Travis Scott

Travis Scott

Rime da un parco divertimenti allucinato

Il rapper originario di Houston, Texas, ha trovato in pochi anni una chiave di lettura allucinata, malinconica e onirica dell'hip-hop di fine anni Dieci. Attraverso alcuni singoli e album di grande successo, è diventato una nuova star della musica mondiale. Il suo nuovo modo di fare hip-hop, e spesso avvicinarsi al filone trap, sviluppa le intuizioni di altri artisti contemporanei

di Antonio Silvestri

1992–2007: da South Park a New York

Quando ero piccolo, mia nonna è rimasta nel quartiere, così ho visto cazzate fuori di testa. Ho visto barboni pazzi e figli di puttana schizzati, ho visto persone che sembravano strane, affamate e lerce. Pensavo sempre 'Devo andarmene da questo cazzo di merda'. Questo mi ha dato un vantaggio... mi ha reso chi sono adesso.
(Travis Scott parla su Complex della sua infanzia) 

Jacques Berman Webster II nasce nel 1992 a Houston, Texas. Vive per i primi sei anni insieme alla nonna, a South Park, zona malfamata e molto povera, a grande maggioranza afroamericana (81%). Dal 1993 il quartiere viene sostanzialmente abbandonato dall’amministrazione, visto che nessuno dei suoi abitanti è abbastanza ricco o influente da rappresentare anche una priorità politica. Le fogne iniziano ad arrugginire, le tubature si rompono: è il degrado. Le richieste di un intervento immediato vengono ignorate, così l’allagamento del 1994 costringe al trasloco 10.000 residenti, causando l’abbandono di molte abitazioni ormai non più agibili. Entro il 2000, agli afroamericani si affianca una considerevole minoranza ispanica, che alimenta una polveriera sottoproletaria dove indigenza fa rima con criminalità. La zona è estremamente pericolosa, e il giovane Jacques rimane segnato da quello che vede da giovanissimo.
Il trasferimento a Missouri City, centro periferico di Houston abitato dalla classe media, rappresenta una rinascita. Qui le prospettive non sono esattamente rosee, ma quantomeno il pericolo di essere assalito o derubato si riducono drasticamente. I genitori, il padre un libero professionista e la madre una dipendente del colosso informatico Apple, permettono al figlio di diplomarsi e persino di iscriversi alla University of Texas a San Antonio, che Jacques abbandona al secondo anno. Con un nonno compositore jazz e un padre cantante soul, sente che la sua strada è quella della musica: si trasferisce a New York, subito dopo essersi ritirato, ma perde così il fondamentale supporto finanziario dei genitori. Insegue il suo sogno.

2008 – 2012: dai tentativi su Myspace a T.I.

Il primo tentativo di sfondare come musicista avviene ancora prima del trasferimento a New York: è un duo con l’amico di vecchia data Chris Holloway, che cerca di farsi strada su Myspace. Si chiamano The Graduate e durano il tempo di un Ep. Ci riprova con un compagno di scuola, questa volta scegliendo come nome The Classmates, in uno slancio di fantasia. Resiste dal 2009 al 2012, e permette a Jacques di farsi le ossa come produttore. La cosa si fa seria, però, solo con il trasferimento a New York, anche se questo non segna l’atteso cambio di passo per la sua carriera: collabora con Mike Waxx del sito Illroots ma rimane senza un soldo, così dorme sul pavimento a casa di amici e tira avanti giorno dopo giorno vivendo nello studio di registrazione Just Blaze.
Non può continuare a lungo così, quindi si trasferisce a Los Angeles dopo appena quattro mesi. Neanche qui trova dove dormire; con la coda fra le gambe, ritorna a Houston. La brutta sorpresa è che i genitori, traditi dal suo ritiro universitario e dal trasferimento a New York, lo cacciano di casa: vola indietro a Los Angeles, dove finalmente trova un divano dove dormire. Sembra un caso disperato, ma finalmente viene notato da un rapper di Atlanta, padrino della trap, T.I.: è il proverbiale raggio di sole, il punto di svolta di una carriera che nei suoi primi quattro anni ha regalato solo delusioni.

