Tra i più interessanti e attivi rivitalizzatori di un panorama che sarebbe riduttivo circoscrivere al solo folk britannico, i Tunng rappresentano un’esperienza di collettivo musicale aperto difficilmente riscontrabile in questi anni, fuori dal tempo per quanto concerne i molteplici ed eterogenei apporti dei singoli artisti, ma assolutamente attuale a livello di freschezza espressiva e capacità di mettere in discussione ogni rigido schema di genere.
Del resto, la stessa origine del progetto artistico che ha poi dato luogo alla band racconta di percorsi musicali diversi che si incontrano, tentando di coniugare le rispettive propensioni in una formula inedita, ancorché non originariamente intesa alla creazione di alcunché di nuovo. La scintilla che darà origine ai Tunng è infatti, nel 2003, l’incontro tra Mike Lindsay e Sam Genders: il primo aveva creato un piccolo studio di registrazione nel seminterrato di un negozio di abbigliamento a Soho, dove lavorava a musica per spot radiofonici, dilettandosi altresì in svariate sperimentazioni elettroniche; il secondo era invece un classico cantautore, con una spiccata propensione per il folk, che all’epoca gravitava intorno al circuito sotterraneo dei pub londinesi.
Quasi per gioco, i due decidono di unire le loro capacità, così il già ampio repertorio di cantautorato folk di Genders comincia ad essere rielaborato e arricchito dagli scintillanti e spesso bizzarri suoni elettronici di Lindsay. I primi approcci partono dalla psichedelia e dalla storica ma sempre efficace tradizione folk britannica; ben presto, tuttavia, il lavoro di scrittura e composizione diviene condiviso e nuove canzoni dalle forme mutanti nascono spesso da una singola idea, da un suono o da una frase.
Il passaggio da questa prima fase, culminata nell’introvabile demo The Would Wood, a una lunga serie di collaborazioni e 7’’ è rapidissimo, anche grazie al riscontro della piccola ma importante etichetta Static Caravan, che li accoglie di buon grado nel suo roster nel 2004, stampando in edizioni limitate i singoli Tale From Black e Maypole Song. Entrambi palesano già la volontà dei Tunng di uscire dai canoni del folk acustico e cantautorale britannico attraverso l’accostamento a sghembe note di chitarra di ogni genere di ritmi e disturbi, da una povera drum machine a drone striscianti, fino a una miriade di giocosi bleeps, che conferiscono ai brani un andamento bizzarro e volutamente distorto.
All'inizio del 2005 è già la volta dell'album di esordio, Mother's Daughter And Other Songs, che raccoglie quanto già dimostrato nei singoli, raggiungendo una fusione assolutamente coesa e compiuta fra una chitarra che suona in bassa fedeltà e un caleidoscopio di riflussi elettronici, in una serie di canzoni piacevolmente contagiose, dagli arrangiamenti più ricchi e curati rispetto a quelli dei singoli, come risulta evidente nel rimaneggiamento della già edita "Tale From Black".
Dal lamento ossessionante dell'iniziale "Mother's Daughter" al mantra oscuro di "People Folk", dalle ibridazioni acustico-digitali di "Beautiful And Light" al country lo-fi di "Song Of The Sea", i Tunng sembrano decisamente a proprio agio nel rimescolare gli schemi e nel rendere imprevedibili i loro brani, accuratamente costruiti dal punto di vista melodico ma resi ogni volta spiazzanti da sbilenchi inserti di glitch, che disturbano con moderazione le melodie, e da un impianto strumentale in grado ogni volta di stupire, passando con disinvoltura da un folk giocoso, con tanto di banjo e fisarmonica, a momenti di studiato marasma orchestrale, realizzato dall'intreccio di violino e violoncello, come nell'ottima "Kinky Vans".
La cifra sperimentale è tutta qui, al tempo stesso contorta e accessibile, acustica e groovy, di disarmante semplicità eppure costellata da una miriade di elementi piacevoli da scoprire nelle pieghe di dieci brani che rivelano su più vasta scala la freschezza eccentrica di due artisti che, prima di tutto, si divertono a fare musica, curandosi ben poco di forme ed etichette.
