Londra Zero Zero - Strade bastarde musica bastarda

Autore: Lorenzo Feltrin
Titolo: Londra zero zero - Strade bastarde musica bastarda
Editore: Agenzia X
Pagine: 254
Prezzo: 15 euro


rsz_londrazerozerocopertina_01I palpitii della metropoli. Lorenzo Feltrin, trevigiano, classe 1988, li ha ascoltati e conosciuti in diretta per sette mesi, vivendo in case occupate, facendosi il culo nel retrobottega dei fast food, incontrando uno per uno i protagonisti dell'underground londinese.
Ne sono uscite le duecentocinquanta pagine di una spettacolare guida anti-turistica ai bassifondi di Londra; un'endoscopia lucida e passionale di quel dedalo di suoni e sottoculture che è il cuore pulsante del Regno Unito. Un viaggio a metà tra l'autobiografia e l'affresco socioculturale, che si fa sempre più intenso e illuminante via via che si addentra nell'anima meticcia dei sobborghi, nei loro ritmi, contrasti, sbalzi d'umore.


Il doppio volto della periferia

"Londra zero zero" esplora in prima persona il tratto più recente dell'hardcore continuum, la galassia di scene e personaggi che ha avuto nella rave culture di fine Ottanta il suo Big Bang. Grime e dubstep sono le sue principali incarnazioni in questi ultimi anni, due facce di un'unica geografia musicale che il libro analizza in tutte le sue interconnessioni.
"L’hardcore continuum non potrebbe esistere senza Londra", mi spiega Lorenzo per email. "È una città meno violenta e segregata rispetto alle sue omologhe americane, quindi le contaminazioni avvengono più facilmente sia sul piano del suono che su quello dell’interazione sociale in senso stretto. Inoltre Londra ha tutta una struttura economica ai limiti (spesso esterni) della legalità, che permette a una rete di locali e radio pirata, intimamente black&white, di fare da punto d'incoltro tra il ribellismo punk di derivazione cockney e la cultura sonica dell’immigrazione giamaicana".
L'hardcore continuum è frutto di questo cortocicuito etno-culturale. Grime e dubstep nascono da genitori comuni: da una parte, lo UK garage, un'estremizzazione della house music del Paradise Garage che veniva suonata a tempo accelerato nella seconda sala degli eventi jungle; dall'altra il 2-step, garage dal passo svuotato, portato da 4/4 a 2/4 lasciando più spazio a bassi e asimmetrie ritmiche. Da questo punto di partenza, grime e dubstep prendono però strade diverse. Il primo enfatizza la funzione dell'MC, lascia che i beat spezzati vengano cavalcati da un flow caustico che fa il verso al gangsta statunitense e diventa presto bersaglio dell'identificazione per i giovani delle periferie. Il secondo, invece, sviluppa il metro halftime e prosegue sul cammino dello svuotamento ritmico, diventando musica stratificata, da ascolto concentrato, decisamente meno efficace come collante sociale.
Le differenze tra i due stili riflettono un'integrazione non completa tra le diverse culture che popolano il grigiore suburbano. "Il dubstep è più legato ai sobborghi middle class bianchi, mentre il grime alle periferie del post-proletariato nero". Eppure, un produttore bianco e "intellettuale" come Burial va alla ricerca dei vocals giamaicaneggianti di Spaceape, mentre il flow acre del grime è fondato sull'ostentazione di un accento cockney. "Curiosamente, è in atto una sorta di scambio linguistico: il dubstep parla nero mentre il grime bianco. A dire il vero, però, lo slang grime non è propriamente cockney: il cockney ora come ora è abbastanza morto nella sua forma originale. Il gergo delle periferie dell’est è già un ibrido in cui la struttura cockney è pesantemente infiltrata di elementi del patois giamaicano, e nei testi grime si inserice anche una dose significativa di slang americano".


