Tunng

Tunng - Coloratissimi patchwork a base folk

Dal più classico folk britannico all'elettronica da sottoscala, passando per un'accurata ricerca di suoni e divagazioni spontaneamente freak, i Tunng di Mike Linday e Sam Genders rappresentano un esempio quanto mai vivace delle infinite rimodulazioni applicabili al folk e al pop di questi anni. Dall'originario duo al collettivo attuale, ricostruiamo le tante sfaccettature del loro coloratissimo patchwork musicale

di Raffaello Russo

Tra i più interessanti e attivi rivitalizzatori di un panorama che sarebbe riduttivo circoscrivere al solo folk britannico, i Tunng rappresentano un’esperienza di collettivo musicale aperto difficilmente riscontrabile in questi anni, fuori dal tempo per quanto concerne i molteplici ed eterogenei apporti dei singoli artisti, ma assolutamente attuale a livello di freschezza espressiva e capacità di mettere in discussione ogni rigido schema di genere.
Del resto, la stessa origine del progetto artistico che ha poi dato luogo alla band racconta di percorsi musicali diversi che si incontrano, tentando di coniugare le rispettive propensioni in una formula inedita, ancorché non originariamente intesa alla creazione di alcunché di nuovo. La scintilla che darà origine ai Tunng è infatti, nel 2003, l’incontro tra Mike Lindsay e Sam Genders: il primo aveva creato un piccolo studio di registrazione nel seminterrato di un negozio di abbigliamento a Soho, dove lavorava a musica per spot radiofonici, dilettandosi altresì in svariate sperimentazioni elettroniche; il secondo era invece un classico cantautore, con una spiccata propensione per il folk, che all’epoca gravitava intorno al circuito sotterraneo dei pub londinesi.
Quasi per gioco, i due decidono di unire le loro capacità, così il già ampio repertorio di cantautorato folk di Genders comincia ad essere rielaborato e arricchito dagli scintillanti e spesso bizzarri suoni elettronici di Lindsay. I primi approcci partono dalla psichedelia e dalla storica ma sempre efficace tradizione folk britannica; ben presto, tuttavia, il lavoro di scrittura e composizione diviene condiviso e nuove canzoni dalle forme mutanti nascono spesso da una singola idea, da un suono o da una frase.

Il passaggio da questa prima fase, culminata nell’introvabile demo The Would Wood, a una lunga serie di collaborazioni e 7’’ è rapidissimo, anche grazie al riscontro della piccola ma importante etichetta Static Caravan, che li accoglie di buon grado nel suo roster nel 2004, stampando in edizioni limitate i singoli Tale From Black e Maypole Song. Entrambi palesano già la volontà dei Tunng di uscire dai canoni del folk acustico e cantautorale britannico attraverso l’accostamento a sghembe note di chitarra di ogni genere di ritmi e disturbi, da una povera drum machine a drone striscianti, fino a una miriade di giocosi bleeps, che conferiscono ai brani un andamento bizzarro e volutamente distorto.

All'inizio del 2005 è già la volta dell'album di esordio, Mother's Daughter And Other Songs, che raccoglie quanto già dimostrato nei singoli, raggiungendo una fusione assolutamente coesa e compiuta fra una chitarra che suona in bassa fedeltà e un caleidoscopio di riflussi elettronici, in una serie di canzoni piacevolmente contagiose, dagli arrangiamenti più ricchi e curati rispetto a quelli dei singoli, come risulta evidente nel rimaneggiamento della già edita "Tale From Black".

 

Dal lamento ossessionante dell'iniziale "Mother's Daughter" al mantra oscuro di "People Folk", dalle ibridazioni acustico-digitali di "Beautiful And Light" al country lo-fi di "Song Of The Sea", i Tunng sembrano decisamente a proprio agio nel rimescolare gli schemi e nel rendere imprevedibili i loro brani, accuratamente costruiti dal punto di vista melodico ma resi ogni volta spiazzanti da sbilenchi inserti di glitch, che disturbano con moderazione le melodie, e da un impianto strumentale in grado ogni volta di stupire, passando con disinvoltura da un folk giocoso, con tanto di banjo e fisarmonica, a momenti di studiato marasma orchestrale, realizzato dall'intreccio di violino e violoncello, come nell'ottima "Kinky Vans".

