Partire dall'hardcore, evolversi e arrivare ad essere inseriti fra i principali membri del nuovo
kraut-rock. Potrebbe apparire un tragitto curioso e apparentemente illogico, ma se lo pensate non avete mai ascoltato i Notwist dei fratelli Acher. Il loro primo album omonimoera un violento viaggio in dimensioni punk non distanti dal metal, mentre con il recente
Neon Golden è una malinconica dolcezza a dominare, all'interno di sonorità che sfiorano l'indie-pop e l'elettronica per addentrarsi in vaghi territori post-rock. E senza rinnegare nulla del passato: anzi, è facile, durante i loro concerti, fare un vero e proprio tuffo indietro nel tempo, spiegato in questo modo dal gruppo: "Dopo aver registrato un album in maniera lunga e minuziosa avevamo bisogno di mettere l'amplificatore al massimo e ritrovare sul palco l'urgenza dei nostri anni punk. Inoltre è importante dimostrare che non siamo una band pop e rivendicare le nostre radici di vecchi punk".
Mai dimenticare le origini: sembra questo il messaggio che vogliono dare Markus Acher, suo fratello Micha, Martin Messerschmid e Martib Gretschmann, i quattro elementi della band. Non dimenticare il passato, certo, ma nemmeno restare ancorati a limitanti pregiudiziali e avere un grande coraggio nello sperimentare nuovi tragitti. In fondo, è questa la principale caratteristica dei Notwist, rintracciabile in ogni tappa di un percorso che ha, inevitabilmente, influenzato molte delle altre formazioni tedesche in qualche modo riferibili al gruppo madre. Lo sperimentalismo post-rock dei Village Of Savoonga e il free jazz dei Tied & Tickled trio (in entrambi sono presenti i fratelli Acher), oppure la fascinosa musica dei Lali Puna (in questo caso il solo Markus): queste i principali combi direttamente collegati ai Notwist, ma altre formazioni dell'area tedesca, tra cui i
Mina con cui Micha ha collaborato per il recente "Expanded", hanno concreti rapporti con i quattro.
I Notwist si presentano come una normalissima band di adolescenti brufolosi intenti a coniugare il proprio cuore metal (sul passaporto hanno scritto Germania, non per niente) con qualche refuso grunge (prima metà anni 90 era delitto non ascoltarlo) e qualche ripescaggio più indie (diciamo
Dinosaur Jr). Il risultato risuona un
pastiche poco classificabile tra
Metallica e
Husker Du. La formula è l’archetipo del disco d’esordio
Notwist (1990): qui ritroviamo i momenti più marcatamente hardcore-metal (“Think For Fourself” o “I've Not Forgetten You”) e quelli più occhieggianti all’indie rock alternativo. Va detto che anche negli episodi più crudi i Notwist riescono a disegnare tiepide melodie da novelli
Pixies. Segno di genio inintelligibile. Certo si masticano a fatica i chitarroni fortemente grunge e si percepisce di essere un po’ fuori tempo massimo, oltre la scadenza, ascoltati oggi. Ma il 1990 dei Notwist rispecchiava di fatto il 1990 della musica alternativa che si suonava intorno.
Il successivo
Nook (1992) percorre la stessa strada: punk-metal alleggerito con venature melodiche e aperture grunge. Brani come “Walk On” e “Welcome Back” rappresentano l’architettura musicale della band tedesca con rullante di batteria a scandire ritmi punk-metal, chitarroni a disegnare scenari hard-rock ed un cantato immalinconito che tende a nascondersi dietro il muro di suono creato. Accanto a tutto questo, si intuiscono anche i primi vagiti di qualcosa di nuovo, i primi tentativi di emancipazione dal verbo punk-metal: ecco dunque gli sperimentalismi
noise dei
Sonic Youth ( la conclusiva "I'm A Whale") o l'incipit simil dark-folk di "The Incredible Change of Our Alien" costruito attorno ad una melodia di banjo (strumento poi ripreso in mano in "
Neon Golden").
La prima vera svolta nella musica dei Notwist avviene in
12, di fatto il primo passo della band tedesca nel post-rock, che proprio a metà degli anni '90 stava vivendo il suo momento di gloria. Basta ascoltare l'opening track "Torture Day" per venire catapultati in un altro mondo rispetto al vorticoso eccesso punk-metal: qui i toni si fanno più pacati, quasi riflessivi, distesi. Si disegnano atmosfere post-rockiane. "
12" è a tutti gli effetti un album di passaggio, dal punk metal al rock più sperimentale: già in questo lavoro del 1995 si riesce a intravedere in nuce quello che succederà in futuro. Anche se molti dei brani risentono ancora del rifforama metal ("My Phrasebook", come anche "Puzzle") o di reminescenze grunge ("M"), eppure il divincolarsi dallo stereotipo è avvertibile nello svolgimento della melodia, nel suo diventare altro, alleggerendo la struttura con passaggi strumentali prettamente post-rock ("The String"). In tutto questo, rimane fondante l'approccio indie rock, sia per le melodie sia per il cantato simil-
Pixies.