Simbiosi, conflitti e globalizzazioni

sw2smallSono le contraddizioni di un'integrazione incompleta che permettono questi meccanismi di scambio e imitazione, mantenendo le periferie londinesi una fucina attiva di commistioni e metamorfosi musicali. Qui le novità non sono frutto dei lampi di genio di qualche rampollo di scuola d'arte: la prospettiva critica usuale, che vede il "genio" del singolo artista come fulcro di ogni innovazione ne esce completamente ribaltata. I cambiamenti musicali sono frutto di un "genio" inconsapevole distribuito su un'intera scena - di uno "scenius", per usare un termine di Simon Reynolds.
In questo contesto, l'azione dei fantomatici "genietti" intellettuali incensati dalla critica risulta quasi parassitaria. Scrive Lorenzo sul suo libro: "Ogni volta che l'underground di strada produce un nuovo stile, questo viene raccolto da esperti di musica che ne costruiscono una versione 'intelligente', di solito rivolta agli studenti. Questi produttori hanno una libertà illimitata perché possono permettersi di non tener conto della reazione dei quartieri e del dancefloor. Ma tutte queste innovazioni slegate da un contesto sociale hanno spesso un'influenza effimera, perché non hanno nessun criterio per concentrarsi su alcuni stilemi sonici e svilupparli con costanza dando vita a un genere nuovo. Spesso sono condannati ad aspettare che arrivi il prossimo genere, spontaneo e con largo seguito, per trarne una nuova versione intellettuale".
Gli ho chiesto di approfondire il discorso anche sul piano dell'esperienza personale: "La musica più interessante, e quella che poi mi risulta più piacevole da ascoltare, è quella che ha un background sociale dietro le spalle. Provo piacere nell’essere proiettato verso un mondo altro, ma sono ancora più intrigato dall’esser cosciente che non si tratta di evasione o di misticismo ma piuttosto di un rimando terreno ad altra gente che vive una certa vita in un certo ecosistema, e che l’ha distorto e interpretato in quello che sto ascoltando".

Il panorama etnico della Londra suburbana non può essere ristretto alla dicotomia UK vs. Giamaica. Tra i molti immigrati di seconda o terza generazione provenienti dalle colonie, svettano quelli di origine asiatica. Lorenzo si sofferma in particolare sull'anglo-cingalese M.I.A. e sull'esperienza quasi ventennale degli Asian Dub Foundation. Ma trova lo spazio anche di esprimere un'idea che circola da un po': quella che "la geografia del futuro sta cambiando, e le prossime subculture giovanili in grado di parlare a chiunque verranno dai paesi emergenti del Sud". Il testimone della comunicazione generazionale globale passerà ad artisti musulmani o hindu, nonostante il clima di "scontrotra civilta'" così asfissiante? "Dubito che in Paesi dove la repressione religiosa è così forte ci siano molte speranze. In Iran c’è una scena hip-hop piuttosto grossa, ostile al regime. La mia impressione è però che la maggior parte dei lavori soffra inevitabilmente della troppa distanza tra i due mondi - quello orientale e quello occidentale. È un po’ il problema del banghragga: i due ordini simbolici sono presi di peso e messi in una canzone - il risultato non può essere troppo convincente. Diverso è il caso della cosiddetta global ghettotech, che viene da posti dove gli ingredienti culturali hanno già avuto modo di mischiarsi in profondità anche a livello sociale: America, Africa... Per ora in Europa solo UK e magari la Francia". Anche in questo senso, dunque, Londra e il dinamismo del suo meltin' pot sarebbero in pole position per gli sviluppi dei nuovi linguaggi post-eurocentrici.
Si inquadra in questo contesto anche il gioco di scambi che si è instaurato in questi anni con la scena losangelina legata alla Alpha Pup. Se ne parla in termini di glitch-hop, ma anche di wonky beats (Flying Lotus), facendo diversi parallelismi col dubstep. "C’è stata comunicazione tra le due sponde dell'oceano, soprattutto da quando il dubstep ha cominciato ha fare largo uso di synth wonky. Non credo però si tratti di un ritorno della dialettica USA-UK. La dinamica centrale ora è decisamente più orientalizzata: è quella della rete della global ghettotech, non più un modello dialettico, e quindi dualistico, ma un modello policentrico. Il wonky della West Coast sembra rientrare in quel misto di tradizioni hip hop-elettronica-reggaedancehall che si regionalizza ovunque trovi un ambiente sociale adatto e si dialettizza declinandosi nei tratti del folklore locale. Crunk, kwaito, reggaeton, kuduro, etc... La dialettica USA-UK era ancora ‘fordista’, basata su grandi blocchi verticalizzati al loro interno, la polialettica ghettotech è uno dei tanti esempi di rete postfordista in cui entrano anche elementi esterni al mondo anglosassone".