All'album segue un periodo di fervida attività, testimoniato anche dallo split in collaborazione con Dollboy, che vede i Tunng per la prima volta impegnati in tour. Si tratta di un importante momento di svolta per la band, determinato dall'iniziale scelta di Sam Genders di non suonare dal vivo; questa decisione, lungi dal porre in crisi il progetto Tunng, contribuisce invece ad allargarne gli orizzonti, trasformandolo in una band vera e propria. Infatti, mentre per i primi due anni di esistenza dei Tunng, Genders resterà nell'ombra, apportando il suo contributo fondamentale in sede compositiva, Lindsay provvede ad allargare la line-up della band arruolando altri quattro compagni di viaggio, ovvero il percussionista e polistrumentista Martin Smith, il manipolatore elettronico Phil Winter, la cantante Becky Jacobs e l'altro chitarrista Ashley Bates, quest'ultimo con un sorprendente passato da batterista degli shoegazers Chapterhouse.
L'apporto dei nuovi musicisti, inizialmente finalizzato alla sola esperienza dal vivo, si estende ben presto in sede di studio, prima saltuariamente poi in maniera più stabile, e già nel successivo singolo Pioneers, uscito a inizio 2006, il suono dei Tunng si fa più ricco e strutturato, mentre proprio nell'incredibile cover sincopata dell'omonimo pezzo dei Bloc Party si affaccia per la prima volta il cantato della Jacobs.
Poco dopo, un altro singolo, Woodcat, anticipa il secondo album Comments Of The Inner Chorus, che può a ragione considerarsi l'opera della precoce maturità artistica della band, le cui intersezioni acustico-elettroniche sono adesso sistemate in maniera più razionale e in un certo senso ordinata, così da enfatizzare al tempo stesso la cristallina semplicità di melodie aggraziate e il turbinio di samples, effetti e disturbi elettronici vari. La presenza di questi ultimi, sovente confinata in funzione di contorno a ballate acustiche in apparenza piuttosto canoniche, come "Woodcat" e "Sweet William", è tuttavia dosata con grande moderazione e, nonostante la sua frequente attitudine freak, non sfocia mai in eccessi di ridondanza né in derive autoreferenziali. Il suono infatti è sempre fresco e immediato e, persino quando a prendere il sopravvento sono synth e ritmi spezzati ("Stories", il finale di "It's Beacuse We Got Hair"), permane una sensazione di immediatezza giocosa, un atteggiamento disincantato, come se la band non prendesse troppo sul serio le cervellotiche alchimie dei mille possibili accostamenti sonori, in favore di una spontaneità al tempo stesso divertita e divertente.
Dimostrazione di questo spirito è del resto fornita dalla stessa band che, a fronte dei ripetuti paragoni delle componenti elettroniche della sua musica ad artisti quali Books o addirittura Fridge e Four Tet, ha sempre respinto la definizione di "folktronica", così come la diretta discendenza del suo caleidoscopio sonoro dall'ispirazione da parte degli artisti cui è stata avvicinata.
Se in effetti, a livello meramente formale, qualche analogia è pur riscontrabile, ben diversi sono l'ispirazione originaria e il contesto in cui la variopinta chincaglieria sonora dei Tunng è inserita. La sua origine va ancora interamente riscontrata nella declinazione, attraverso mezzi e sensibilità moderna, di giocose ballate dallo spirito antico e dal sapore agrodolce; in tutto ciò, la non comune capacità dei Tunng risiede nel coniugare in maniera equilibrata all'interno del lavoro tranquille chitarrine acustiche, melodie catchy, coretti sghembi e battiti elettronici profondi e frammentati, culminanti nel vorticoso finale di "Engine Room".
Ormai stabilizzatisi in una formazione base di sei elementi, ma pur sempre aperti a collaborazioni molteplici, i Tunng non si accontentano di perpetuare la propria personalissima e imprevedibile declinazione del paradigma folk-tronico, scegliendo di mettersi nuovamente in discussione come band vera e propria attraverso il loro terzo lavoro, che, a testimonianza di una fervida attività creativa, segue di poco più di un anno l'acclamato Comments Of The Inner Chorus.
Nasce così Good Arrows, album fin dalla copertina ricchissimo di sfaccettature colorate, nel quale i Tunng pongono con decisione l'accento sulle melodie, pur mantenendo la propria impronta di base ancora caratterizzata arabeschi folk ed esili battiti elettronici, scarni arpeggi acustici e repentine esplosioni elettriche, oscuri field recordings e vivaci atmosfere sixties.
In Good Arrows, infatti, l'elettronica costituisce solo uno degli stravaganti divertissement innestati sul consueto substrato di folk incantato e assolutamente fuori dal tempo, tanto da risultare funzionale quasi esclusivamente a conferire movimento e a "sporcare" leggermente le ottime melodie solari e dal gusto piacevolmente retrò che dominano soprattutto la parte iniziale del lavoro.
