A volte basta poco per piagnucolare e fare ciao con la mano di fronte a un disco che sa di già sentito, senza per questo regalarsi un bel po' di sorrisi. I Tunng tornano sulla scena con nei calzini di spugna le fototessere di Adem, Four Tet, Jeff Tweedy e Donald Fagen, riuscendo con dedizione melodica a emozionare e con delicatezza elettro-ritmica a turare il buco post-moderno nelle classicissime reti sonore.
L'impostazione è sagomata su chitarre acustiche, le azioni di disturbo da laptop sono a raffica e quasi mai destinate al nulla, le voci permangono corali, dolcissime e quadrate su un timbro tendenzialmente pop. Forse è individuabile una carezza di déjà vu, ma raramente un "turutu" dura circa 2 minuti su un arpeggio semplice, evitando di far capire a tutti i costi che si tratta di qualcosa di particolare.
Il processo è automatico e finanche una fesseria pare fatta per la prima volta, come sciare da novellino e rotolare a terra prevenendo le ferite. A valle si gioca a frusciarsela coi fruscii impercettibili e a staccare "errori" di campionamento, perché, non va dimenticato, è pur sempre un insieme di penne elettroniche. Le emozioni scorrono come un viaggio al centro di una tre corsie, pagando il minimo pedaggio per un certo appiattimento in crociera.
Siamo nel bello che ammalia, con massima attenzione e iridi quasi rigirati, perché si avverte nell'aria di ogni secondo l'attesa di una gentile trovata.
Molto significativo (anche se anomalo per il contesto) il dualismo di "Mother's Daughter", con la prima parte che richiama i lamenti di Dagmar Krause (Henry Cow), con tanto di lotte spadaccine in loop, e la seconda che sembra strimpellata dagli Steely Dan con una strumentazione piuttosto fioca, fumosa.
Se in questo caso la suddivisione è spudorata e segnata da un improvviso paletto "interno", in quasi tutti gli altri casi diviene una sorta di spaccatura/unione di linee parallele: il predominante folk digitale cammina con interferenze mai statiche di chiara origine meta-elettronica che, alternandosi in fondo e in superficie, sono fondamentali per la caratura.
"Beautiful And Light" rispecchia alla perfezione questa verve alla Notwist, perché riposa su una splendida melodia mentre dispensa sonagli e strani, lontani scratch. Una canzone davvero fiera del suo raggio laser, soave e distante come fosse abbandonata sotto un ponte.
Bagliori che si ritrovano con preponderanza country in quei capolavori anacronistici che sono "Song Of The Sea" e "Fair Doreen", omaggi a Roy Harper conditi con uvetta, pinoli e (nel primo caso) armoniche.
E che si ritrovano con preponderanza electro nella cavalcata strumentale di "Kinky Vans", unità scomposta con decine di entrate e uscite, bisbigli, intralci, salti e soliti intermezzi tradizionali: in pratica, una riedizione più determinata e ricca di quella "Unspoken" (Four Tet: "Rounds") di Kieran Hebden.
Un disco senza furore, toccasana per raffreddori in music maker che suona piano, gira su se stesso e distrae il mento dalla mano in cui è raccolto.
Va tenuto presente che c'è, diffusa, la linea di un discorso senza granchi, perché tutto comincia con timidezza a forma di scalpello, salvo poi aprirsi e far capire il senso del trattato. Come ogni cosa di umana logica.
Si prenda, ad esempio, la cupa "People Folk" , coi suoi toni da tombini d'altro mondo e le sue zone d'ombra, e la si confronti con le cicale della successiva "Tales From Black", più chiara, semplice, e amalgamata, pur restando in tema.
Considerazione che può essere estesa anche alla parete pop del disco, imbrattata proprio con "Beautiful And Light", ma completata e (vivi)sezionata con "Code Breaker" e, soprattutto, con "Surprise Me 44", lunga litania da spesa nel settore audio di un ipermercato.
Giochi al pc e riserve crepuscolari alla Wilco ne fanno una conclusione in relax, stupenda nella sua leggerezza.
Un episodio rimarchevole, con valenze estetiche e fragori d'inverno, zitto zitto posto al lato della poltrona mentre si riflette.
02/02/2006