Il successivo
Shrink rende definitiva la scelta post-rockiana: "Shrink ha rappresentato una svolta. Avevamo detto ormai tutto quello che si poteva dire con le chitarre urlanti. Gli elementi pop si sono fatti predominanti e così abbiamo cercato di integrare le sonorità che amavamo di più senza preoccuparci dell'immagine che avevamo o dei gusti del pubblico". Forse sottovalutato (rispetto a
Neon Golden sicuramente),
Shrink diventa un disco fondamentale per le sonorità della nuova Germania e per i Notwist stessi. La lezione indie di Pixies e
Dinosaur Jr è ormai mandata a memoria, così come assimilata è l'elettronica dei
Pan Sonic. Ed è proprio in questo incontro tra elettronica e indie rock, che nasce e si sviluppa l'onda lunga del rock sperimentale che richiamerà le attenzioni dei Radiohead, desiderosi di affrancarsi dal calderone
britpop. Brani come "Day 7" e soprattutto "Chemicals" sono l'archetipo di quello che qualche anno dopo verrà chiamato "indietronica": i fratelli tedeschi giocano con la formula, costruendo semplici basi quasi drum 'n' bass su cui si muovono brani indie rock. Sono le prime prove di trasmissione che porteranno alla codificazione del genere con "Neon Golden".
Le coordinate sono ormai chiare: l'elettronica non è solo un'occasionale intrusione, ma diventa un chiaro marchio di fabbrica, alternato a digressioni rock/pop. Si arriva così a
Neon Golden e a un successo inatteso. Le definizioni si sprecano, perché è arduo catalogare un album simile: melodia e improvvisi schizzi folli, istanti blues e minimali beats elettronici, echi post e altri folk, con una perenne sensazione sulfurea sullo sfondo. I dieci episodi del disco alternano emozioni differenti, anche se dominate da una leggera e gradevolissima malinconia, senza mai apparire dispersivi o derivativi.
"In Neon Golden - raccontano i Notwist - il blues è un elemento molto importante. Come è importante il dub che circonda un pezzo come 'Pilot', anche se non lo si può definire dub in senso stretto. Oppure 'Solitaire', che è stato mixato in seguito all'ascolto di una vecchia canzone dei
Beatles. I brani veicolano sensazioni, cerchiamo sempre di creare stati d'animo senza necessariamente riprendere nei particolari più tecnici determinati stili musicali. Non vogliamo emulare". Ed è questo che affascina, la semplice personalità, precisa ma mai eccessiva, che ha raggiunto la formazione tedesca.
Spesso minimali, le trame si basano su campionamenti e archi, su fiati e
beat elettronici intriganti. Le impressioni generate sono simili a sussurri, non si sente alcun bisogno di urla e grida rabbiose. Dalla semplicità accattivante di "Pilot" alla incessante sensualità di una "This Room" che potrebbe ricordare i
Radiohead post-"Kid A", non si riescono a individuare episodi minori: tutti e dieci le tracce racchiudono schizzi di una spontanea e sincera genialità. "Pick Up The Phone" penetra velenosamente in chi l'ascolta, racchiudendo al suo interno un elettronica ricercata e schegge classicheggianti, mentre la
title track testimonia con quale attenzione la band tedesca abbia ascoltato e rielaborato l'animo più puro del country a stelle e strisce. Un'ammaliante sintesi, insomma, della musica del nuovo secolo.
Poi, un lungo silenzio, inframezzato da una serie di progetti paralleli. Fino al fatidico 2008. Dieci anni dopo
Shrink, e sei dopo
Neon Golden, il suggello, la pietra miliare di un modo del tutto personale di interpretare l’elettronica attraverso il rock.
Attorno a questo gruppo, un faro acceso a illuminare il panorama del pop tedesco ma non solo (per conferma, chiedere ai
Radiohead), ne sono nati un’altra miriade, collegati a vario titolo all’esperienza dei fratelli Acher.
Side project di lusso (
Lali Puna, il più celebre) ed etichette che hanno forgiato uno stile, suggerito una prospettiva (Morr Music). Cose importanti, insomma, che hanno ridato lustro alla musica teutonica, aggiornando in qualche modo i fasti del
kraut-rock.
