La voce del giovane Nathan sembra provenire dal fondo del mare, o magari dal pozzo di casa Gilmour, anche se il ragazzo ha dimenticato, o ancora meglio non è capace di azzardare nessun vocalizzo ad effetto; le sue escursioni vocali non superano la sala di registrazione, restano sospese nel vuoto, lievitano, sospinte senza forza, quasi disperse, risollevate solo da una voglia infinita d’amore e libertà, un sospiro continuo che non conosce tregua, immerso nelle dolci utopie (?) di inizio millennio. I testi spaziano dalle questioni sociali più svariate, ai classici rituali amorosi di due “fanciulli” uniti nell’amore, congiunti in un sodalizio “pastorale”. In questo clima mon amour l’amatissima Rachel domina la scena tenendosi spesso a distanza siderale, qualche volta decide anche di avvicinarsi timidamente al microfono, senza mai slegarsi dalla mano del suo compagno.
Gracili sussulti mescolati a carezze afro-cubane aprono le stanze dell’Harem di casa Shineywater, “All We Have Broken Shine” non è altro che una danza notturna d’altri tempi, legata, nella sua ubriachezza persuasiva, alle tradizioni slow-folk delle associazioni pacifiste dei primi anni Settanta. Neanche il tempo di entrare e il Rhodes è già lì a mostrarci “A River Could Be Loved”, un vero e proprio sofà sonoro, ricamato con pochissime sfumature, nel segno di un’assoluta quiete sensoriale, mentre i due fan di Donovan (periodo "A Gift From A Flower To A Garden") continuano a immergersi in un lamento incantato, intonando un coro dall’effetto valium. Riprendiamo i sensi solo dopo un po’, con “Star Blanket River Child”, simpaticissimo blues dal ritmo docile, lievemente armonizzato dal wah wah ; la sorpresa è tutta nell’avanzata gospel della signorina Hughes, stavolta il microfono è tenuto stretto tra le mani, senza mai rinnegare troppo lo spirito yoga con il quale la tenera fanciulla modella le corde vocali.
Diciamo che, ascoltando questo disco tutto d’un fiato, si corre il rischio di mescolare puntualmente le carte, senza mai capire le regole del gioco proposto dai due fidanzatini; ciò è anche dovuto all’assenza di momenti realmente emozionanti, vivaci e generosi nel proporsi sul resto della produzione, spesso troppo “tiepida”. Ecco perché “Come Another Rain Down”, “Black Feather Wishes Rise” e “ Friend Of Time”, scorrono via senza lasciare il segno, eccezione fatta per alcuni momenti, quando subentrano trombette o qualche oggettino, sbattuto qua e là nella disperata ricerca del diversivo di turno.
Nonostante questi passaggi a vuoto, il disco non perde mai il contatto con l’alone esoterico proposto sin dal principio. Talvolta capita di riascoltare una “If” dei Floyd dilatata all’inverosimile, condita da orientalismi e scordate acide, degne di uno Shawn Phillips in preda all’alcool, intorbidito dal sonno. Non siamo nel bel mezzo dei Sessanta, ma al centro del primo decennio del nuovo millennio, e neanche la delicatissima “Fry Bread” evita il dolce (premeditato) equivoco, prima che “Everyboby Daylight” batta le mani e illumini nuovamente la stanza, risollevandoci dagli ormai caldi cuscini posti sul sofà d’ingresso; un soul psichedelico d’alta scuola, mai invadente, con un flauto sconnesso in lontananza a far da guida su tutto il resto.
Appena usciti fuori da queste suadenti mura, non possiamo che strizzare gli occhi, e pensare, con qualche rammarico, che la luce nera e luminosa del mattino ha riscaldato sì il nostro sonno più profondo, ma ha anche un tantino esagerato nel cullarci, causando, inevitabilmente, un risveglio con pochi ricordi del bel sogno appena svanito.
(06/10/2006)