Nel giro di soli tre dischi, il primo dei quali pubblicato nel 2021, A Common Turn, Anna B Savage si è ritagliata un ruolo di spicco nell'universo del cantautorato al femminile. La giovane songwriter inglese, ora di stanza in Irlanda, inizia il suo percorso con un disco fortemente legato ai suoi trascorsi personali, in particolar modo a una relazione tossica, che però si apre progressivamente a una nuova luce, via via che la sua autrice si va riappropriando della sua vita. Un viaggio musicale fortemente legato, dunque, al vissuto della chanteuse britannica e alla sua femminilità, che si nutre dei suoi tormenti e delle sue passioni per scuotere fin nelle viscere chi ascolta.
Un tracciato però anche impredicibile stilisticamente, che pesca tanto nella tradizione di Leonard Cohen ed eredi quanto nei canti folk di Sandy Denny e dei suoi Fairport Convention, riuscendo anche a innervarsi sovente di elettronica. Fondamentale, da questo punto di vista, la scelta di cambiare produttore a ogni uscita. Ai cambi d'umore di Anna coincide quindi sempre una nuova veste per le sue canzoni, così come a cambiare sono il suo look e il modo in cui ci guarda dalle copertine dei suoi dischi. Prima creatura dell'oscurità ammantata di colori cupi e piume gotiche, poi ragazza acqua e sapone, finalmente libera e un po' civettuola, infine creatura silvana immersa nei licheni dei boschi irlandesi.
Non c'era alcun dubbio che la musica avrebbe avuto una parte fondamentale nella vita della londinese Anna B Savage. Figlia di due cantanti lirici, ha trascorso i suoi primi compleanni nella stanza verde della Royal Albert Hall per una curiosa coincidenza: essere nata lo stesso giorno in cui morì Johann Sebastian Bach. Ogni anno i genitori venivano scritturati per esibirsi nel Bbc Prom dedicato al compositore tedesco nella storica location di South Kensington.
Dopo una silenziosa gavetta, nel 2015 la Savage ha pubblicato il suo primo Ep, un'uscita prodotta da DM Stith accompagnata da poche e scarne note, ma capace di colpire nel segno per la timbrica profonda e per i testi personali che esprimevano insicurezze, domande e dubbi spesso irrisolti. Quattro canzoni che hanno intrigato due artisti così diversi come Father John Misty e Jenny Hval, prontissimi nell'ascoltarla live in un luogo di culto della musica londinese come il Cafe Oto per poi prenderla sotto la loro ala protettrice e portarla ad aprire le date europee dei loro tour.
Questo improvviso e in qualche modo inaspettato successo non è riuscito a dissipare le insicurezze della Savage, anzi, probabilmente ha finito con l'aggiungerne altre che, unite a una relazione amorosa divenuta tossica, hanno inficiato velocemente la capacità di scrittura e addirittura la salute mentale, mettendo in discussione il suo futuro non solo come musicista. I genitori hanno provato ad aiutarla facendole fare piccoli lavori amministrativi, ma non è stato così facile per lei rendersi conto di quanto avesse intrapreso una relazione dannosa, non solo con il partner ma, soprattutto, con sé stessa. Lo scioglimento di questo legame nocivo è stato il primo mattone di un percorso di ricostruzione e di rinascita che ha portato l'artista inglese a ritrovarsi, a riprendere in mano la propria vita e, finalmente, a ritrovare la forza di esprimere il proprio talento vocale e compositivo.
Avete presente la tipica scena delle serie tv poliziesche in cui l'investigatore unisce sul muro foto, riferimenti e indizi che possono portare all'identificazione di un omicida seriale? La Savage ha fatto la stessa cosa: in un mese ha stampato tutti i testi, li ha attaccati al muro e ha tracciato le linee verso le idee corrispondenti, assicurandosi di aver trattato nelle liriche tutti i temi importanti, collegandoli, eliminando eventuali ripetizioni e inserendo i propri riferimenti personali e culturali (il Rocky Horror Picture Show, le Spice Girls, il piacere femminile, Nick Drake, la salute mentale, la passione per il birdwatching e per Edwyn Collins, ex-leader della band di culto scozzese Orange Juice) cuciti come talismani dentro la sua musica.