2013–2015: i due mixtape, fra faraoni e rodeo

Dropped out, got signed, got mom house all in the same year
(da "Upper Echelon")

Il biglietto da visita che vuole presentare al mondo è il mixtape Owl Pharaoh, a nome Travis Scott: è un omaggio a uno zio che ha rappresentato per Jacques un modello. Lo annuncia nel 2011, ma poi l’incontro con T.I. e l’interesse che, poco dopo, dimostra anche un gigante del rap mondiale come Kanye West lo costringono a rivedere il progetto. Rimandato al 2012, quindi al febbraio 2013, anche a causa di alcuni problemi legali con i campionamenti, riesce finalmente a pubblicarlo a maggio dello stesso anno.
Nato dalla collaborazione con il già citato Kanye West, ma anche grazie all’apporto di Justin Vernon, è un mixtape che vede al lavoro anche T.I., 2 Chainz, Wale, Toro y Moi, Theophilus London, ASAP Ferg, James Fauntleroy e Paul Wall. Tutt’altro che ingenuo, è un campionario di hip-hop eclettico che deve molto a “My Beautiful Dark Twisted Fantasy” e al suo spirito onnivoro. Che sia il tensivo clima ottantiano di “Bad Mood Shit On You”, chiusa da un intreccio gospel, o la trap da copione di “Upper Echelon” (con T.I. e 2 Chainz) o quella più moderna di “Uptown” (con A$AP Ferg) e “Quintana” (feat. Wale), tutto suona come qualcosa di più che uno dei tanti mixtape del periodo.
Delle bave psichedeliche si infiltrano nelle distensioni soul e gospel, un ritornello decolla in “Dance On The Moon” (con Theophilus London & Paul Wall): tutti elementi che sembrano sviare la musica dal più ovvio allineamento ai canoni trap e hip-hop. In “Blocka La Flame”, il primo singolo della carriera, s’inserisce il dancehall di Popcaan su un beat firmato (anche) da Young Chop nel suo momento di grazia, ancora fresco delle esplosive hit drill prodotte per Chief Keef. Un progetto fatto in grande, che coinvolge rapper e produttori di primo piano.
È l’inizio della collaborazione con Mike Dean, che plasmerà il suono dei suoi lavori maggiori, ma anche il primo passo per la creazione di una rete di collaborazioni che pone Travis Scott al centro della scena hip-hop mondiale, con alcune importanti aperture anche verso il più ampio mondo urban. La mancanza che più si avverte è proprio quella della cifra stilistica del signor Webster, che rimane schiacciato da tante collaborazioni e contributi. È una critica che continuerà a perseguitarlo, facendo buona compagnia a Drake.

Il secondo mixtape, Days Before Rodeo (2014), è il preludio dell’esordio propriamente detto. Vede la collaborazione della pop-band inglese The 1975, delle trap-star Migos, del mentore T.I. e dei rapper Peewee Longway, Young Thug, Big Sean e Rich Homie Quan. È soprattutto un espediente per tenere alta l’attenzione prima di un album lungamente atteso, infatti non replica il dispendio di nomi famosi e collaborazioni d’eccezione di Owl Pharaoh. Nonostante questo, è uno dei lavori più interessanti del periodo per il mondo di mezzo fra mainstream e underground, in cui transita Travis Scott. Aperto dai campionamenti di Philip Glass, affoga ancora in nebbiose atmosfere allucinate (“Drugs You Should Try It”, la visionaria “Skyfall”), anche solo per attorniare più canonici momenti hip-hop (“Don’t Play”, con Big Sean e The 1975).
L’originario linguaggio trap si scioglie, a momenti, in violacee, collose composizioni dove il guizzo produttivo del riverbero, della deformazione vocale, del tanto vituperato autotune diventano strumenti espressivi nuovi, che duellano con i versi rimati per il ruolo da protagonista. Più che verso anfetaminici inni di strada, si scivola verso trenodie rintontite come “Zombies”, che esplicitano il lato oscuro della corrente trap: desolazione, vacuità, malinconia, nostalgia. Proprio questa direzione onirico-letargica, allucinatoria e intimista, sarà protagonista del suo esordio.