E’ dunque pleonastico sottolineare l’attesa che accompagnava
The Devil You + Me (2008). Eppure, il disco appare bloccato su canoni sin troppo consolidati, giocato su contrasti tra folk elettrico ed elettronica, a metter così l’accento sul marchio di fabbrica, ma per lo più abdicando dal formato pop che aveva connotato il predecessore.
Se l’eccezione è data dall’iniziale “Good Lies” (forse non a caso, il singolo), molti degli svolgimenti successivi vertono su abbozzi elettronici veicolati da voce e chitarra che puntano all’effetto atmosfera inserendo accenni di tonalità inusualmente oscure. Ma per raggiungere lo scopo, si attinge a piene mani da sonorità tanto udite in questo decennio da superare la soglia dell’auto-citazionismo fuori tempo massimo, mentre la pretesa oscurità, non suffragata da soluzioni vocali realmente ispirate, si tramuta presto in tedio.
Così il ricercato minimalismo scivola in un vuoto che non si comprende come colmare (“Where In This World”), i flebili
pattern ritmici diventano la foglia di fico d’intenzioni che restano incompiute (la
title track), e gli arpeggi di chitarra restituiscono una curiosa, ma per nulla gradevole, sensazione d’intercambiabilità fra un brano e l’altro. Anche nei rari casi in cui i
bpm abbandonano l’indolenza, come in “Boneless” e “Gravity”, non si coglie il valore aggiunto rispetto ad analoghe costruzioni già a suo tempo esibite dai
Ms. John Soda o dai
Lali Puna. Una delusione, insomma, a tutti gli effetti.
Il ritorno del 2014 con
Close To The Glass ha invece un impatto molto forte sull'ascoltatore. Sia “Signals” che la
title track sono enigmi da decifrare, racchiusi in complicati
pattern elettronici nei quali è difficile districarsi. Sempre di semplici canzoni stiamo parlando, tuttavia questa volta sembra che la band abbia voluto fare un passo avanti. La voce di Markus Acher è sempre discreta e appena sussurrata, come in passato, capace di sfruttare appieno le proprie potenzialità negli episodi in cui risalta di più (la belle melodie acustiche di “Casino” e “Steppin' In”, la lineare struttura pop di “Kong”). A livello compositivo le canzoni eccellono spesso (i bei grovigli
electro di “Into Another Tune” e “From One Wrong Place To The Next”), raggiungendo un ipotetico picco con “Run Run Run”, una sgangherata
pop song martoriata da fantasmi di fiati e synth sfigurati, un'orgia di suoni perfettamente orchestrata.
La vena sperimentale del collettivo la troviamo rafforzata nella lunga divagazione
kraut di “Lineri”, uno splendido tributo alla musica di casa. Pacata e fluente la musica scorre via fino a “They Follow Me”, l'ideale conclusione per un disco dei Notwist. La traccia finale, infatti, è una dolce fiaba attraversata da rivoli di malinconia, con una coda strumentale in cui polveri elettroniche si fanno largo fra note di violino e qualche
beat. Un modo perfetto per mettere la parola fine a un album tutt'altro che accomodante.
A distanza di meno di un anno, la band pubblica per Alien Transistor
The Messier Objects, raccolta di brani collezionati negli anni nel corso di una sostanziale attività parallela, dedicata a comporre per conto di terzi, in gran parte dei casi legati al mondo del teatro, del cinema, della televisione e della radio. E tale natura amorfa contribuisce anche a giustificare il carattere eterogeneo, sia per stile che per qualità, dei sedici “oggetti” più uno che compongono la
tracklist del disco. Qualche gemma, a dire il vero, non manca: dall'introduzione ovattata per field recordings, imput e chitarre del primo “Object” alla miniatura melodica del sesto, passando per la trancedelia del decimo, fino ad arrivare alla quiete serena del tredicesimo e alla distesa sintetica del diciassettesimo e ultimo. Quel che manca è un filo conduttore che giustifichi la scelta di edificare una sinfonia in due movimenti sostanzialmente sul nulla, sulla forzata unione di singole miniature, ciascuna con le proprie caratteristiche e il proprio contesto.
Si intravedono dunque segnali dell'inizio di un nuovo percorso per i Notwist, impegnati a reinventare uno stile che ha fatto scuola, ma che aveva bisogno di nuovi stimoli. Ci sono riusciti molto bene, con la loro usuale originalità e levità, coniugando passato con futuro, non rinnegando un'epoca che li ha visti vincitori e costruendosi un avvenire più che proficuo.
