Four Tet

Four Tet

As joyful as your life

La sua musica calda e giocosa ha rivoluzionato in punta di piedi l'elettronica dell'ultimo decennio. I suoi timbri acustici hanno dato il via alla moda folktronica. Dagli esordi jazzati alle recenti infatuazioni dance, è sempre stato alfiere di classe, leggerezza e solarità. Esploriamo l'arte di Kieran Hebden

di Marco Sgrignoli, Giuliano Delli Paoli

"È elettronica, ma non sembrerebbe". Così Four Tet, al secolo Kieran Hebden, descriveva la sua musica qualche anno fa. Oggi queste parole suonano disorientanti: che l'elettronica possa suonare mite ed esprimere le emozioni di ogni giorno ci sembra la cosa più normale del mondo. Non era così a metà anni Novanta, e la storia di questa "normalizzazione" non è separabile dal nome di questo ragazzo anglo-indo-sudafricano.

Se il computer suona free-jazz

Londinese, classe 1977, Kieran Hebden è cresciuto coi vinili di papà e la drum'n'bass diffusa a scuola nell'aula studenti. Al liceo si dedicò al post-rock assieme agli amici Adem Ilhan e Sam Jeffers - ancora oggi, i Fridge. La svolta però arrivò con l'università: costretto a provare con la band solo nelle vacanze, dovette trovare altre vie per la sua irrefrenabile passione musicale. La prima fu gettarsi a capofitto nell'ascolto del free-jazz; la seconda sviluppare a modo suo un'intuizione del lo-fi americano: per fare musica entusiasmante, la propria cameretta è più che sufficiente.

Da questa euforia iniziale nacquero i primi lavori solisti, rilasciati sotto vari nomi: 4T Recordings, Joshua Falken e, finalmente, Four Tet. Il ventaglio stilistico si rivelò subito ampio, nonostante la semplicità dei mezzi impiegati: un pc, qualche software freeware e svariate cartelle di sample, jazz e non, raccattati qua e là. Le tracce spaziavano dalla techno al post-rock, ma mostravano chiaramente una predilezione per il suono "arroventato" del jazz psichedelico e i beat hip-hop. La stampa parlò di intelligent dance music, come per Aphex Twin, Autechre, Plug, ma la distanza dal sound algido e cervellotico di quegli artisti è evidente: "Tutti sembravano guardare alla fusion; io invece volevo cogliere l'anima scura, diabolica del jazz che amo. E la sua dimensione spirituale. Sono un ragazzo europeo di media famiglia: i ritmi della musica nera non fanno parte di me, ma grazie al computer ho potuto prenderli a prestito dai dischi".
Così le uscite di fine anni Novanta - su tutte Thirtysixtwentyfive e Dialogue - sono un tributo al jazz più torbido, un appassionato smonta-e-rimonta di ritmi e atmosfere che rende realtà un suono altrimenti irraggiungibile per uno studente universitario inglese.

Historia folktronica

Ma a Kieran Hebden non piace stare fermo. Sull'inizio del nuovo millennio, gli stimoli circostanti erano troppi per restare ancorati alla rivisitazione del dark-jazz. In particolare, furono le produzioni r'n'b di Timbaland e Rodney Jerkins a smuoverlo. "C'era questa traccia di Whitney Houston, ‘It's Not Right But It's Okay', tutta arrangiata con la kalimba. E poi quell'altra di Brandy & Monica, 'The Boy Is Mine', con l'arpa in primo piano. Mi sono reso conto che potevo essere molto più ambizioso a livello di suoni. Una volta che hai a disposizione un computer e migliaia di sample, nessuno ti obbliga a fermarti ai soliti strumenti usati nel solito modo."
Di pari passo, venne la passione per il folk celtico. Non tanto per le canzoni e le tradizioni, quanto per le texture e il calore di quella musica. Accanto ai vinili free-jazz, andarono ad ammassarsi dischi di Pentangle, Fairport Convention, Fotheringay, e anche l'hard disk si riempì di nuovi sample. "Quello che sentivo mancare in quei dischi era un elemento ritmico più deciso. Qualcosa come una fusione di kraut-rock e british folk." Non trovandola pensò di realizzarla lui, sul suo computer.
Pause, Rounds e dischi coevi nacquero con questo spirito. Ma finirono per rappresentare molto di più: la critica andò in visibilio per quell'incontro di schemi elettronici e suoni acustici, coniò il termine folktronica e iniziò ad applicarlo a destra e a manca. Books, Prefuse 73, Múm; poi Tunng, Colleen e molti altri: tutti questi nomi furono accostati, e la loro musica ricondotta a un comune sentire - un "nuovo verbo" di timbri caldi, atmosfere confortevoli e un po' rustiche, elettronica dall'aria innocente e malinconica. Essenzialmente, lo spirito indie che in un colpo solo si appropria del folk e dell'eredità idm.
Fondata o meno che fosse l'etichetta, qualcosa in effetti stava succedendo. Per la prima volta c'era una schiera nutrita di band e ascoltatori che vedevano nel computer lo strumento più adatto per esprimere le emozioni di ogni giorno. Non più soltanto una scatola magica da cui estrarre suoni alieni, astratti, esasperatamente contorti.