2015–2016: il successo mondiale di un'allucinazione hip-hop

No monogamy, ménage with me
Pornography surrounding me
You get high with me, you come down with me
That's all I need in my fantasy
(da "Pornography")

Il primo singolo presentato al pubblico è la futuristica trap di “3500”, con Future e 2 Chain e prodotta da Metro Boomin, Zaytoven, Mike Dean, Mano and Allen Ritter. C’è un aspetto macroscopico che incuriosisce anche il più pigro degli ascoltatori: il pezzo dura quasi 8 minuti, un’infinità per un singolo, per di più da un artista in zona trap. Premuto play, ci si trova davanti a una elaborata composizione che rivaleggia con le cangianti fantasie hip-hop del migliore Kanye West, delineando un collage minaccioso reso malinconico da un carillon liquido e disumano dalle sbrodolate di autotune. È uno dei brani più disorientanti che si possano ascoltare nel 2015, e preannuncia l’ambizoso album che esce a settembre, Rodeo. Aperto da “Pornography”, rende le pennellate allucinate del passato dei timidi bozzetti: qui è tutto immerso in una nuvola di riverberi e alterazioni sonore, ed è come muoversi di pensiero in pensiero nella mente di Scott.
Persino il contributo di Quavo dei Migos, di solito molto incline a una trap semplice e diretta, non tarpa le ali a “Oh My Dis Side”, che si liquefa a metà, si ricompone e infine chiude con una tristissima melodia deformata. Se Drake e Future hanno ridotto la distanza fra cantare e rappare, unificando idealmente la direttrice soul e quella hip-hop della musica nera, allora nelle opere di Travis Scott si amplia ancora di più il continuum: dal borbottìo al rantolo, dalla preghiera alla confessione, fino all’elogio funebre.
La fantascientifica “Wasted”, mossa da un beat infestato e deformato, trova nel ritornello preso dalla “Havin’ Thangs ‘06” di Pimp C l’ideale conclusione di una sbronza malinconica, speziata di codeina. Il fatto che Pimp C sia morto a 34 anni non fa che ammantare il tutto di un alone disperato, che comunque traspare da tutta l’opera. In “90210”, la versione di Rodeo di una canzone d’amore hip-hop, fluttua su una linea vocale femminile eterea, mentre droni di synth avvelenano l’atmosfera: più che su una soleggiata strada costiera, siamo al centro di un dramma psicologico. Un assolo di chitarra psych-rock fa sbandare il brano verso un funk crepuscolare, su cui permane una tensione angosciante. Una simile claustrofobia, onirica e sonnambula, anima anche “Pray 4 Love” (con The Weeknd), che però riduce di molto le sorprese, mentre “Nightcrawler” (con Swae Lee e Chief Keef) rimodula verso un più canonico ibrido di trap e drill.
Sembra che l’album sia destinato a non sorprendere più, ma “Piss On Your Grave”, un blues velenoso e digitale con Kanye West, costringe a ricredersi. È comunque uno degli ultimi momenti di originalità dell'opera, che in “Antidote” e nella successive “Impossible”, “I Can Tell” e ”Apple Pie” non fa che ripercorrere la strada psych-trap.
L’impressione generale che si stia esplorando i meandri di una mente frammentata, ottenebrata e un po’ schizofrenica è acuita da “Maria I’m Drunk”, con un intervento di Justin Bieber, e “Flying High”, in cui collabora Toro Y Moi.
La novità che Scott porta con il suo Rodeo è frutto del lavoro di un plotone di produttori, quali Mike Dean, Metro Boomin, Jason Geter, Allen Ritter, Frank Dukes e WondaGurl, co-protagonisti insieme ai vari rapper e cantanti che intervengono a supportare il signor Webster. Il più evidente punto debole dell’opera, cioè il ridursi di momenti memorabili nella seconda parte dei suoi sovrabbondanti 65 minuti, non deve ottenebrare l’innovativo sound che con eclettismo ricompone un vasto puzzle sonoro, in cui Scott funge da collante, come si definirà lui stesso qualche anno dopo (“Sicko Mode”, che arriverà nel ’19). Si delinea con lui, come è già capitato con Drake e con Future, ma solo in parte con West, una ambigua figura di artista-imprenditore, che coordina i propri progetti, intessendo collaborazioni e collegando stili, personaggi e mondi altrimenti molto distanti. È davvero sorprendente che Scott possa ambire a un ruolo simile al suo esordio ufficiale, ma è la conseguenza della lunga gavetta: Rodeo porta a maturazione un’idea sognata, immaginata, affinata negli anni.
Il tanto agognato successo arriva: terzo nella Billboard 200, vende oltre un milione di copie. Il singolo “Antidote” ottiene 4 dischi di platino negli Stati Uniti e altri 2 dischi di platino in Canada: vende oltre 4 milioni di copie. Il ragazzino del malfamato South Park, che ha attraversato l’America per realizzare il proprio sogno, dormendo sul pavimento e vivendo in studio, ce l’ha fatta.

