguibili, che raggiungono l’apice intorno al decimo attraverso una partitura assassina che anticipa un finale da rave party assoluto. Prendere o lasciare, va da sé.
Tuttavia, se con l’anonimo Unknown Summer, partorito nell’estate del 2023 insieme al fidato Kode9, Burial aveva fatto pensare ormai al peggio, con una serie scontatissima di incalzate dubstep frullate con le solite vocine eteree, a questo giro rimette le cose in chiaro, riprendendosi dal torpore con un uno-due comunque sia micidiale, al netto della nostalgia spesse volte un po' discola.
“Boy Sent From Above” comincia invece tra le ferraglie: c’è una bomboletta campionata che si dimena prima di dipingere figurativamente un movimento di circa altri tredici minuti, tra melodie eurodisco, repentini stop&go, e un beat meno selvaggio ma più centrato.
Burial accelera, decelera, gioca con trovate orientaleggianti prese in prestito da qualche disco dimenticato da Dio, altre volte pesca linee al piano accendendo i motori e le luci rosse della sua KITT, infine inscena la sua festa e ci dice che il battito è ancora vivido e che le lancette dell’orologio dalle sue parti, in quel suo stranissimo mondo, si intrecciano seguendo uno stato d’animo stavolta vibrante, per quanto comunque ancorato a una perdizione immutabile.
Peraltro anche nella seconda traccia del lotto, il decimo minuto è quello più sorprendente, con una bassline adrenalinica che riporta tutto da qualche parte della memoria, ossia tra il pavimento da consumare con il culo a furia di break dance e i cancelli in lontananza di un capannone dismesso.

Contributi di Alberto Guidetti ("Untrue", "Moth/Wolf Cub")

Burial

Discografia

South London Burroughs Ep (Hyperdub, 2005)

7

Distant Lights Ep (Hyperdub, 2006)

7

Burial (Hyperdub, 2006)

8

Ghost Hardware Ep (Hyperdub, 2007)

7,5

Untrue (Hyperdub, 2007)

9

Burial + Four Tet - Moth / Wolf Cub Ep (Text Records, 2009)

7,5

Street Halo Ep (Hyperdub, 2011)

7,5

Massive Attack vs Burial - Four Walls - Paradise Circus Ep (The Vinyl Factory/Inhale Gol, 2011)

6

Burial + Four Tet + Thom Yorke - Ego / Mirror Ep (Text Records, 2011)

6,5

Kindred Ep (Hyperdub, 2012)

8

Truant Ep (Hyperdub, 2012)

7

Rival Dealer Ep(Hyperdub, 2013)

6,5

Temple Sleeper (Keysound, 2015)

7,5

Young Death / Nightmarket Ep (Hyperdub, 2016)

6,5

Subtemple (Hyperdub, 2017)

6

Rodent (Hyperdub, 2017)

7,5

Pre Dawn/Indoors (Nonplus, 2017)

7,5

Claustro /State Forest (Hypewrdub, 2019)

7,5

Tunes 2011-2019 (Hyperdub, 2019)

8

Chemz/Dolphinz (Hyberdub, 2021)

6,5

Antidawn EP(Hyperdub, 2022)

5

Streetlands(Hyperdub, 2022)

7

Infirmary/Unknown Summer (Fabric Originals, 2023)
Dreamfear (XL Recordings, 2024)

7,5

Pietra miliare
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Myspace
Hyperdub - Burial (streaming di Ep)
  
 VIDEO
  
Distant Lights (video da Burial, 2006)
Ghost Hardware (video da Ghost Hardware, 2007)
Street Halo (video da Street Halo, 2011)
Archangel (video da Untrue, 2007)