La cifra sperimentale è tutta qui, al tempo stesso contorta e accessibile, acustica e groovy, di disarmante semplicità eppure costellata da una miriade di elementi piacevoli da scoprire nelle pieghe di dieci brani che rivelano su più vasta scala la freschezza eccentrica di due artisti che, prima di tutto, si divertono a fare musica, curandosi ben poco di forme ed etichette.

 

All'album segue un periodo di fervida attività, testimoniato anche dallo split in collaborazione con Dollboy, che vede i Tunng per la prima volta impegnati in tour. Si tratta di un importante momento di svolta per la band, determinato dall'iniziale scelta di Sam Genders di non suonare dal vivo; questa decisione, lungi dal porre in crisi il progetto Tunng, contribuisce invece ad allargarne gli orizzonti, trasformandolo in una band vera e propria. Infatti, mentre per i primi due anni di esistenza dei Tunng, Genders resterà nell'ombra, apportando il suo contributo fondamentale in sede compositiva, Lindsay provvede ad allargare la line-up della band arruolando altri quattro compagni di viaggio, ovvero il percussionista e polistrumentista Martin Smith, il manipolatore elettronico Phil Winter, la cantante Becky Jacobs e l'altro chitarrista Ashley Bates, quest'ultimo con un sorprendente passato da batterista degli shoegazers Chapterhouse.

L'apporto dei nuovi musicisti, inizialmente finalizzato alla sola esperienza dal vivo, si estende ben presto in sede di studio, prima saltuariamente poi in maniera più stabile, e già nel successivo singolo Pioneers, uscito a inizio 2006, il suono dei Tunng si fa più ricco e strutturato, mentre proprio nell'incredibile cover sincopata dell'omonimo pezzo dei Bloc Party si affaccia per la prima volta il cantato della Jacobs.

 

Poco dopo, un altro singolo, Woodcat, anticipa il secondo album Comments Of The Inner Chorus, che può a ragione considerarsi l'opera della precoce maturità artistica della band, le cui intersezioni acustico-elettroniche sono adesso sistemate in maniera più razionale e in un certo senso ordinata, così da enfatizzare al tempo stesso la cristallina semplicità di melodie aggraziate e il turbinio di samples, effetti e disturbi elettronici vari. La presenza di questi ultimi, sovente confinata in funzione di contorno a ballate acustiche in apparenza piuttosto canoniche, come "Woodcat" e "Sweet William", è tuttavia dosata con grande moderazione e, nonostante la sua frequente attitudine freak, non sfocia mai in eccessi di ridondanza né in derive autoreferenziali. Il suono infatti è sempre fresco e immediato e, persino quando a prendere il sopravvento sono synth e ritmi spezzati ("Stories", il finale di "It's Beacuse We Got Hair"), permane una sensazione di immediatezza giocosa, un atteggiamento disincantato, come se la band non prendesse troppo sul serio le cervellotiche alchimie dei mille possibili accostamenti sonori, in favore di una spontaneità al tempo stesso divertita e divertente.

 

Dimostrazione di questo spirito è del resto fornita dalla stessa band che, a fronte dei ripetuti paragoni delle componenti elettroniche della sua musica ad artisti quali Books o addirittura Fridge e Four Tet, ha sempre respinto la definizione di "folktronica", così come la diretta discendenza del suo caleidoscopio sonoro dall'ispirazione da parte degli artisti cui è stata avvicinata.

Se in effetti, a livello meramente formale, qualche analogia è pur riscontrabile, ben diversi sono l'ispirazione originaria e il contesto in cui la variopinta chincaglieria sonora dei Tunng è inserita. La sua origine va ancora interamente riscontrata nella declinazione, attraverso mezzi e sensibilità moderna, di giocose ballate dallo spirito antico e dal sapore agrodolce; in tutto ciò, la non comune capacità dei Tunng risiede nel coniugare in maniera equilibrata all'interno del lavoro tranquille chitarrine acustiche, melodie catchy, coretti sghembi e battiti elettronici profondi e frammentati, culminanti nel vorticoso finale di "Engine Room".

 

Ormai stabilizzatisi in una formazione base di sei elementi, ma pur sempre aperti a collaborazioni molteplici, i Tunng non si accontentano di perpetuare la propria personalissima e imprevedibile declinazione del paradigma folk-tronico, scegliendo di mettersi nuovamente in discussione come band vera e propria attraverso il loro terzo lavoro, che, a testimonianza di una fervida attività creativa, segue di poco più di un anno l'acclamato Comments Of The Inner Chorus.

