Dicono che William Bevan sia un ragazzo timidissimo e che la sua musica sia perfettamente allineata a una forma di nichilismo per certi versi aliena. Dicono che Will sia diverso da tutto e tutti, che detesti la sua stessa celebrità e che non ami mostrarsi in pubblico. Dicono che Will tenda sempre ad allontanarsi dai club, dalle serate che contano, da qualsiasi platea, festival o possibile evento celebrativo. A differenza degli altri membri della combriccola di Kode 9, Will è un vero chierichetto. Un'anomalia - o una salvezza, fate un po' voi - risaltata in ogni singolo tratto della sua personificazione musicale. Perché la reincarnazione in Burial è solo un pretesto, o più semplicemente un modo per seppellire e al contempo far fiorire ardite introspezioni caratteriali palesate a iosa. A dar man forte a questo avvincente dualismo istintivo sono le atmosfere perennemente cupe annusate nei suoi pezzi, inacidite da pesanti iniezioni di deflagrazioni elettroniche atte a inscenare un rigurgito tossico costante, mentre i bassi marciano in sottofondo ora smorzati, ora raddoppiati in linea obliqua, a incarnare una struttura ritmica talvolta semplicissima, priva di complicazioni e inutili articolazioni cerebrali, diretta e vibrante.
Bene. Sono trascorsi cinque anni dall'omonimo esordio, quattro dal secondo atto, manifesto assoluto e schiacciante conferma della spontaneità e della creatività poderosa dell'introverso producer. Ma a dire il vero, Will non ha mai smesso di manifestarsi al mondo. Il suo nome è entrato praticamente ovunque, mentre quella cosa chiamata dubstep mutava a seconda delle inclinazioni dei vari Shackleton e Benga, permeando a destra e a manca nell'universo pulsante della vecchia Europa. In tutto questo tempo, il sempre più silenzioso Will ha continuato a vivere nell'ombra, nella sua ombra, lasciandosi avvicinare solo dai fedelissimi della Hyperdub, da un certo Kieran Hebden e dulcis in fundo dall'onnipresente/onnipotente Thom Yorke, divenuto fan sfegatato del giovane produttore londinese, recentemente selezionato a getto continuo nel masturbante dj-set allestito a sorpresa dal musicista di Wellingborough presso il celebre club "Low End Theory" di Los Angeles.
Ma accantoniamo qualsiasi distrazione, perché l'evento è di quelli grossi, nonostante "Streeet Halo" sia solo un Ep da tre tracce, tre schegge lanciate dal quartier generale della Hyperdub per svuotare i secchi stracolmi di bava posti sotto le nostre mascelle. In effetti, cos'altro potrebbe nascondersi dietro questa celere apparizione dell'illustre capofila? Un antipasto del terzo meteorite? Un'impaziente anticipazione di quello che delineerà i tratti della creatura in grembo al giovane talento? Nulla di tutto questo. Le voci di corridoio suggeriscono che manca ancora molto tempo all'evento del nuovo decennio e che il qui presente trittico non ha alcuna pretesa, se non quella di mostrarci le sembianze sonore di un Burial in stato di grazia. Will prosciuga la matassa dal ph prossimo allo zero nell'omonima open-track, riga in cassa dritta, riprendendo laddove "Raver" calava il sipario di "Untrue", mostrando così nuovi scenari per il futuro e il suo lato più "danzante". Groove immacolato alternato a un'estasi vocale soppressa solo in parte dalla cavernosità dei bassi e delle sfumature, e il gioco è fatto. Da contraltare, "NYC" riconduce gli animi nell'ombra: broken-beat appena abbozzato, qualche piroetta per scaldare l'ambiente e una tetraggine da sfondo a voce vocoder in implorazione soul. Il rimbalzo liquido di "Stolen Dog" smorza i toni ed evidenzia un'evoluzione organica ed emotiva del flusso dubstep diluito.
Siamo eccitati. E il conto alla rovescia è appena iniziato.
26/03/2011