Kieran Hebden non fu però entusiasta di questa catalogazione: "Non coglie che una piccola parte della mia musica", sosteneva. Aveva ragione. In primo luogo, il computer non era nelle sue tracce uno strumento da affiancare a chitarre e tamburelli, ma il mezzo per superarli: un modo per suonare l'insuonabile non più solo per lui, ma per chiunque altro: suoni manipolati, mandati al contrario, ritmi e contrappunti arditi che si incastrano con precisione e naturalezza impossibili per qualsiasi musicista.
Le emozioni create, poi, andavano ben oltre il clima intimo e conviviale dei suoi folktronici colleghi. Riprendendo sensibilità e metodi del minimalismo classico, da Reich a Riley passando per Nyman, Four Tet accese per la prima volta l'anima "spirituale" a cui puntava col dark-jazz degli esordi. Una magia fatta di piccole cose, istanti semplici che, visti con occhi sinceri, rivelano un mondo più luminoso.

Dalla stanzetta al dancefloor

Indispettito dall'incasellamento fornito della stampa, e soprattutto entusiasta del suono impreciso e sgranato dei live, Four Tet arrivava a metà anni Duemila con una gran voglia di sparigliare le carte. Proprio mentre folktronica diventava un biglietto da visita da sfoggiare su Myspace, lui virava su un suono caotico, rumorista, fortemente percussivo. I due Everything Ecstatic (album ed Ep) facevano scontrare il jazz rovente di Dialogue e il minimalismo festante del periodo folktronico, aggiungendo nuove variabili a complicare i giochi, su tutte difetti elettronici (glitch, si diceva ormai) e contorsionismi ritmici che sembravano cercare la riconciliazione col drum'n'bass. L'aspetto più rilevante di questa fase è però la ricerca - per il momento solo ideale - di una via di fuga dal "sound da cameretta": fin dall'inizio, i brani sembravano pensati più per la rielaborazione e gli alti volumi dei concerti che per la placida riproduzione tramite hi-fi domestico.

Negli ultimi anni, l'esplorazione della dimensione live è stata in effetti sempre maggiore. Come sempre, Four Tet ha girato mezzo mondo portando in tour il materiale dei suoi dischi - evitando accuratamente di rievocarne l'atmosfera in modo fedele. "Il  concerto permette di sintonizzare le mie emozioni e quelle del pubblico. È un attimo irripetibile in cui posso dare a chi ascolta un'istantanea del mio stato d'animo musicale. Non posso sprecarlo cercando di ricreare l'album!". Da questo punto di vista, il suo spirito è analogo a quello jazzistico: le tracce sono punti di partenza, materia grezza da riforgiare ogni volta improvvisando, in base alle sensazioni del momento. Proprio questa affinità elettiva col mondo jazz lo ha avvicinato al leggendario batterista Steve Reid, col quale a partire dal 2006 ha realizzato quattro dischi e innumerevoli concerti.
L'altra grande novità sul fronte live è stata la scoperta del djing. Mettere su dischi per far ballare la gente potrà sembrare banale, ma Four Tet fino a pochi anni fa non ci si era mai dedicato. Nel 2007 ha iniziato con qualche serata al The End di Londra, ed è stata una folgorazione: "Ho sentito di nuovo l'eccitazione della novità. Ho avuto di nuovo paura". La nuova esperienza lo ha spinto verso la minimal techno e la Chicago house dei tempi d'oro. E verso tutto il fermento dubstep/2-step che sta spopolando a Londra. "La dance è il mondo più avventuroso in possibile in questo momento. È enormemente più dinamica del rock: ora che è tornata un po' nell'underground, la gente che si vede nei club è davvero lì per la musica!"

La passione per la dance culture ha offerto a Four Tet quello che da tempo cercava, la strada maestra per emanciparsi dalla "cameretta". Nel 2009 è stato resident dj al Plastic People, il tempio del dubstep. Ha collaborato con Burial - suo compagno di scuola al college - pubblicando il 12'' più venduto dell'anno nel Regno Unito. E ora è nel vivo di una nuova fase creativa, in cui le sue passioni di sempre si combinano ai beat essenziali della musica da ballo. Oggi più che mai, Four Tet è alla ricerca di quelle emozioni imprendibili che corrispondono all'estasi e al sublime, e ne vede il compimento nell'euforia del dancefloor. "Amo la beatitudine che si crea quando si entra davvero in sintonia con la musica. È illuminante, fa capire quanto possiamo amare davvero la vita e ogni suo istante."

Cuore e fai da te

Negli ormai dodici anni di attività, Four Tet ha attraversato molti stili; tutti però figli dello stesso spirito, una serena combinazione di curiosità e Do-It-Yourself. Ancora oggi, la sua musica nasce da un pc contenente il minimo indispensabile, software poco aggiornati e un microfonino avuto in dotazione con la prima scheda audio. Niente Mac, niente Ableton, ProTools e similari: Four Tet è consapevole che i limiti stimolano la creatività, e sa che l'estrema libertà offerta dagli strumenti più in voga nasconde un indirizzamento verso schemi e suoni preordinati. "Di molta elettronica che esce oggi, puoi immaginare come appaia sull'interfaccia di questo o quel programma. I produttori sono così assorbiti dall'aspetto visivo che iniziano a pensare la musica in quei termini, a stare al gioco proposto senza metterlo in discussione. Se però suoni la chitarra, non sei obbligato a utilizzarla come ti insegnerebbe il tuo maestro di musica, e la cosa è decisamente interessante. Uno dei motivi per cui io faccio musica elettronica è che le idee che ho in mente non si possono realizzare su una chitarra, ma su un computer sì. Creare qualcosa di unico con un computer è molto più facile, se solo non si lascia che la praticità dei programmi diventi un freno per la creatività."