Il passo successivo lo ha compiuto grazie al contatto e alla conseguente sinergia con William Doyle (FKA East India Youth) che, con la sua produzione ambiziosa ma elegante, è riuscito a dare una forma compiuta alle canzoni. I due sono stati in grado di creare A Common Turn (2021), un disco d'esordio composto da dieci tracce non certo convenzionali, piene di improvvise quanto felici intuizioni, dove l'estensione e il timbro vocale della Savage riescono a creare intrecci con le armonie estremamente originali.
Dopo il breve incipit di "A Steady Warmth", fatto di echi oscuri e deviati, l'artista inglese inizia a esprimere i dubbi e le insicurezze con sconcertante sincerità e candore, come in "Corncrakes" dove, dopo un inizio leggiadro di chitarra e voce, c'è uno stop & go che porta a un'ansiogena accelerazione che culmina con un verso finale "I don't feel things as keenly as I used to. I don't know if this is even real. I don't feel things" che toglie l'aria.
Ma la Savage sa mostrarsi allo stesso tempo docile e selvaggia, come nell'alternanza vocale di "Dead Pursuit", che sottolinea tutte le sue paure passate ("Three years and still worried it's a mediocre album. I swear I tear myself limb from limb. I don't remember how to be me. I'm not the same"), mostrando sempre una maturità vocale e compositiva sorprendente per un esordio.
Gli improvvisi cambi di passo che caratterizzano la gran parte delle tracce non sono mai fuori luogo, come nelle stratificazioni di suono che increspano il mare placido della chitarra e voce nella splendida "BedStuy", per poi impennarsi in potenti rigurgiti ancestrali nella sorprendente mutazione di "Two". Quando sembra che il suono sia scuro e denso oppure intimista e malinconico ("Baby Grand"), c'è un cambio di rotta più o meno deciso capace di prendere alla sprovvista, sempre con un'intensità emotiva assoluta.
E se la quasi title track "A Common Tern" riesce a lasciare senza fiato evocando i fantasmi di Jeff Buckley, "Chelsea Hotel #3", dietro una calma apparente, mette a nudo le sue fragilità e il suo rapporto con la sessualità, sottolineate da una voce autentica, vulnerabile, capace di diventare forte e ipnotizzante nel climax del brano, quando avviene la presa di coscienza del semplice fatto che la cosa fondamentale, al di là dei dubbi, è prendersi cura di sé: "New Year's resolutions. I will learn to take care of myself. Take care of myself (if you know what I mean). Take care of myself".
Non tragga in inganno il fatto che le canzoni inizino sempre in modo quasi convenzionale con voce e chitarra, come la splendida "Hotel", dove la Savage mette le cuffie per ascoltare al buio "Pink Moon" di Nick Drake sperando di addormentarsi il prima possibile. Niente è come sembra. Il chiaroscuro, come accade spesso nella vita, è parte fondamentale anche di questo lavoro, in cui calma e desiderio vanno a braccetto con debolezze e dubbi. Vulnerabilità e insicurezze espresse a chiare lettere nella conclusiva "One", che commuove nella aperta sincerità con cui la Savage descrive il controverso rapporto con il suo corpo e il conseguente approccio complicato con l'atto sessuale, per poi sottolineare con le pennate forti della chitarra una volontà non ancora raggiunta: "Cause I want to be strong. And I'd like to be fine. And I hate that it's fueled. Even in part, by my own mind".
Probabilmente le sue aspettative erano state disilluse solo dai labirinti della mente, capaci di offuscare la linea sottile tra consapevolezza e fantasia, ma chissà se, dopo questo lavoro e con l'accettazione del suo enorme talento, la Savage riuscirà ad autoconvincersi di essere diventata più forte. Da una parte speriamo di sì, ma dall'altra, forse, questo farsi domande, scoprire piccole meraviglie nella vita di ogni giorno, farsi accalappiare dai dubbi, ce la rendono più vera ed empaticamente ancora più vicina, visto che ormai ci ha fatto diventare complici delle sue fragilità. Sono le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, quelle che ritroviamo espresse con sussurri e potenza nelle dieci tracce di questo disco di disarmante sincerità fatto di tensioni e rilasci, ansie e catarsi. Un esordio ammaliante.
