Quando un musicista abitua il suo pubblico - vasto o di nicchia che sia - a una girandola di uscite e a una prolificità incredibilmente costante, una tregua rischia di dar adito a perplessità di vario genere. Kieran Hebden alias Four Tet è un artista che ha "viziato" in maniera incredibile i suoi estimatori, facendo di ogni sua uscita una sorpresa, una mina vagante, e rendendosi capace di svolte tutto fuorché scontate, senza mai accennare a un benché minimo segno di stanchezza creativa.
A guardar bene la sua apparentemente brulicante discografia, si noterà però che la gran parte dei titoli non corrisponde a prove sulla lunga distanza (sono in realtà cinque, una più bella dell'altra), bensì a singoli ed extended play, incastonati come piccoli tasselli prima dell'arrivo dell'atteso Lp: una strategia discografica divenuta ormai tradizione per il marchio Four Tet. Pareva dunque lecito (e per certi versi scontato), dopo due anni - pochissimi al giorno d'oggi, di più per un iperprolifico come Hebden - a suon di 12'', split (in compagnia, fra gli altri, di Sven Vath, Burial e Thom Yorke) e remix, ricondurre l'annuncio di un nuovo album all'arrivo del sesto parto del suo main project.
Quel che invece ci ritroviamo nell'hard disk - l'uscita è disponibile solo in formato digitale, eccezion fatta per un'edizione fisica a tiratura limitata per il mercato giapponese - è la raccolta di parte del materiale seminato in questi anni di "uscite minori", più un paio di inediti che lo stesso musicista avrebbe voluto, per sua stessa dichiarazione, pubblicare con la medesima formula. Dunque, non un nuovo album, non l'ennesima svolta accattivante, e nemmeno una raccolta di outtake inediti, che avrebbe comunque affascinato non poco: "Pink" è piuttosto un raccoglitore virtuale per quelle fotografie rimaste in precedenza sparse per la scrivania della cameretta di Hebden, che ci ritroviamo ora qui riunite, un po' impolverate e non troppo dissimili dalle "sorelle maggiori" che avevano composto "There Is Love In You", sorta di fresco connubio dei linguaggi precedentemente affrontati.
La strada è infatti la stessa, e conduce un po' verso il dancefloor in cui si balla una house cristallina e docile (i languidi droni di "Ocoras", l'elettro-jazzata "Pinnacles") e un hip-hop bianco à-la-Flying Lotus ("128 Harps"), un po' alle memorie della "vecchia" folktronica, a tratti pura e incontaminata (l'old-styled "Jupiters", probabilmente il brano migliore del lotto) e ad altri votata all'uptempo ("Pyramid") o a un dubstep cosparso di zucchero ("Locked"). Discorso a parte lo meritano i due inediti: "Lion" si vota a una rarefazione analogica quasi ambientale, ispirandosi a tratti all'Aphex Twin di "Selected Ambient Works 85-92", mentre "Peace For Earth" è un lungo e saltellante carillon minimalista, che suggella in undici minuti le coordinate più pure del Four Tet delle origini.
Sebbene la qualità delle composizioni sia senza dubbio elevatissima - come ormai da standard per tutte o quasi le sue uscite - mai un album del genio anglo-africano era sembrato tanto scontato, nell'operazione come negli intenti. E così, "Pink" ci appare come un regalo di caratura in buona parte inferiore, più nella forma che nella sostanza, a ciò che era lecito aspettarsi: un disco senz'alcun dubbio ottimo per stuzzicare i palati di qualsiasi buongustaio, ma non altrettanto per saziare una fame che, visti i precedenti capitoli della saga, non può che farsi più grande ad ogni novità. Per ora è tutto, ci tocca prendere e gustare quanto (parecchio) di buono (già) c'è(ra). Per le novità, appuntamento alla prossima puntata.
04/09/2012