Kieran Hebden è molto lucido riguardo alla sua musica, ed è chiaro quanto di se stesso vi metta in gioco a livello di vita ed emozioni. Il carattere essenzialmente strumentale delle sue composizioni non ha mai impedito agli ascoltatori di identificarsi: "Mi chiedono spesso ‘Perché c'è questo suono? Di chi è questa voce?' In quei momenti, mi rendo conto di quanto la gente legga dentro a me e alla mia musica". I suoi dischi sono un diario, le tracce portano a esperienze e ricordi - il cuore di un bambino che deve ancora nascere, la figlia di un amico che suona un pianoforte giocattolo, sua sorella Leila che si lamenta perché Kieran apre gli scuri delle finestre. Questa capacità di "riempire di vita" la musica emerge particolarmente nei tanti remix che negli anni gli sono stati commissionati: "Non riesco a lavorare su una traccia che mi viene affidata finché non la faccio mia. Deve collegarsi alla mia vita: solo allora posso iniziare a pensare 'Questo lo tengo, questo lo tolgo'".
Nonostante la carriera più che decennale, Four Tet è un musicista ancora pieno di idee e vitalità. A rendere la sua musica sempre una ventata di aria fresca è la sua instancabile curiosità. Alla domanda: "C'è qualcosa che avresti voluto sapere prima?", Kieran Hebden risponde: "No, piuttosto vorrei che non finissero mai le cose da scoprire. Il momento della scoperta crea un'ingenuità che adoro, e una volta terminata non si può più riaverla indietro. Ma in questo periodo stanno succedendo così tante cose nuove! Ho una voglia matta di essere in prima linea, a esplorarle tutte."
Finché lo spirito è questo, il futuro è roseo.

Guida all'ascolto


La discografia di Four Tet ammonta a più di trenta uscite, remix esclusi. La qualità media è assai elevata, e anche i capitoli "minori" nascondo spesso piacevoli sorprese. Alcuni commenti stringati potranno aiutare il lettore a decidere con cosa iniziare, e come in seguito approfondire. L'elenco evita le uscite interamente comprese in dischi successivi e non comprende i lavori dei Fridge, così come i quattro dischi a nome Kieran Hebden + Steve Reid, che meriterebbero un capitolo a sé.

Album, Ep

Thirtysixtwentyfive, 1998: monotraccia di trentasei minuti, già orientata ad atmosfere dark-jazz, ma senza la "focosità" del successivo Dialogue. È un lungo flusso downtempo, in cui più che la mano di Hebden, si notano le influenze: i Tortoise di "Millions Now Living Will Never Die" nelle sezioni più diradate e l'astrattismo drum'n'bass di Photek nella costruzione ritmica.

Dialogue, 1999:il primo disco sulla lunga distanza arriva alle soglie del nuovo millennio. Il giovane Kieran è finalmente conscio di volersi misurare in tutto e per tutto con la propria sensibilità compositiva. Dialogue segna l'inizio di un percorso maturato nel tempo, nel quale free-jazz e ritmiche fusion tendono a dissolversi in sfumature folcloristiche, deviate all'occorrenza da un beat smorzato, turbato (“The Butterfly Effect“). Se potessimo decifrare appieno lo spirito del musicista londinese, verremmo invasi da un flusso di luci, colori, visioni celesti. Siamo dinanzi a un caleidoscopio di giochini al laptop. A tratti salta fuori finanche certa lounge-music in da club, come nella traccia di apertura, "The Space Of Two Weeks", con i suoi saliscendi jazzy, filtrata così com'è da inserti etnici pescati da carcasse di vinili di musica tradizionale indiana. In "Chiron" e "Alambradas" spuntano sitar spediti in loop, frantumati digitalmente da un groove saraceno e guazzabugli afro. Nelle fantasie di Hebden le percussioni giocano sempre un ruolo centrale, e la massa glitch da sovrapporre tende ora a disorientare, ora a seguire i vari cambi di direzione. Trattasi in prevalenza di bozzetti elettronici che evidenziano la compostezza del giovane compositore inglese, introducendone, a viso aperto, i caratteri predominanti. "Dialogue" è il primo piccolo grande passo verso la consacrazione di un modello che esula dalle mode e dalle tendenze elettroniche in voga nei primi anni Zero. È un patchwork digitalizzato che annuncia in grande stile l'entrata in scena di un maestro.

Pause
, 2000: un ulteriore passo in avanti verso il perfezionamento definitivo della mescola. Stavolta il potpourri è aromatizzato seguendo ritmi più pacati, in un'istantanea luminosissima di colorazioni glitch. Tutto scorre seguendo un'attitudine meditativa. Il dado è tratto assecondando la pace dei sensi. Non mancano le accelerazioni, attuate con classe in "Untangle" e nel singolo bomba "No More Mosquitoes". La prima, è estatica chilly fatta vibrare in cassa dritta. Nella seconda, Hebden azzarda un groove cibernetico, metafora sonora pungente del dramma causato da milioni di zanzare tigre nel sud-est asiatico. È un disco in cui il nostro sfoga con parsimonia la sua arte combinatoria, nel quale abbondano field recording utilizzati a mo' di carillion, carezzevoli toc-toc che precedono trombe in festa ("Twenty Three"), tremolii campionati da arnesi domestici fusi in scatole cinesi che schiudono all'unisono ("Harmony One"), voci infantili poste in lontananza e in apertura a fascinazioni acustiche pregne di nostalgia ("Parks"). È come se Hebden immaginasse il proprio Eden cercando di configurarne un'ipotetica colonna sonora. In Pause regna la pacatezza e l'armonia interiore di un musicista dall'animo nobile. In tal senso, il morbidume acustico di "Leila Came Around And We Watched A Video" e il fraseggio radioso di "Everything Is Alright" sono i due momenti in cui tale equilibrio raggiunge la sua più completa epicità. È il preludio all'imminente capolavoro.