Il suono delle sottoculture

el_b1Questo taglio socioculturale alla critica musicale, che vede gli stili come insiemi di dialetti o creoli frutto di specifiche dinamiche comunitarie, si è diffuso in Inghilterra con Simon Reynolds. In Italia, al di là delle unanimi dichiarazioni di stima, l'approccio del giornalista ha trovato pochi proseliti. Una possibile motivazione è che l'ambiente naturale della "sociologia musicale" di questo tipo siano le contraddizioni delle metropoli: essendo prevalentemente un paese di piccole città, l'Italia rimane in tal senso necessariamente un po' provinciale, e perciò difficilmente analizzabile con gli stessi schemi adatti alle scene metropolitane.
"L’undergound popolare ormai è un fenomeno d’importazione, quindi gli ecosistemi sociali che l’hanno generato sono al di fuori dei patri confini. La recezione in Italia di questo tipo di culture è sempre passata attraverso movimenti di sinistra, per cui paradossalmente negli anni 70 chi era politicamente anti-americano era culturalmente il più americanofilo di tutti. D'altra parte, ancora oggi in Italia abbiamo una tendenza a sovrapporre un significato politico a musica che originariamente non ne ha. Ricordo che tutti gli appassionati italiani di hip-hop che conoscevo si rifacevano a un’estetica molto underground resistance ed erano tutti assai scandalizzati e offesi dal fatto che tutti i nostri coetanei rappusi neri e marocchini se ne fottevano e dell’underground e della resistance ed erano più interessati ai vestiti di marca e alle tipe in tiro. Ma i più vicini al ‘vero hip-hop’ erano i secondi. C'è poi ancora un sottofondo culturale che rende difficile applicare il metodo reynoldsiano in Italia: porterebbe a scontrarsi con forzature e contraddizioni, e magari a temi che uno che scrive di musica preferirebbe evitare". Insomma, mentre diverse sottoculture musicali italiane associano elementi politici a musiche in origine assai meno partigiane, chi scrive di musica coltiva l'illusione di potersi occupare solo di Arte, lasciando da parte dinamiche socioculturali e connotazioni politiche. Non si accorge che in questo modo finisce per essere profondamente ideologico, legato a una specifica classe sociale, e in fin dei conti un po' fuori dal mondo - incapace di interpretare il panorama sociomusicale che lo circonda.

A parlare di Italia però Lorenzo ci prova, e accanto a pirati radiofonici, agitatori di club e pezzi da novanta della scena londinese (si va da El-B a Ikonika a Dr. Das degli Asian Dub Foundation) intervista anche alcuni "pesci piccoli" della scena nostrana. LNRipley, Tode, Numa Crew: ragazzi italiani che guardano all'elettronica inglese cercando una formula propria, non strettamente emulativa.
Proietta così il suo bigino di sociomusicologia metropolitana, in sé perfettamente compiuto, verso lo sprawl post-urbano del Nordest e il suo apparente torpore culturale. C'è da augurarsi che, dopo un esordio così acuto e ben scritto su un contesto lontano e complesso, continui a coltivare il suo interesse per la geografia musicale, magari volgendo lo sguardo proprio a casa nostra.

(19/09/2010)