Lungo il corso dell'album, tuttavia, i Tunng sembrano divertirsi a presentare continue variazioni su temi acustici, elettrici ed elettronici, coniugando i bassi groovy del cantato con passaggi strumentali più leggiadri ("Spoon", "Secrets"), oppure creando loop di melodie, originate dall'intreccio delle voci ("King") e dall'iterazione di uno scarno accordo acustico ("Arms"), che con incredibile naturalezza riconducono a unità armonica una pluralità di elementi eccentrici e tra loro disomogenei.
Ed è questa disarmante capacità a costituire l'autentica "marcia in più" della band che, pur non rinunciando del tutto alle proprie bizzarrie sonore, riesce a confezionare tanti brani accattivanti e persino un potenziale hit estivo quale "Bullets" che sarebbe in grado di far smuovere anche i più renitenti avversatori della dimensione fisica della musica.
La pronunciata attitudine pop rifugge tuttavia con agilità all'idea di una "normalizzazione" del suono, poiché i Tunng dimostrano qui come l'effetto straniante della loro musica, nei lavori precedenti, non fosse dovuto soltanto alla più ingente presenza di inserti elettronici ma anzi continui a risiedere nella perdurante freschezza di un approccio vagamente freak, autentico e, proprio per questo, per nulla ridondante.
Quasi a smentire il prolifico triennio nel quale hanno licenziato i loro primi tre album ufficiali, dopo Good Arrows, Mike Lindsay e Sam Genders hanno deciso di prendersi un po' di tempo per riordinare le idee. Segue così uno iato triennale, coinciso con un'intensa attività dal vivo e con molteplici attività parallele - tra le quali quella che ha visto come protagonista Genders nel progetto The Accidental - ma quanto mai opportuno per evitare di inaridire con repliche calligrafiche la travolgente freschezza della proposta dei Tunng.
...And Then We Saw Land segna dunque un parziale cambiamento, incarnato in particolare da un'attitudine più minimale che in passato.
Più che di vera e propria cesura, si tratta di una ricombinazione di elementi che conduce da un lato a una loro più autonoma enfatizzazione, dall'altro a incastri mutevoli tra limpidezza bucolica, folk-pop atemporale, incursioni elettriche e riaffioranti tracce folktroniche.
Di diverso, in ...And Then We Saw Land vi è soprattutto l'attenuazione della scatenata freschezza degli album precedenti: le tonalità sono più sfumate e lo stesso modo di approcciare la musica da parte della band appare più curato e serioso, che non rinuncia a divertissement a base di chincaglieria elettroacustica e improvvisi accenti dal sapore rock sixties, ma ne contingenta la presenza sensibile in episodi definiti, confinandoli altrove a mero contorno.
La minore immediatezza e il più basso profilo assunto nel corso dell'album non implicano tuttavia una diminuzione di quella naturalezza che, invece, trova adesso espressione proprio nelle strutture cangianti e irregolari di molti brani.
Ma in parallelo con le continue giustapposizioni di suoni, i Tunng non trascurano la semplicità melodica, attraverso la quale regalano essenziali ballate bucoliche, pervase da obliqui sentori folk ancor più espliciti che in passato. Determinante, in tal senso, è anche l'accresciuto contributo di Becky Jacobs, le cui aggraziate interpretazioni si affacciano sovente in dialoghi vellutati dalla vivace linearità melodica.
Senza rinunciare a quelle stralunate aperture elettroacustiche per le quali hanno saputo farsi apprezzare, in ...And Then We Saw Land i Tunng rendono più che mai schietto il loro legame con una tradizione folk, rielaborata a metà tra minimalismo e coralità, con un più deciso piglio folktronico come non lo si sentiva dai tempi dei loro esordi.TUNNG | ||
Mother's Daughter And Other Songs (Static Caravan, 2005) | 7 | |
Comments Of The Inner Chorus (Full Time Hobby, 2006) | 7,5 | |
Good Arrows (Full Time Hobby, 2007) | 7,5 | |
...And Then We Saw Land (Full Time Hobby, 2010) | 6,5 | |
Turbines(Full Time Hobby, 2013) | 6 | |
Songs You Make At Night(Full Time Hobby, 2018) | 7 | |
Tunng presents... Dead Club(Full Time Hobby, 2020) | 7,5 | |
Love You All Over Again (Full Time Hobby, 2025) | 7,5 | |
LUMP | ||
LUMP (Dead Oceans, 2018) | 7,5 |
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