No More Mosquitoes
, 2000: oltre alla title track, poi presente anche in "Pause", questo Ep contiene tre brani dalla netta dominante folk. "Warmer Places" e "Flon" i più interessanti: il primo è un tentativo riuscito di costruire un "lento" meditativo su schemi ritmici r'n'b; il secondo calca la mano sulla componente glitch prendendo di mira un qualche sample british folk, che ne esce del tutto sminuzzato senza perdere nulla della sua solarità, ma guadagnandoci in dinamismo.

Paws, 2000: Ep che rielabora materiale del contemporaneo Pause. L'unico brano a firma Four Tet è "Glue Of The Otherworld", che maciulla l'originale "Glue Of The World", tramutandolo in unfunky astratto modello Akufen (!). Negli altri tre pezzi, Koushik, Manitoba (poi Caribou) e Boom Bip si danno al remix. Strepitoso il lavoro di Koushik, che trasforma "Hilarious Movie Of The 90s" in un raggiante crescendo neo-sixties con tanto di cantato.

Rounds, 2003: il capolavoro del Four Tet folktronico, che incarna e assieme trascende tutte le caratteristiche del suo stile del periodo. Le composizioni sono più equilibrate che mai, prive di sbavature e pressapochismi avant-. Pochi sample per ciascuna, scelti col cuore e secondo le sue regole ricombinati in un caleidoscopio di ritmi e suoni. La componente folk/acustica è del tutto amalgamata agli elementi jazz e hip-hop: lo spirito che ne risulta è qualcosa di assolutamente a sé, non ricollegabile a questa o quell'altra ispirazione.
Un paio di aneddoti e curiosità riguardo al disco (per il resto, si veda la nostra pietra miliare): il cuore che apre la prima traccia non è umano, ma canino. Proviene da un Lp degli anni Settanta destinato ai veterinari. Il termine rounds indica in inglese i canti a canone (tipo il nostro "Fra Martino campanaro"): Hebden l'ha scelto come titolo pensando al carattere ciclico della sua musica, tutta basata su ripetizione e sfasamenti. La traccia "Unspoken" originariamente conteneva una melodia pianistica diversa, campionata da "Winter" di Tori Amos. Omessa dall'edizione finale per questioni di copyright, figura comunque nella versione promozionale del disco distribuita a suo tempo alla stampa.

Everything Ecstatic, 2005: l'unica delle uscite principali che possa considerarsi una "sbandata" all'interno della carriera di Four Tet. Hebden non ha ancora chiara la strada da seguire e vuole soprattutto scrollarsi di dosso l'etichetta folktronica. Resta comunque un album riuscito, pur se meno a fuoco degli altri.
Fin dalla prima traccia, è chiaro il ritorno di quel sound torbido che aveva marcato a fuoco Dialogue: invece del jazz, però, qua c'è rumorismo bello e buono, con un bassone ruggente e una pioggia costante di glitch. Four Tet si concentra molto sulle ritmiche, non solo lavorando di fino - come consueto - e variandole all'interno dei pezzi, ma rivoluzionandone addirittura l'impianto. Agli equilibrati suoni acustici, preferisce questa volta l'opposizione netta tra asciutti click elettronici e sample percussionistici dei più fragorosi. Anche i pattern si fanno più carichi del suo usuale hip-hop decostruzionista: molti hanno una cadenza adatta alla camminata, ma lo scopo sembra sempre quello di mettere fretta all'ascoltatore, mandarlo in saturazione di stimoli.
Hebden mostra gli artigli, ma i brani continuano a emanare la stessa serenità di sempre, qui forse perfino resa più vispa e festante. Sono paradigmatiche, d'altra parte, formule come "A Joy", "Smile Around The Face" e lo stesso titolo dell'album.

Everything Ecstatic Part 2, 2005: un Ep che rilegge in chiave ancora più rumorista due brani di Everything Ecstatic. Il risultato è decisamente confuso, anche se la sezione più minimalista di "Sun Drums And Soil (Part 2)" è paradisiaca (pare Terry Riley!). Altri tre brani completano il disco: l'unico meritevole è "This Is Six Minutes", con una melodia essenziale e voltafaccia ritmici continui, che sfociano in schemi del tutto atipici, ma per la prima volta assolutamente ballabili.

Ringer, 2008: con questo Ep Hebden spiazza un po' tutto l'ambiente. La sua è un'inaspettata fuga verso attrattive cosmiche mai del tutto trapelate. Quattro movimenti in cui il nostro gioca a farsi portavoce di quella tendenza, in atto presso i più promettenti producer europei residenti in quel di Berlino, che cerca di ripescare dalle valigie dei vecchi corrieri un arsenale infinito di suoni sintetizzati, dirottandoli successivamente verso la techno più cadenzata. Ringer sarà solo una breve parentesi, che conferma la poliedricità produttiva di Kieran Hebden, in questo caso mai così vicino ad alcune giovani realtà del firmamento elettronico odierno (su tutti è d'obbligo citare Nathan Fake, accattivante rampollo dell'etichetta Border Community).