2017–2020: uccellini in gabbia e giostre abbandonate

Okay, I been up for some days, I ain't got time to lay
Just to drown out all these thoughts, I tried all kind of things
(da "Stargazing")

Cosa fare, adesso? Approfittare del momento di celebrità. A gennaio 2016, cioè appena quattro mesi dopo la pubblicazione dell’esordio, Scott annuncia un secondo album. Lo intitola Birds In The Trap Sing McKnight e sembra dover uscire a inizio anno, ma viene rimandato ben tre volte. A settembre, un anno dopo Rodeo, finalmente il mondo può ascoltare le 14 nuove canzoni che formano la scaletta, inclusi i due singoli “Wonderful” e “Pick Up The Phone” usati per promuovere l’album. Già quei due brani fanno intuire il cambiamento avvenuto dall’esordio: la dimensione onirico-allucinatoria non distrugge la struttura dei brani, ma li accompagna o li piega, tranne che nel curioso “Sdp Interlude”. In “Wonderful” (con The Weeknd) è la forza che trasforma la coda in un incubo alla dirty sprite, mentre in “Pick Up The Phone” (con Young Thug) colora appena l’arrangiamento.
Mancano brani estesi, che con l’abbondante minutaggio permettevano deviazioni imprevedibili, ma non siamo comunque davanti a una serie di canzoni trap ordinarie. "The Ends" (con André 3000) è divisa idealmente in tre sezioni, da un soul robotico verso un hip-hop lugubre per approdare a un ansiogeno e claustrofobico finale. “Way Back” è quello che rimane di una nenia trap quando viene filtrata da una dimensione ipnagogica e depressiva. “Coordinate” fa rimbalzare uno scazzato rap su pesanti riverberi e una spettrale melodia. Quando arriva uno dei miti di Scott, Kid Cudi, in “Through The Late Night”, l’energia ballabile e festosa viene risucchiata da inquietanti vuoti e i soliti riverberi angoscianti; in “Guidance” un saltellante ritmo latino stride nell’accostarsi al nebbioso autotune. “Goosebumps” è un borbottare sonnolento, semi-cosciente, da cui a fatica nasce una stonata canzone trap, dove Kendrick Lamar inserisce la più riuscita collaborazione dell’album.
A freddo, Birds In the Trap Sing McKnight è un album che completa Rodeo, riconducendo il discorso a lidi più tipicamente hip-hop. Non ha la dirompente ambizione del suo predecessore, ma rimane un lavoro che merita di essere conosciuto da tutti gli appassionati del genere. Alla produzione, oltre al solito Mike Dean e in mezzo a molti altri, desta curiosità il nome di James Blake. Nonostante le difficoltà nella pubblicazione e i pochi mesi di lavoro, commercialmente è un nuovo successo: il disco di platino negli Stati Uniti certifica il milione di copie vendute e l'album arriva fino al numero uno della Billboard 200.

Dopo aver fondato una propria casa discografica, la Cactus Jack Records, Scott annuncia un album collaborativo con Quavo dei Migos, oltre a un terzo lavoro solista. Non contento, nel 2017 collabora con Drake per “Portland”, arrivata al numero 9 della Billboard Hot 100. Accompagna Kendrick Lamar nel tour di “DAMN.”.
Intitolato Huncho Jack, Jack Huncho (2017), l’album del duo Scott-Quavo, rinominatisi Huncho Jack per l’occasione, è un tour de force dei produttori (Buddah Bless, C4, Cardo, Cubeatz, Frank Dukes, Mike Dean, Murda Beatz, OZ, Pas Beatz, Southside, Supah Mario, TM88, Vinylz, Wheezy, Yipsy) che conta anche la collaborazione degli altri due Migos, Takeoff e Offset. È lo stato dell’arte della trap intesa come linguaggio ormai mondiale, ma proprio per questo suona poco personale: per far emergere le proprie peculiarità i due artisti titolari finiscono a tratti per parodiare se stessi, nei loro tic e nei loro cliché. Scorre fluido, imbevuto di lean dalla testa ai piedi, e barcolla sui beat asettici di brani come “Dubai Shit”, “Saint Laurent Mask” (chiusa da un assolo di synth alquanto psichedelico) e “Best Man”. Suona come la risposta ad altri album collaborativi, la versione alternativa di “What A Time To Be Alive” (’15) di Drake e Future sull’onda lunga di “Watch The Throne” (’11) di Jay-Z e Kanye West.

