Dal fantasma pesante al cuor di piccione. In pochi si erano accorti e ancora meno avevano capito il debutto di Daniel-Michael Stith (nativo di New York), "Heavy Ghost" (2009); forse per paura di sovraccaricare il suo potenziale pubblico, "Pigeonheart" arriva a ben sette anni da quel primo episodio. Tra uno e l'altro, solo una raccolta di demo e remix ("Heavy Ghost Appendices", 2010), molto silenzio e, più avanti, un singolo presentato con distaccata, timida nonchalance, un "War Machine" (2014) che è una sordina in tempo di swing ritmata da oggetti trovati, percossi vellutatamente. È soprattutto la struttura a impressionare: Stith mette in sequenza spezzoni di formule cantate per averne la libertà di sovrapporle, fratturarle, e quindi metterle in un crescendo d'apoteosi.
È in tutto il manifesto della nuova opera, aperta dal refrain sfigurato dalle pulsazioni e i voli canori deformi di "Human Torch", e rimpolpata poi dall'allucinazione tribal-caraibica di "Summer Madness" (una preghiera a mezza voce) e dal mulinar di percussioni trottanti (citazione inconscia dell'incipit di "Scarecrow" di Syd Barrett) per il raga trascendentale di "Rooster". Stith imposta esperimenti delicatissimi che rischiano a ogni secondo di scadere in una rinfusa di suoni.
Se "Murmurations" è un breve ma prodigioso distillato della sua personale rivisitazione delle armonie vocali, "Cormorant" è una sua applicazione a un livello più basso di astrazione (una ballata folk arroventata di sinusoidi elettroniche). La filastrocca tossica e sognante in tempo di valzer di "My Impatience" (sette minuti) si protrae finché il trip non s'innalza tra gli astri come una cometa tremula e sfavillante e poi si appiana nell'ancor più scarna title track, per voci in loop, echi e silenzi e solo un motto imperativo che si rifrange nella storia della musica vocale, dai gregoriani ai Beach Boys.
Di struttura, tono, clima e intenzioni sovrapponibili al debutto. Ben lungi dall'esserne una semplice e furba replica, è piuttosto il modus dello sperimentatore che tiene stabile una variabile per cambiare le altre, cioè - nella fattispecie - spostare di una tacca il proprio ruolo da cantore folk a produttore, leader, arrangiatore ossessionato dalle possibilità dell'ugola. La rende possibile anche una spavalderia che, va da sé, cede qualcosa: un buon techno-pop cartoonesco a ritmo indiavolato ("Sawtooth") e un vitreo nu-soul basato sui cori del brano eponimo ("Amylette"), rispettivamente la concessione facile del caso e il riempitivo di lusso. Bonus per l'edizione digitale: "High Power".
03/08/2016