There Is Love in You, 2010: più che la definitiva conversione di Hebden al credo danzereccio, l'album segna la già avvenuta riconciliazione tra il Four Tet dei club e quello della cameretta. I brani hanno strutture limpide, rodate sulle piste da ballo, ma le versioni scelte per il disco hanno quel tepore e quella tranquillità che le rendono perfette per un ascolto domestico. Si può così farsi rapire dagli arpeggi cristallini di "Circling", osservandone ripetizione e il lento mutamento; oppure seguire sovrappensiero le voci candide di "Sing". Pezzi come "This Unfolds" e "She Just Likes to Fight" sono placidi, perfino sonnacchiosi, e questo nonostante la cassa in quattro e l'evidente ascendenza techno - o dubstep, nel caso di "Plastic People". Mai in nessun momento si avverte però una sensazione di scollamento, il pensiero che la dimensione adatta a queste tracce sia un'altra - ultraterrena o più prosaicamente discotecara.
Ma per farle esplodere sul dancefloor, c'è da ritenere, basterebbe giusto alzare un poco la cassa.

Pink
, 2012: uscita destinata al solo mercato digitale, che raccoglie un pugno di singoli usciti tra 2011 e 2012. I brani sono tra i più danzerecci rilasciati da Hebden, e la loro ispirazione pare nascere da un'implicita domanda: "quanto è possibile 'ripulire' lo stile Four Tet, conservandone calore e riconoscibilità?". La risposta sembra essere: "tanto". Le tracce sono costruite su ritmi e linee melodiche schematiche, innestate su loop che si inseriscono e sovrappongono uno dopo l'altro popolando progressivamente di luminosità le scarne ossature tech/house iniziali. Emergono sei gioiellini di ripetitività estatica, forse non memorabili come episodi in sé ma indubbiamente funzionali come carica ritmica e ben esemplificativi del lato più orientato al live dell'artista.

Morning/Evening, 2015: un disco che si presta a una duplice intepretazione. Da un lato potremmo stare parlando di una parziale rinascita. In tal senso, l'emblema sta nel limbo agrodolce di “Evening Side”, la meno evidente e accattivante delle due odissee: un'immersione spassionata in granuli analogici, attraversati da armonie vocali e da flussi melodici in scale minori. Pochi colori, tavolozza sonora che più scarna non si può, paesaggio da semifondale oceanico con tanto di sirene tutt'attorno. Un po' come prendere “Angel Echoes” e spalmarla verso il nulla, ripulirla di tutto quel che è stato Four Tet. Se si deve ripartire da zero, dopo una sbornia prolungata e illusoria, uno zero serve, e quello zero potrebbe essere qui. Potrebbe, appunto. Perché poi c'è l'altra metà, ovvero “Morning Side”. Quella che ti accoglie, ti persuade e ti conquista. La parola-chiave non è che quella che sta caratterizzando gran parte delle nuove frontiere dell'attuale fermento elettronico: esotismo. Si va in India, in un mercato di Delhi, fra i fachiri e i venditori di tappeti, una voce svetta, calda, accompagnata da un tappeto house e qualche ghirigoro.
Un disco che raccoglie la quintessenza dei perché che stanno alla base del suo declino artistico, che sono gli stessi che hanno permesso l'ascesa del suo personaggio e della sua popolarità. Ma anche un'ipotesi, autoreferenziale quanto onesta, di fuoriuscita da quel tunnel, di un possibile cambio di traiettoria. Come andrà a finire è tutto da vedere, per ora resta da godersi un cocktail estivo contraddittorio, interlocutorio, eppure incredibilmente seducente, gradevole, sostanzioso.

Sixteen Oceans, 2020: dopo il compendio asciutto e minimale di New Energy, prova del 2017 a metà strada tra i primi passi e poco convinte fascinazioni sintetiche, quasi a voler restare perennemente sospeso tra un passato confortevole e un futuro timidamente spiazzante, pur senza mai rinunciare all’esotismo di casa, Hebden torna nel 2020 con un'opera intitolata romanticamente Sixteen Oceans. Un compiacimento dolcissimo, il suo, espandibile in ben 16 tracce che espongono la collaudata ricetta di battiti essenziali e spiritualismo catchy, fluttuante come le onde che si infrangono di notte sulla spiaggia a Rodrigues, isola sperduta nelle acque dell'Oceano Indiano. Tuttavia, al netto del glorioso passato, questa comfort zone inizia a nascondere qui e là delle zone d’ombra, raggiunte magari attraverso sentieri percorsi fin troppe volte ad occhi chiusi. Momenti di stanchezza in fin dei conti perdonabili, ma che influiscono nel bilancio complessivo.

Ebbene, in questo suo atteso ritorno Hebden proprio non vuole saperne di cambiare pelle, o magari azzardare la messa in scena di turno, quel mutamento, per alcuni maledettamente necessario, da attuare per restare in scia. Superati i quaranta, il musicista londinese cresciuto coi vinili di papà e la drum'n'bass diffusa a scuola nell'aula studenti, insegue esclusivamente quello che gli suggerisce l’onda emotiva, metaforizzata dal richiamo oceanico palesato in partenza. L’avvio, però, non è di certo dei migliori. “School” mette infatti in riga una cassa “garage” su base lounge troppo inflazionata e sbrigativa per aizzare le antenne. Mentre la successiva “Baby” prova a fare di meglio avvalendosi di un tempo dispari vagamente dubstep, alternato per giunta al cantato “house” da sfruttare, come di consueto, in ripartenza. Un giochetto, quest’ultimo, che avrebbe anche una sua “peculiarità” se ci trovassimo ancora nel 2001. In tal senso, il richiamo agli umori del memorabile Pause è d’uopo.