Neanche a dirlo, la collaborazione funge anche da volano per la pubblicazione del terzo album solista, Astroworld (2018). Lo anticipa il singolo con Kanye West e Lil Uzi Vert, “Watch”, che poi viene escluso dalla scaletta finale. È un successo clamoroso, che ha pochi precedenti nel mondo hip-hop e trap. L’album esordisce al numero uno della Billboard 200, arrivando in vetta alle classifiche anche in Australia, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia. Nei mesi successivi, registra numeri eccezionali anche grazie al traino del secondo singolo, “Sicko Mode”. Quest’ultimo rimane la bellezza di 30 settimane nella top 10 della Billboard Hot 100, un record per una canzone hip-hop. L’album vende 537.000 copie equivalenti nella prima settimana, totalizzando l’esorbitante totale di 349 milioni di stream; totalizza oltre 3 milioni di copie vendute al febbraio 2020. Letteralmente tutte le 17 canzoni sono entrate nella Billboard Hot 100, a testimonianza di un interesse del pubblico statunitense per l’album nella sua interezza. Per trovare nomi che possano eguagliare o superare questi numeri, bisogna tirare in ballo Drake o Eminem. Per la prima volta, dopo anni di responsi tiepidi, anche la critica mainstream loda l’album, tanto che il voto dell’aggregatore Metacritic arriva a un discreto 85/100 e quello del similare AnyDecentMusic? a 8.1/10.
Questa volta l’allucinazione di Rodeo si incontra con il più coeso Birds per proporre un lasco concept a tema Six Flags AstroWorld, il parco divertimenti texano aperto nel 1968 e chiuso nel 2005. Disperato e malinconico sin dall’iniziale “Stargazing”, che sfuma in lamenti ectoplasmatici prima di cambiare pelle con un beat ossessivo, è un manifesto di psych-trap che non ha precedenti e sembra voler confermare il ruolo di Scott come innovatore della scena. La succitata “Sicko Mode”, un hip-hop che rimbalza in assenza di gravità, disorientato da voci mostruose e carillon inquietanti, è la quintessenza dei brani estesi su Rodeo.
Facile abbandonarsi a questa sonnolenta e drogata sfilata, che con “R.i.p. Screw” sembra poter ricollegarsi al quiet-storm e che nella successiva “Stop Trying To Be God” imbeve una riflessione da Kendrick Lamar in un gospel, ammiccando poi al pop-rock con “Skeletons” e all’r’n’b in “Wake Up”. Con la grammatica dell’allucinazione onirica, d’altronde, e la cornice del parco divertimenti, ogni variazione stilistica è agevolata, persino un cabaret inquietante come “5% Tint” o il twang un po’ western della ninna-nanna “Yosemite”.
Purtroppo, si avverte un calo nell’ultimo terzo della scaletta, ma il premio per i più pazienti è “Coffee Bean”, dove il trattamento psichedelico tocca a un beat molto più tradizionale, che sembra risalire a inizio millennio: è una chiusura nostalgica, perfetta per un album che vive nella dolcissima amarezza dei ricordi.
Solita sconfinata lista di collaboratori: Kid Cudi, Frank Ocean, Drake, The Weeknd, James Blake, Swae Lee, Gunna, Philip Bailey, Nav, 21 Savage, Quavo, Takeoff, Juice Wrld, Sheck Wes, Don Toliver. Idem per i produttori: al solito Mike Dean, si affiancano Allen Ritter, Hit-Boy, WondaGurl, Tay Keith, Tame Impala, Frank Dukes, Sonny Digital e Thundercat. Come direbbe Travis, “I’m the glue”.

