A Griffith Park la vita scorre lenta e tranquilla, al di là delle stagioni è possibile imbattersi in uno scenario paradisiaco intravisto solo nei film ultra-romantici di stampo hollywoodiano, e passeggiare indisturbati su immense praterie, tra un campo di golf, un gruppo folk posto ai bordi della strada, e ragazzini che corrono felici su uno skate con tanto di auricolare e lettore di ultimissima generazione. Senza troppi giri di parole, da queste parti tutto è tremendamente bello, tutto è al suo posto, la serenità è praticamente stampata sul volto di tutti. Questa grande oasi verde posta a nord est della Città Degli Angeli è perfetta per trovare l’ispirazione giusta, il campionamento perfetto, quel groove che disorienta lo spirito. Scontato, dunque, che proprio a Griffith Park tale Chris Manak, meglio conosciuto come Peanut Butter Wolf, o il più grande feticista musicale e ricercatore di beat degli States (fate un po’ voi), in compagnia del rimpianto Charles Hick, aka Charizma, abbia impiantato, nei primi novanta, il suo mostruoso arsenale di dischi, allestendo nell’angelico quartiere la sede ufficiale dell’etichetta “negra” al giorno d’oggi più esplosiva ed estroversa della California, degli Stati Uniti e della Terra.
Difatti, non si contano, dal lontano 1993 a oggi, le soluzioni adottate nella proposizione di un nuovissimo collage hip-hop & funk, dannatamente spiazzante, propriamente "negro", volutamente vintage, dove alla base di ciascun groove formulato è insita un’assidua ricerca di sovrapposizioni a tappeto, estratte da long play provenienti da ogni angolo del pianeta, senza distinzione di stile: da Madlib a Egon, passando per Mf Doom e Dudley Perkins, fino a incrociare i vari Heliocentrics, J Dilla, James Pants, Oh No, Quasimoto, Percee P, e la visionaria Georgia Anne Muldrow.
Alieni che allestiscono da inizio millennio dj set misericordiosi con esibizioni stratosferiche lungo tutta la west coast. Una combriccola di artisti e manipolatori elevata a culto da certa critica di nicchia e non solo, con consensi a 360°, forte di una miniera infinita di arsenale di ricerca (tonnellate di dischi pescati ovunque da Egon e dai due Jackson), che continua a diramare, anno per anno, a colpi di beat e sovrapposizioni analogiche, il nuovo verbo della (new) black generation.
Della sterminata cerchia, l’oriundo con passaporto canadese Koushik è di sicuro l’elemento più strampalato, l’outsider irrazionale, a suo modo: “l’eremita del gruppo”. Difatti, il suo intento è un vero è proprio rompicapo: mescolare folk "indiano" e partiture elettroniche calibrate con soul appeal d’antologia, il tutto avvolto in una veste sacra post-moderna, enfatizzata in tutti i suoi ricami da canti angelici e spifferate eteree, senza mai tralasciare l’aspetto funky.
Insomma, siamo su territori alquanto incontaminati, ed è lecito procedere con cautela nei vari sentieri che costituiscono l’opera.
"Out My Window" è un caleidoscopio di estrazioni analogiche funk d’annata con licenza lisergica, un coagulo spirituale di atmosfere dreamy associate a dilatazioni folcloristiche acide flower power e impalpabili tintinnii orientali. Il ragazzo osa alla stregua del Prefuse più ricercato (chi si ricorda il sample di Karen Dalton utilizzato per pochi secondi da Scott Herren in "Surronded By Silence"?), del Four Tet più acquerellato (prendete “A Joy” da "Everything Ecstatic" e rallentatela con cadenza lounge e avrete un’idea precisa dell’andatura e della natura grezza del beat ricavato mediamente da Koushik), o del Caribou trasognato di "A Milk Of Human Kindeness".
L’introduttiva “Morning Comes” è uno sfarfallio di cristalli in festa sospinti da un canto solfureo, climax pastorale perfetto per introdurre la quieta “Be With”, divisa com’è in due tronchi d’esecuzione paralleli: orchestrina asiatica campionata da chissà quale scaffale da un lato e linea di basso jazzy & funky, à-la Gil Scott-Heron, dall’altro.
Tutte le luci del disco si accendono nella marcetta eterea “Lying In The Sun”, natalizia e fanciullesca fino al midollo, ritmata a mo' di giullari in piazza con tanto di micro-cori gospel in sottofondo. E’ una trombetta da mercante di Bombay (“Buttaflybeat”), invece, ad aprire la nenia broken beat di “See You”. Il viaggio continua nella spensierata filastrocca “Nothing’s The Same”, dove per un attimo si ha quasi l’impressione che Koushik abbia ingaggiato dalla Matador i due Brightblack Morning Light, Nathan Shineywater e Rachel Hughes. E se con “Welcome” il campionamento è votato alla riformulazione di atmosfere romantiche da telefilm americano rigorosamente (e volutamente) di serie B, in “In A Green Space” e “Forest Loop” è l’ombra del miglior Brian Jackson a ricomparire in tutta la sua grazia soul-funk. La preziosa ricerca culmina nell’atonalità sintetica della title track: groove negroide imploso in coda acida.
Questo disco è un mosaico orientale di suoni campionati con ispirazione divina, un tuffo psych nei meandri odierni del vintage funk targati Stones Throw, una danza del ventre sognata a occhi aperti, uno sguardo oltre le finestre abituali del folk, del soul in tenuta Bronx e della musica estatica.
Serve altro per sognare?
01/12/2008