Al contrario, in “Harpsichord” è il Four Tet estatico e ipnotizzato a uscire fuori dal guscio, quasi a ricongiungersi idealmente con certa ambient riflessiva dei primi ’80. Per intenderci al meglio: si potrebbe ipotizzare un Deuter che gioca a scacchi con Joanna Brouck. Insomma, synth espanso e new age all’orizzonte: nulla di più “abusato”, parimenti nulla di più “sicuro”. Totalmente riuscite, invece, le ascesi elettroniche alla Minilogue piazzate al centro del piatto (“Love Salad”, “Insect Near Piha Beach” e “Something in the Sadness”). Una tripla goduria degna dei tempi migliori. Nel complesso, però, Sixteen Oceans mette sostanzialmente in luce due anime di Four Tet: quella da un lato conservatrice ma al tempo stesso ancora “esplorativa”, e quella più soporifera, esposta attraverso un mood meditativo tutt’altro che brillante. Un album, dunque, a fasi alterne, che potrà tanto allietare i fedelissimi, quanto annoiare i “novizi” alla ricerca della sacrosanta piroetta ad effetto.

Dopo Parallel, sempre del 2020, Hebden torna ancora al formato Lp con Three, nel 2024. Si tratta di un album che rappresenta, al tempo stesso, un ritorno alle origini e una sintesi delle numerose trasformazioni della sua musica. Quasi a completare un campionario delle possibili declinazioni dell'hebdenismo, i beat regolari di "Loved" richiamano il sound di Rounds, mentre "Gliding Through Everything" propone suoni digitali e una coda ambientale, con inattesi elementi chitarristici. "Skater" vira verso uno stile pressoché post-rock e "Daydream Repeat" combina colate rumoreggianti con un piglio tech-house. Riedito a poche settimane dall'uscita come Three+, l'album è stato arricchito con quattro tracce aggiuntive, che ne ampliano ulteriormente lo spettro stilistico, sia in direzione dance/future garage che ambient e post-.


12'', 7'':

Double Density (4T Recordings), 1997: è la prima prova solistica di Kieran Hebden. Si tratta di due tracce strumentali, la prima un post-rock stile Fridge, la seconda un collage sonoro. Nonostante la distanza dallo "stile Four Tet", già si nota la predisposizione ai suoni caldi e l'estasi ripetitiva.

Falken's Maze (Joshua Falken), 1998: la più sorprendente delle uscite "giovanili" di Hebden, sempre di due tracce. La prima è una techno/house dalla forte componente moroderiana, lontanissima da qualsiasi cosa Four Tet abbia poi prodotto. È sostanzialmente un climax che, tra gorgoglii elettronici e imprevedibili ventate di flauto, permette a Hebden di sperimentare sul ritmo. La seconda traccia si muove su schemi downtempo, mostrando già venature jazz e - soprattutto - una notevolissima capacità di scomporre e ricomporre le strutture hip-hop, qui con accenti molto vicini al 2-step e vaghi echi drum'n'bass.

Glasshead/Calamine, 1999: nella prima traccia di questo 12'', Four Tet sembra prendere a modello soprattutto gli Stereolab e le loro atmosfere sospese. L'irruzione di ritmiche hip-hop robuste e frastagliate apre però a una sezione più personale, votata al jazz ma ben più spigliata delle altre del periodo. Anche la versione radiofonica di "Calamine" enfatizza la carica ritmica, buttandosi in spericolatezze memori del drum'n'bass più tirato.

I'm On Fire, 2002: uscita interlocutoria, che riprende l'andamento downtempo di alcuni lavori precedenti. Le due tracce sono pressoché identiche e differiscono soltanto per la ritmica, più marcata nella prima e solo accennata nella seconda.

She Moves She, 2003: oltre alla title track, presente anche in Rounds, questo 12'' contiene "Cradle". Ovvero quanto di più vicino all'elegia dei Sigur Rós Four Tet abbia mai prodotto.

My Angel Rocks Back And Forth, 2004: altro 12'' incentrato su materiale di Rounds. Due i remix (Icarus e Isambard Khroustaliov), due i brani originali: "I've Got Viking In Me" e "All The Chimers". Queste ultime sono più che altro celeri proiezioni ambient, decisamente sfocate: dei meri esercizi di stile del tutto trascurabili, inglobati come riempitivo ai due seducenti remix.

Sun Drums and Soil, 2005: il punto di partenza qui è l'omonima traccia di Everything Ecstatic, prima presentata nel mix originale, poi affidata ai Sa-Ra per una piacevole rilettura afro/acid jazz. Il pezzo più interessante è però "Sun Drums And Gamelan", che rende esplicita l'ispirazione esercitata su Hebden dalla musica tradizionale indonesiana, già cara a Steve Reich. In effetti, la combinazione di sferragliamenti poliritmici, flauti esotici e beat hip-hop è pressoché indistinguibile da un'altra ordinaria traccia del Four Tet di quel periodo.

Love Cry, 2009: oltre all'omonima traccia, poi su There Is Love in You, qua c'è "Our Bells": sette minuti e rotti di campanelli e campanacci che sembrano più uno scherzo dada che una composizione vera e propria.

Collaborazioni e remix
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Rivers Become Oceans (con Rothko), 1999: 12'' contenente due rimaneggiamenti di materiale dei Rothko, trio ambient/post-rock capitanato da Mark Beazley. Il primo presenta in modo definito lo stile Four Tet, qui per la prima volta slegato da riferimenti dark-jazz. Placida e ripetitiva, lascia che i loop melodici scorrano in secondo piano mentre l'attenzione viene rapita dalla variazione ritmica, anticipando così uno degli espedienti chiave della sua musica. La seconda traccia è un ulteriore rielaborazione da parte dei Rothko, di carattere più strettamente post-rock.