 

Nasce così Good Arrows, album fin dalla copertina ricchissimo di sfaccettature colorate, nel quale i Tunng pongono con decisione l'accento sulle melodie, pur mantenendo la propria impronta di base ancora caratterizzata arabeschi folk ed esili battiti elettronici, scarni arpeggi acustici e repentine esplosioni elettriche, oscuri field recordings e vivaci atmosfere sixties.

In Good Arrows, infatti, l'elettronica costituisce solo uno degli stravaganti divertissement innestati sul consueto substrato di folk incantato e assolutamente fuori dal tempo, tanto da risultare funzionale quasi esclusivamente a conferire movimento e a "sporcare" leggermente le ottime melodie solari e dal gusto piacevolmente retrò che dominano soprattutto la parte iniziale del lavoro.

 

Lungo il corso dell'album, tuttavia, i Tunng sembrano divertirsi a presentare continue variazioni su temi acustici, elettrici ed elettronici, coniugando i bassi groovy del cantato con passaggi strumentali più leggiadri ("Spoon", "Secrets"), oppure creando loop di melodie, originate dall'intreccio delle voci ("King") e dall'iterazione di uno scarno accordo acustico ("Arms"), che con incredibile naturalezza riconducono a unità armonica una pluralità di elementi eccentrici e tra loro disomogenei.
Ed è questa disarmante capacità a costituire l'autentica "marcia in più" della band che, pur non rinunciando del tutto alle proprie bizzarrie sonore, riesce a confezionare tanti brani accattivanti e persino un potenziale hit estivo quale "Bullets" che sarebbe in grado di far smuovere anche i più renitenti avversatori della dimensione fisica della musica.

 

La pronunciata attitudine pop rifugge tuttavia con agilità all'idea di una "normalizzazione" del suono, poiché i Tunng dimostrano qui come l'effetto straniante della loro musica, nei lavori precedenti, non fosse dovuto soltanto alla più ingente presenza di inserti elettronici ma anzi continui a risiedere nella perdurante freschezza di un approccio vagamente freak, autentico e, proprio per questo, per nulla ridondante.

Quasi a smentire il prolifico triennio nel quale hanno licenziato i loro primi tre album ufficiali, dopo Good Arrows, Mike Lindsay e Sam Genders hanno deciso di prendersi un po' di tempo per riordinare le idee. Segue così uno iato triennale, coinciso con un'intensa attività dal vivo e con molteplici attività parallele - tra le quali quella che ha visto come protagonista Genders nel progetto The Accidental - ma quanto mai opportuno per evitare di inaridire con repliche calligrafiche la travolgente freschezza della proposta dei Tunng.

 

...And Then We Saw Land segna dunque un parziale cambiamento, incarnato in particolare da un'attitudine più minimale che in passato.

Più che di vera e propria cesura, si tratta di una ricombinazione di elementi che conduce da un lato a una loro più autonoma enfatizzazione, dall'altro a incastri mutevoli tra limpidezza bucolica, folk-pop atemporale, incursioni elettriche e riaffioranti tracce folktroniche.

Di diverso, in ...And Then We Saw Land vi è soprattutto l'attenuazione della scatenata freschezza degli album precedenti: le tonalità sono più sfumate e lo stesso modo di approcciare la musica da parte della band appare più curato e serioso, che non rinuncia a divertissement a base di chincaglieria elettroacustica e improvvisi accenti dal sapore rock sixties, ma ne contingenta la presenza sensibile in episodi definiti, confinandoli altrove a mero contorno.

La minore immediatezza e il più basso profilo assunto nel corso dell'album non implicano tuttavia una diminuzione di quella naturalezza che, invece, trova adesso espressione proprio nelle strutture cangianti e irregolari di molti brani.

 

Ma in parallelo con le continue giustapposizioni di suoni, i Tunng non trascurano la semplicità melodica, attraverso la quale regalano essenziali ballate bucoliche, pervase da obliqui sentori folk ancor più espliciti che in passato. Determinante, in tal senso, è anche l'accresciuto contributo di Becky Jacobs, le cui aggraziate interpretazioni si affacciano sovente in dialoghi vellutati dalla vivace linearità melodica.

