Four Tet

Sixteen Oceans

2020 (Text)
downtempo, ambient

E’ un’autoreferenzialità gentile, quella esposta dal sommo Kieran Hebden in questa sua decima opera, intitolata romanticamente “Sixteen Oceans”. Un compiacimento dolcissimo, il suo, espandibile in ben 16 tracce alimentate grazie alla collaudata ricetta di battiti essenziali e spiritualismo un po' catchy, fluttuante come le onde che si infrangono di notte sulla spiaggia a Rodrigues, isola sperduta nelle acque dell'Oceano Indiano. Tuttavia, al netto del glorioso passato, questa comfort zone inizia a nascondere qui e là delle zone d’ombra, raggiunte magari attraverso sentieri percorsi troppe volte ad occhi chiusi. Momenti di stanchezza in fin dei conti perdonabili, ma che influiscono nel bilancio complessivo.

Ebbene, in questo suo atteso ritorno Hebden proprio non vuole saperne di cambiare pelle, o magari azzardare la messa in scena di turno, quel mutamento, per alcuni maledettamente necessario, da attuare per restare in scia. Superati i quaranta, il musicista londinese cresciuto coi vinili di papà e la drum'n'bass diffusa a scuola nell'aula studenti, insegue esclusivamente quello che gli suggerisce l’onda emotiva, metaforizzata dal richiamo oceanico palesato nel titolo.
L’avvio, però, non è di certo dei migliori. “School” mette infatti in riga una cassa “garage” su base lounge troppo inflazionata e sbrigativa per aizzare le antenne. Mentre la successiva “Baby” prova a fare di meglio avvalendosi di un tempo dispari vagamente dubstep, alternato per giunta al cantato “house” da sfruttare, come di consueto, in ripartenza. Un giochetto, quest’ultimo, che avrebbe anche una sua “peculiarità” se ci trovassimo ancora nel 2001. In tal senso, il richiamo agli umori del memorabile “Pause” è d’uopo.

Al contrario, in “Harpsichord” è il Four Tet estatico e ipnotizzato a uscire fuori dal guscio, quasi a ricongiungersi idealmente con certa ambient riflessiva dei primi 80. Per intenderci al meglio: si potrebbe ipotizzare un Deuter che prega con Joanna Brouk. Insomma, synth espanso e new age all’orizzonte: nulla di più “abusato”, parimenti nulla di più “sicuro”.
Totalmente riuscite, invece, le ascesi elettroniche alla Minilogue piazzate al centro del piatto (“Love Salad”, “Insect Near Piha Beach” e “Something In The Sadness”). Una tripla goduria degna dei tempi migliori, eppure maledettamente distante dall'alchimia di un disco come "Everything Ecstatic". Certo, Hebden dimostra di avere sempre e comunque il colpo in canna, ma i suoi sono meri lampi improvvisi, per giunta controbilanciati da intermezzi sciatti e pressoché inutili (“Hi Hello” e “ISTM”).

In coda, torna “drammaticamente” in auge una certa magrezza compositiva, ottenuta con riempitivi ambientali di sorta, ossia uccelli misti a fascinazioni ambient (“Green”) e catarsi muzak da centro benessere (“4T Recordings”, “This Is For You” e “Mama Teaches Sanskrit”). 
Tirando le somme, “Sixteen Oceans” mette sostanzialmente in luce due anime di Four Tet: quella da un lato conservatrice ma al tempo stesso ancora “esplorativa”, e quella più soporifera, esposta attraverso un mood meditativo tutt’altro che brillante. Un album, dunque, a fasi alterne, che potrà tanto allietare i fedelissimi, quanto annoiare i “novizi” alla ricerca della sacrosanta piroetta ad effetto.

16/04/2020

Tracklist

  1. School
  2. Baby
  3. Harpsichord
  4. Teenage Birdsong
  5. Romantics
  6. Love Salad
  7. Insect Near Piha Beach
  8. Hi Hello
  9. ISTM
  10. Something In The Sadness
  11. 1993 Band Practice
  12. Green
  13. Bubbles At Overlook 25th March 2019
  14. 4T Recordings
  15. This Is For You
  16. Mama Teaches Sanskrit

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