Four Tet v Pole (con Pole), 2000: splendido Ep nella forma di "doppio split". Un brano di Four Tet e il remix di uno del tedesco Pole - pioniere della dub-techno; poi l'originale di Pole e il suo remix di quello di Four Tet. Four Tet è inconfondibile sia nel pezzo suo, sospeso tra minimalismo, hip-hop astratto modello Dj Shadow e qualche accenno folk, che nel remix di quello di Pole. Quest'ultimo mostra marcatissimi accenti Uk garage, che lo rendono a oggi un pezzo unico nella sua produzione.

DIV/ORCE Series #1
(con gli Hella), 2004: due soli brani in questo split 7'': uno per Four Tet, uno per i math-rocker californiani. Il pezzo di Hebden sembra voler ricreare la frenesia percussionistica di questi ultimi, ma non rinuncia alla melodia dolce, giocosa e in qualche modo ipnotica. Molto delicato, nonostante il cacofonismo glitch.

A Tribute to Jef Gilson (con Mato), 2004: 12'' split in omaggio al jazzista francese Jef Gilson. Four Tet rimaneggia "Fable Of Gutenberg", creando un flusso fumoso e psichedelico che riporta un po' ai tempi di Dialogue. A dirla tutta, però, il pezzo più riuscito è quello di Mato, che si avvale della splendida voce jazz di Anne Wirz.

Remixes, 2006: due cd. Il primo comprende dodici remix realizzati da Four Tet per altri, il secondo altrettanti realizzati da altri per Four Tet. È tutto materiale reperibile altrove, ma non sempre in modo facile. In ogni caso, averlo qui tutto insieme fa la sua bella figura.
La qualità è alta ma non uniforme - questo va ammesso: Four Tet dà il meglio nel remix quando la sua sensibilità è vicina all'autore (è il caso di "Tics", per Lars Horntveth dei Jaga Jazzist) o ha il coraggio di ribaltare l'originale (succede col pezzo dei His Name Is Alive e col già visto Pole); meno altrove. I remix fatti da altri sono tendenzialmente meno a fuoco, anche se qualche perla svetta.

Moth/Wolf Cub (con Burial), 2009: chiacchieratissimo 12'' che vede Four Tet a fianco del suo illustre compagno di college William Bevan, in arte Burial ovvero il produttore dubstep più osannato dal popolo indie. Dei due lunghi brani, a dirla tutta, colpisce soprattutto il secondo: nel primo, comunque gustoso, la passione techno di Four Tet rema un po' contro le atmosfere metropolitane di Burial. In "Wolf Cub" invece i due talenti per la scomposizione ritmica si fondono e materializzano dal nulla un 2-step/gamelan/r'n'b che al di là dei tentativi di descrizione non assomiglia a nient'altro sentito prima. Il resto del gioco lo fanno i synth nebbiosi di Burial e le melodie cristalline di Heben: il crescendo risultante è coinvolgente, avvolgente, spirituale.

Nothing To See/Don't Let Me Go
(con Mala), 2010: split con Mala dei Digital Mystikz. Anziché sul dubstep, come sarebbe lecito aspettarsi, per il suo brano Four Tet punta su una tech/house minimale molto uniforme dal punto di vista ritmico. Il passo è in leggero levare e gioioso come al solito. Un episodio gradevole, in linea con la sua produzione recente.

Ego/Mirror (con Burial e Thom Yorke), 2011: di nuovo un 12'' in collaborazione tra i due pesi massimi dell'elettronica inglese, questa volta con l'apporto vocale del cantante dei Radiohead. I due brani sono in realtà episodi minori della carriera di tutti e tre gli artisti: divagazioni piacevoli, senza dubbio di classe, ma in fin dei conti non memorabili. L'aspetto più notevole del disco, l'assoluta naturalezza con cui si fondono gli stili dei tre.
Se nel primo pezzo i tre si spartiscono in modo netto le rispettive competenze (Bevan alle basse frequenze, Hebden alle alte, Yorke alle medie), in "Mirror" Four Tet occupa un ruolo di secondo piano e si limita a "colorare" coi suoi consueti legnetti le ritmiche future garage di Burial.

Live, dj set, compilation mixate
:

Dj Mix, 2003: neanche mezz'ora per questa compilation mixata, che si muove con disinvoltura tra i suoi favoritissimi vecchi e nuovi. Si va dunque dal free jazz di Don Cherry al minimalismo di Steve Reich, toccando Hendrix, Godspeed You! Black Emperor, Lightning Bolt e parecchio hip-hop americano.

LateNightTales, 2004: un'altra compilation di brani altrui, contenente però un pezzo di Four Tet difficilmente reperibile altrove: "Castles Made Of Sand". Per questa oretta abbondate di musica, Hebden sceglie un tono posato e molti brani di amici. Accanto a Koushik, Manitoba, Icarus e gli amatissimi Tortoise trova posto però anche la componente british folk, rappresentata da Linda Perhacs e Fairport Convention. Una piacevolissima guida turistica alla mente musicale di Kieran Hebden in quel periodo.

Live in Copenhagen 30th March 2004
, 2004: un cd-r in edizione limitata, disponibile solo tramite il sito della Domino Records. I pezzi vengono tutti da Rounds e Pause: siamo nel pieno dell'era folktronica. Le versioni proposte accentuano però le componenti rumoristiche e glitch, creando un suono estremamente accattivante e dinamico. Le tentazioni dance sono ancora lontane, ma la svolta di Everything Ecstatic prende senz'altro le mosse da qui.