Senza rinunciare a quelle stralunate aperture elettroacustiche per le quali hanno saputo farsi apprezzare, in ...And Then We Saw Land i Tunng rendono più che mai schietto il loro legame con una tradizione folk, rielaborata a metà tra minimalismo e coralità, con un più deciso piglio folktronico come non lo si sentiva dai tempi dei loro esordi.

Un fioco sperimentalismo, un registro sempre più abbozzato che sembra sottintendere un più severo e riflessivo impianto concettuale sembrano le caratteristiche di Turbines, nuovo album dei Tunng (2013) - un disco che non si concede quasi mai ai più facili motivi della carriera della band inglese, ma resta preda di oscure visioni (“Heavy Rock Warning”) e groove irrisolti (“The Village”).
Tra schegge tribali (“So Far From Here”) e riff sbocconcellati Vernon-iani (“By This”), “Turbines” tradisce una sempre più prevalente impronta psych, una cupa maturità del sound che non si riflette però nella composizione, nella quale si fatica a distinguere tra ricercatezza e cali di ispirazione (“Embers”, la filastrocca trip-hop di “Trip Trap”).
In definitiva, un disco dal tono solenne, complessivamente spento, grigio come il pallido tono pastorale delle armonizzazioni. 

Nel 2016, dall'incontro tra Mike Lindsay e la talentuosa cantautrice Laura Marling nasce un'intrigante collaborazione intitolata LUMP, che avrebbe dato vita due anni dopo al primo omonimo Lp. Bastano due minuti della opener “Late To The Flight” a mettere tutto in chiaro: le due menti dietro il prodotto LUMP sono ben percepibili, ma il risultato del loro incontro non ha precedenti nelle rispettive discografie. Ed è un incanto: Mike Lindsay dei Tunng lascia che lenti arpeggi di chitarra folk e la voce angelica di Laura, ora rarefatta ora sdoppiata, si smarriscano tra synth spumosi, droni che ronfano come vecchi frigoriferi e una pioggerella di flauti. È solo il primo di sei – senza contare “LUMP Is A Product (Credits)” - avvolgenti scenari elettroacustici, dove il canto duttile e voluttuoso della Marling incontra fondali per lei inediti. Dalle sfumature di “Late To The Flight” germoglia la seconda di queste visioni, una “May I Be The Light” che srotola una preghiera buffa e nevrotica su un manto di bassoni glitch. Al centro del disco ne troviamo il cuore pulsante: “Curse Of The Contemporary”. Art-pop sfarzoso, dove la voce della Marling, qui diva più che mai, si avvita e distende tra pregiati ricami di chitarra e fiati lussureggianti. Già preziosi individualmente, i brani acquistano ancora più valore considerati come un tutt’uno. Grazie all’encomiabile lavoro di legatura effettuato da Lindsay, si passa da scene musicali, tra loro quasi antitetiche, con fluidità e definizione incredibili. Come quando i riff di tastiere moroderiane che fanno da impalcatura al salace numero electro “Hand Hold Hero” si dissolvono nella pace ambient all’inizio di “Shake Your Shelter”.

Quanto il progetto LUMP sia stato propedeutico al ritorno in pompa magna dei Tunng, non è dato saperlo, unica certezza è che le muse si sono infine riaffacciate nel mondo del gruppo inglese.
Con Songs You Make At Night Lindsay e Genders, non solo riportano in vita la formula Tunng, ma addirittura ricostruiscono la line-up del 2007. L’intrinseca bellezza delle nuove canzoni è figlia di una rigenerazione interiore, c’è un’urgenza poetica che riesce a far meno di alcuni eccessi del recente passato, il linguaggio sonoro è infatti fluido e non antitetico: acustico, elettrico ed elettronico sono un unico paradigma, da qui nasce la materia organica flessibile e iperrealista del sesto album del gruppo inglese.
Che i Tunng inseguissero la chimera del pop è un dato inconfutabile, ma la band ha imparato a gestire le pause del ritmo e la fragilità dei refrain, creando armonie ipnotiche dal fascino ancestrale e onirico (“Dream In”), motivetti sibillini (“Abop”) e gustosi elettro-pop (“Dark Heart”).
Il surrealismo dei testi alimenta le pagine più moderatamente psichedeliche: la maliziosa cantilena di “Flatland”, il magico incontro tra evanescenza e realtà di “Nobody Here”, la pericolosa seduzione dell’impalpabile “Like Water”.
Songs You Make At Night è un inatteso ritorno alla forma, le canzoni sono baciate da una genuina e imperitura bellezza (“Crow”), da un amore per il dettaglio che invita al riascolto (“Battlefront”) e da una ritrovata capacità narrativa che modernizza la figura del troubadour (“Evaporate”), ma è nella preziosa sintesi di “Sleepwalking” che i Tunng raggiungono la perfezione.