Stop haunting me, please
Just leave me be
Fin dall'uscita di A Common Turn fu chiaro da subito che quella che chi si stava presentando, senza paura di mettere a nudo i suoi traumi e la sua fragilità, era una delle cantautrici più interessanti della sua generazione. Diversi colleghi, e parliamo di nomi del calibro di Father John Misty e Jenny Hval, l'hanno voluta al loro fianco nei loro tour. Abbiamo potuto godere della sua voce intensa e profonda anche in due succosi featuring, nei lavori di un giovane cantautore come Hamish Hawk e in quello dei pionieri techno Orbital, a definitiva testimonianza di una versatilità timbrica e interpretativa maestosa.
A Common Turn era un disco pieno di fantasmi, spettri che aggredivano il subconscio di una giovane artista intenta a leccarsi le ferite dopo una relazione tossica, dopo un amore di quelli che ti divorano senza rendere niente in cambio. E inizia con un fantasma anche il sophomore in|FLUX, "The Ghost", per l'appunto. Ma è assertiva Anna, quando gli intima "Stop haunting me, please/ Just leave me be"; è anzi addirittura beffarda, sembra voler far credere al fantasma che ha ancora un qualche potere, quando invece se ne è già liberata. Ammirate com'è serena mentre lo guarda, come ci guarda con i suoi occhi limpidi e ghiacciati dalla copertina di in|FLUX, mentre in quella del predecessore li copriva, come per nascondersi.
La consapevolezza della giovane cantautrice londinese si è tradotta in un secondo disco che aggiunge tante nuove soluzioni al repertorio. L'elettronica è forse meno vistosa di quella fornita dalla produzione di William Doyle, ma in realtà più presente e inietta i suoi beat tra trame di chitarra acustica, pianoforte, sassofono e clarinetto.
Queste nuove idee sono state studiate dalla chanteuse britannica insieme al nuovo produttore Mike Lindsay (leader dei Tunng, ma già al lavoro con una cantautrice come Laura Marling nel progetto condiviso Lump), chiamato a intervenire sulle bozze preregistrate dalla Savage in solitaria per completarle insieme. Il tocco folktronico di Lindsay è inconfondibile quando i beat elettronici si interpolano perfettamente alla chitarra acustica in "Touch Me", nonché nell'andamento febbrile di "Pavlov's Dog" o negli scorci bucolici di "I Can Hear The Birds Now".
Il cuore nero del disco è il suo frangente più tormentato e in quanto tale più vicino ad A Common Turn, una "Say My Name" che genera dalla sua ossatura di accordi folk un vortice in cui far precipitare accordi di piano, sospiri free jazz di sassofono e invocazioni sofferte. È altrettanto votata all'art-pop - ma decisamente più riversa sull'elettronica - la title track, in cui col mutare dei battiti Anna B Savage sfodera tanti toni e inclinazioni quanti solo una grande vocalist può possedere.
Il disco si spegne tra beat rilassati, fischietti rasserenanti, docili interventi di fiati e Anna che sussurra sicura di sé "I Think I Am Gonna Be Fine": è una "The Orange" foriera di messaggi totalmente distanti da quelli cui la Savage ci aveva abituati.
Oltre alle nuove soluzioni, in|FLUX vede la cantautrice inglese alle prese con una forma canzone più rotonda che in passato. La cosa, va detto, rispetto a quanto accadeva nell'esordio sottrae un po' di brivido, un po' di imprevedibilità ai brani proposti, ma non offusca una stoffa che porterà la Savage sempre più in alto.