Live at the Spanish Club Melbourne 20th Jan 2006, 2006: un'ora e poco di live pubblicata su internet in free download. È materiale di Everything Ecstatic, più qualcosina di Rounds: niente di imprescindibile, ma la sensazione è che in queste versione i pezzi più recenti risplendano di una luce che manca negli originali. Sono invece i pezzi più vecchi a mostrare la corda: "funzionano" solo quando interferenze e glitch riescono a distrarre dalla scarsa carica ritmica, e i tentativi di compensare con l'innesto di cassa dritta appaiono piuttosto goffi.

Dj-Kicks, 2006: la più riuscita delle compilation mixate curate da Hebden. Ottime transizioni e gran bel "tiro" in questo ottovolante di stili e ritmi: si salta dai Cabaret Voltaire ai progghissimi Heldon, con un bel po' di techno a infiltrarsi tra le tracce. Galvanizzante il passaggio Akufen/Animal Collective e l'emergere improvviso di Stereolab e Autechre, ma soprattutto impeccabile il singolo "Pockets", prima traccia di Four Tet ascrivibile al suo nuovo corso dance.

RA.102, 2008: un dj mix per la rivista Resident Advisor, di taglio minimal techno. Un'ora e rotti di musica che scorre senza intoppi, tra stratificazioni e ritmi ipnotici. Manca però un po' di estrosità: se di freddezza non si può parlare - è per sempre Four Tet e anche quando i timbri si fanno davvero alieni in sottofondo ci sono gli uccellini che cinguettano - è comunque un set più anonimo del previsto.

Much Love To The Plastic People, 2009: mix reperibile su SoundCloud, che testimonia lo stile di Hebden durante la residenza al Plastic People. Si tratta in realtà di regalo realizzato da Four Tet per il pubblico del club come ringraziamento, e donato in forma di cd in occasione dell'ultima serata in programma. Le coordinate sono sostanzialmente tech/house, ma c'è spazio anche per il buon vecchio free jazz e qualche traccia dal nuovo album There Is Love In You.

Fact Mix 182, 2010: il mix per Fact Magazine accosta Uk garage e techno minimale, ma soprattutto mostra un Kieran Hebden del tutto a suo agio e padrone dei suoi mezzi. La sua mano emerge in modo nitido nell'atmosfera calda e nei frastagliamenti hip-hop che senza farsi tanti problemi si infiltrano tra suoni sintetici e astrattismifunky.

Four Tet

Discografia

4T RECORDINGS
Double Density (12'', Output, 1997)
JOSHUA FALKEN
Falken's Maze (12'', Go! Beat, 1998)
FOUR TET
Thirtysixtwentyfive (Ep, Output, 1998)
Misnomer (12'', Output, 1998)
Dialogue (Output, 1999)
Glasshead/Calamine (12'', Output, 1999)
Pause (Domino, 2001)
No More Mosquitoes (Ep, Domino, 2001)
Paws (Domino, 2001)
I'm On Fire (12'', Domino, 2002)
Dj Mix (cd-r, Domino, 2003)
She Moves She (12'', Domino, 2003)
Rounds (Domino, 2003)
As Serious As Your Life (12'', Domino, 2003)
Live In Copenhagen 30th March 2004 (cd-r, Domino, 2004)
My Angel Rocks Back and Forth (ep, Domino, 2004)
LateNightTales (Azuli Records, 2004)
Smile Around The Face (12'', Domino, 2005)
Everything Ecstatic (Domino, 2005)
Sun Drums And Soil (12'', Domino, 2005)
A Joy (12'', Domino, 2005)
Everything Ecstatic Part 2 (Ep, Domino, 2005)
Pockets (12'', Studio !K7, 2006)
Dj-Kicks (Studio !K7, 2006)
Remixes (Domino, 2006)
Ringer (Ep, Domino, 2008)
RA.102 (free download, 2008)
Much Love To The Plastic People (free download, 2009)
Love Cry (12'', Domino, 2009)
There Is Love In You (Domino, 2010)
Sing (12'', Domino, 2010)
Angel Echoes (12'', Domino, 2010)
Fact Mix 182 (free downoload, 2010)
Pink (raccolta, Text, 2012)
Morning/Evening (Text, 2015)
New Energy (Text, 2017)
Sixteen Oceans (Text, 2020)
Parallel (Text, 2020)
Three (Text, 2024)
COLLABORAZIONI
Four Tet/Rothko: Rivers Become Oceans (12'', Lo Recordings, 1999)
Four Tet v Pole: Four Tet v Pole (Ep, Leaf, 2000)
Four Tet/Hella: DIV/ORCE Series #1 (7'', Ache, 2004)
Four Tet/Mato: A Tribute to Jef Gilson (12'', ISMAA, 2004)
Four Tet/David Shrigley: Castles Made of Sand (7'', Azuli Records, 2004)
Four Tet/Burial: Moth/Wolf Cub (12'', Text, 2009)
Four Tet/Mala: Nothing to See/Don't Let Me Go (12'', Soul Jazz Records, 2010)
Burial + Four Tet + Thom Yorke - Ego/Mirror (Text, 2011)
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Four Tet sul web

Sito ufficiale
Myspace
  
 VIDEO
  
No More Mosquitoes (da Pause, 2001)
She Moves She (da Rounds, 2003)
As Serious As Your Life (da Rounds, 2003)
Smile Around The Face (da Everything Ecstatic, 2005)
Sing (live, da There Is Love In You, 2010)