Anticipato da vari podcast registrati negli ultimi due anni, contenenti interviste e riflessioni in perfetto equilibrio tra filosofia e vita quotidiana, ispirato dal libro di Max Porter” Grief Is A Thing With Feathers”, Tunng Presents… Dead Club ripropone l’onirica e fluida miscela di folk ed elettronica degli inglesi, ma lievemente sfumata da sentimenti oscuri e una lieve inquietudine che offre spazio ad atmosfere più bucoliche con piano e chitarre acustiche in bella evidenza.
Disco non greve né fatalista, il progetto dei Tunng incornicia con deliziose ballate di folktronica (“SDC” ovvero Swedish Death Cleaning) o vivaci pop song (“A Million Colours”) temi non facili da esorcizzare, come l'arcaico rapporto tra sesso e morte in “Death Is The New Sex” e il significato, fortemente simbolico, dell'endocannibalismo praticato dall'etnia Wari (Brasile) nella solenne “Eating The Dead”.
Tunng Presents… Dead Club non è un progetto affetto da una morbosa passione per la morte, è solo un’intelligente riflessione che scaturisce dal dialogo e dal confronto, di questa vitalità ne beneficia anche la musica, il sognante e visionario chamber-folk di “Fatally Human”, il fascino da library music che scorta il racconto horror di “Three Birds”, l’esplosione di romanticismo della contagiosa melodia di “Scared To Death”, e il crescendo minimale di “Carry You”, sono pagine di rara bellezza e forse tra le cose migliori mai scritte dalla band.
Tunng Presents… Dead Club è un coraggioso e surreale racconto in musica, un dialogo sulle possibili vie d'uscita per superare la paura della morte, una fonte di speranza e riflessione sul futuro post-pandemia.  

Anni ricchi di collaborazioni quelli a seguire, soprattutto per Mike Lindsay, protagonista del progetto Lump con Laura Marling, di quello ancor più intrigante con Anna B Savage per il disco Supershapes Vol 1, quindi ospite negli album di Dana Gavaski e William Doyle. Il ritorno discografico dei Tunng corrisponde al ventennale di Mother's Daughter And Other Songs, la magia della band inglese è ancora intatta e cristallina, l’onirico melange di folk ed elettronica è tuttora beffardo e scanzonato, delizioso e moderno quanto basta per insinuarsi tra le fitte maglie dell’indie-pop, senza perdere fascino ed autenticità.
Con Love You All Over Again (2025), i Tunng si confermano autentici maestri di un folk-pop contaminato dall'elettronica nonché autori di composizioni atipiche e stranianti, misteriose e singolari,le dieci canzoni  si librano con leggerezza e incastrano nel quadretto più coeso e riuscito della band negli ultimi tempi, dieci nenie per fanciulli che non bramano crescere, ciò nonostante non privo di innovativi slanci nel futuro che sorridono sia alla natura bucolica della musica folk, la poetica Snails”, che alla seduzione multietnica, il mix di elettronica e ritmi afro della magmatica “Yeekeys”. La musica dei Tunng resta ancorata comunque ad una delicata e suggestiva struttura folk: la ballata contaminata dal suono lontano dei fiati di “Levitate A Little”, o l’intreccio di sonorità metalliche e accordi di chitarra acustica di “Didn’t Know Why”.
Love You All Over Again è un disco ricco di felici intuizioni, le mutevoli sequenze di melodie minimali e glitch elettronici di “Sixes”, il fugace dialogo tra accenni strumentali e vocali di “Laundry”, i lievi contrappunti armonici di “Deep Underneath” e l’inquietudine che cova dietro i pur languidi ed ipnotici loop chitarristici di “Coat Hangers”, sono come sortilegi sonori che destrutturano una materia a noi nota per renderla unica e fantasiosa, un trionfo di creatività che riporta i Tunng al centro della scena musicale folk.

Contributi di Lorenzo Righetto ("Turbines"), Gianfranco Marmoro ("Songs You Make At Night", "Tunng presents... Dead Club", "Love You All Over Again")