I Think I Am Going To Be Fine
La maniera in cui Anna B Savage si mostra sulle copertine dei suoi lavori è sempre molto indicativa di quanto troveremo al loro interno. Su quella dell'esordio A Common Turn ci si presentava immersa nell'oscurità e si copriva gli occhi con le mani, segno dell'inquietudine e del dolore che infestavano canzoni di traumi e relazioni irrisolte. Era ancora nero il fondale scelto per in|FLUX, dove però Anna ci scrutava con i suoi occhi di ghiaccio, presentandoci un mucchio di canzoni più serene e piene di sé. Per la prova numero tre, intitolata You And I Are Earth (2025), la faccia della musicista sbuca, letteralmente, da un cumulo di muschi e licheni. Il ritorno alla natura, la sua riscoperta, forniscono senz'altro una lettura giusta e primaria del suo terzo album. Anzitutto perché è stato realizzato lontano dall'affollata Londra, nelle campagne irlandesi. L'ausilio dell'impegnatissimo produttore locale John "Spud" Murphy e di altri talentuosi musicisti locali come Kate Ellis, Caimin Gilmore (entrambi Crash Ensemble), Cormac MacDiarmada (Lankum) e Anna Mieke ha spianato poi alla chanteuse inglese la strada per un approdo integrale al folk, da sempre ossatura fondamentale delle sue composizioni, ma normalmente attorniata da altri stimoli. Le scosse sintetiche fornite da William Doyle (East India Youth) prima e da Mike Lindsay (Tunng) poi alle canzoni dei primi dischi lasciano dunque il posto a un altro tipo di vibrazioni: ornamenti celtici e pastorali costruiti con archi, fiati e corde pizzicate.
Il disco folk di Anna B Savage inizia dunque con "Talk To Me": note di flauto, il rumore di un ruscello e liriche rivolte al mare e al vento, recitate con un registro che ricalca le orme di Sandy Danny. La Savage non ha soltanto adattato la sua voce tecnicamente educata, intensa e versatile a questi scenari di folk classico: a partire da "Lighthouse", la vediamo cimentarsi con convinzione anche in un'intrigante narrazione a tema. Immaginandosi ultimogenita di una dinastia di guardiani del faro, mentre il pianoforte danza sull'acqua e gli acuti degli archi garriscono come gabbiani. Il mare d'Irlanda, con la sua brezza fredda e salmastra, bagna anche "Donegal", un episodio drammatico e teatrale, costruito con chitarre tese e un ritornello travolgente.
Se relazioni tossiche e prevaricanti erano il centro del primo disco di Anna B Savage e continuavano a gettare qualche ombra anche sul secondo, You And I Are Earth segna una rinascita anche sentimentale. Un amore nuovo, rinfrescante e luminoso, l'unione suggellata dall'abbraccio congiunto alla madre terra del titolo, pervade numerose liriche, ma soprattutto la rigogliosa "Mo Cheol Thú". Una love ballad intima per chitarra zoppicante, che si apre e illumina progressivamente fino a un finale dove fiati e archi volteggiano nell'etere intorno alla voce da sirena. L'idillio con il misterioso irlandese continua anche nella delicata "I Reach For You In My Sleep", altra sortita che parte in punta di piedi per poi ammantare tutto col ritornello.
Festa esoterica di bassi gracchianti e figure folk cangianti, "Agnes" è un'altra prova di inventiva e gusto che solletica la fantasia come le farfalle e gli spiriti del folklore irlandese più oscuro e intrigante.
Si utilizza spesso l'espressione "disco della maturità". Viene da farlo, e a ragione, anche per questo terzo lavoro della cantautrice londinese. Qui Anna non soltanto si confronta con le forme classiche del folk e vince la sfida grazie al talento immenso e alla fiducia in una squadra tutta nuova, ma corre anche il rischio di togliere (perlomeno per lunghi tratti) la sua persona dal centro delle liriche e travestirsi da cantastorie antica e sciamanica. Inutile metterlo in dubbio: anche la terza impresa la vede vittoriosa.
Contributi di Stefano Santoni ("A Common Turn")
A Common Turn(City Slang, 2021) | ||
in|FLUX(City Slang, 2023) | ||
You And I Are Earth (City Slang, 2025) |