Nell'autunno del 2016 esce
Superheroes, Ghostvillains & Stuff, pubblicato non solo da Alien Transistor ma anche da Sub Pop. Il disco è registrato durante la seconda di tre serate live complessive fatte dai Notwist al UT Connewitz di Lipsia a metà dicembre del 2015, tutte rigorosamente sold-out. Le sonorità che i membri dei Notwist hanno esplorato con i loro progetti paralleli, e che dal 1997 sono sostenute dall’ingresso nella band di Martin Gretschmann, sono in gran parte presenti nella prima parte del live dedicata a quattro brani da
Close To The Glass (Sub Pop Records, 2014), in particolare "They Follow Me", "Into Another Glass" e "Into Another Tune". Quello che colpisce subito della registrazione è la carenza di suono d’ambiente, frutto, con molta probabilità, dei suoni degli strumenti principalmente catturati dal banco mixer e mixati in studio in un secondo momento. Niente di diverso da ciò che accade di solito con le registrazioni dal vivo, ma nel caso di questo disco il suono sembra perdere d’impatto e immediatezza. Quella complessa e fragorosa miscela di corde elettrificate,
beat, riverberi e campionamenti, che di solito riempie le orecchie degli spettatori dei concerti dei Notwist.
La vena indie pop-rock della band viene pienamente fuori in "Kong", "Gloomy Planets" e "One With the Freaks", quest’ultima in una versione particolarmente emozionante (che ci ricorda anche la chiusura de “
L'amico di famiglia” di Paolo Sorrentino, film del 2006 in cui è usata). Alcune canzoni diventano esemplari della convivenza tra pop e sperimentazione, come "This Room", che segue a uno degli inni della band, "Pick Up the Phone". Giro di basso indie-rock, inserti dissonanti di synth, melodia della voce pop e coda strumentale free-jazz caratterizzano questa versione. Successivamente rompe con gli inserti
jazzy l’indie-rock sostenuto di "One Dark Love Poem", brano presente nell’album di esordio, nonché il più lontano nel tempo tra quelli in scaletta.
L’ultima parte del disco è puro godimento: 13' tirati di "Pilot", il sing-along di "Consequence” e la chiusura romantica di "Gone Gone Gone". Una chitarra, un rhodes, pochi tocchi di basso e batteria e una dichiarazione prima di congedarsi: "Gone gone gone gone gone gone/ We will never let you go/ I will never let you go".
Si rifanno vivi a più di cinque anni dal disco precedente, lo sfortunato “The Messier Object”, i tedeschi Notwist, con il loro disco in studio numero 8, intitolato
Vertigo Days (2021), che arriva dunque a 30 anni di carriera sforati. Una buona quindicina dei quali vissuti da autentica istituzione indietronica, grazie a un seguito internazionale e trasversale meritatamente conquistato con due capolavori quali
Shrink e
Neon Golden.
Gestito con sapienza e misura in ogni suo frangente,
Vertigo Days dà proprio l’impressione di essere un disco istituzionale. Non ci sono novità in queste 14 tracce, rivoluzioni o esperimenti rischiosi, ma la vitalità è comunque tanta, grazie a curiosi
excursus in ciascun territorio caro ai fratelli Acher, oggi più che mai centro gravitazionale della formazione.
Aiuta a creare dinamismo anche la scelta di ospitare
vocalist o strumentisti esterni alla formazione, quali Juana Molina, Zayaendo, Saya, Angel Bat Dawid e Ben LaMar Gay, che alternandosi alla morbida cantilena di Markus Acher trasportano il
mood del disco in disparati paesaggi esotici: in un Sud del mondo rutilante e ammiccante (“Al Sur”), in una sinuosa giungla jazz (“Into The Ice Age”), nel misterioso Oriente (“Ship”), in qualche cittadina da cartolina boema (“Into Love Again”).
È però inesorabile che sia proprio quando Markus lascia scivolare la sua voce soffice come la lana sulle chitarre fluviali di “Loose Ends” che il disco emozioni con più facilità. O quando si crogiola tra gli arrangiamenti gioiosi e tintinnanti di “Sans Soleil”.
Molto bene anche i momenti più sfrenati, come una “Into Love/Stars” segnata dai cambi di ritmo e da un incessante scampanellare o “Exit Strategy To Myself”, che del disco contiene le chitarre più velenose e contundenti.
Contributi di Marco Bercella ("The Devil You + Me"), Alessandro Biancalana ("Close To The Glass"), Matteo Meda ("The Messier Objects"), Maria Teresa Soldani ("Superheroes, Ghostvillains & Stuff") e Michele Corrado ("Vertigo Days")