Per spingere la sua stessa etichetta, Scott pubblica anche l’omonimo JackBoys (2019), a cui collaborano gli altri rapper sotto contratto: Sheck Wes, Don Toliver, Luxury Tax e il dj Chase B. In veste di ospiti troviamo Rosalía, Lil Baby, Quavo e Offset dei soliti Migos, Young Thug e Pop Smoke. Esordisce al numero uno della Billboard 200, ma sembra più una questione di hype che di merito: la breve scaletta di sette brani è incorniciata da due episodi che potrebbero provenire da un album di Scott, ma il resto è materiale più debole e dimenticabile. “Highest In The Room” è proposta in una versione spagnoleggiante, leggermente diversa dal singolo già pubblicato da Scott a ottobre 2019, mentre “Gatti”, un vero inedito, sembra la versione sotto steroidi del progetto Huncho Jack.
Sono appena 21 minuti di materiale, funzionali come vetrina promozionale, ma assolutamente non paragonabili allo spessore degli album da solista di Travis Scott.

Nel 2020 fanno notizia cinque concerti virtuali nel videogioco Fortnite Battle Royale, ai quali assistono più di 12 milioni di utenti. È lo stesso anno di "The Plan", il brano con cui contribuisce alla colonna sonora di Tenet.


2021 - 2023: l'incidente all'Astroworld Festival e Utopia


L'attesa per il quarto album inizia a farsi sentire, mentre l'"Astroworld Festival" da lui organizzato, dopo l'annullamento dell'edizione del 2020 a causa della pandemia, ritorna nel 2021 con un programma spalmato su più giorni. Tragicamente, quella che avrebbe dovuto essere un'edizione di grandioso divertimento passa alla storia della musica per il tragico incidente del 5 novembre, quando la folla fuori controllo si accalca fino a causare la morte di dieci persone e centinaia di feriti. Alla fine l'album arriva a fine luglio del 2023 e accompagnato da un film, “Circus Maximus”, pensato per i cinema statunitensi.

Per approcciare Utopia, se ne considerino le proporzioni colossali: 19 brani in quasi 74 minuti, con 19 ospiti al microfono e un numero di produttori persino maggiore. Tra i tanti da citare, anche Bon IverDrakeKanye WestJames Blake, Future, Pharrell Williams, Guy-Manuel de Homem-Christo dei Daft PunkBeyoncé e Metro Boomin’. Travis Scott è, al momento della pubblicazione, tra gli artisti più ascoltati e il fatto che “Utopia” arrivi a cinque anni dal “Astroworld”, che ha totalizzato 22 platini nel mondo, non fa che aumentare l’hype.
La critica internazionale rimane tiepida, perché l’album mima la grandeur di Kanye West al punto di poter apparire come un’imitazione o perché nella scaletta il contributo personale, cioè le sue rime al microfono, non sono all’altezza di questo o quell’altro rapper del passato. Sono critiche condivisibili, insieme a quelle sulla pochezza dei testi, senza che si perda di vista la ricchezza di suoni che l’album sfoggia in una scaletta sforbiciabile ma, comunque, digeribile.
L’inizio affidato a “Hyaena”, con un campionamento esteso dei Gentle Giant di “Proclamation” (1974) in apertura, è un hip-hop da stadio come pochi riescono a proporre, con tanto di coda psichedelico-cosmica (una versione più liquida dello Lil Yachty di “Let’s Start Here”). “Modern Jam” accontenta persino chi adora il sound ottantiano, qua ricontestualizzato con echi inquietanti e distorsioni minacciose, seguendo il modello di “I Am A God” di Kanye West ma anche ricordando alcune riletture creative sulla scorta di Pusha T. E ancora, “My Eyes” è una poesia per auto-tune che solo in chiusura monta su un beat più tipicamente trap. Ancora più curioso il ritmo tribale di “Sirens”, basato su un campionamento degli zambiani (!) Amanaz montato su un sample vocale dei New England, esponenti invece dell’adult-oriented-rock più progressive. “Circus Maximus” è maestosa e quadrata ma anche squarciata da urla e arricchita da grandiosi synth. “Parasail”, con Yung Lean e Dave Chappelle, è un emo-rap sciolto in una pozza di psichedelia.
Molte delle collaborazioni più altisonanti, quantomeno in termini commerciali, sono invece mezze o totali delusioni: “Meltdown” con Drake non vale la metà di “Sicko Mode”; “Fe!n” con Playboi Carti è una trap assordante che cerca un’identità nell’affastellare filtri vocali; la succitata “K-Pop” per accontentare un po’ tutti ne esce incolore, un frullato di suoni di moda. Meglio “Delresto (Echoes)” con Beyoncé, una fusione di suoni da giungla e clangori robotici.
Utopia contiene un numero notevole di paesaggi sonori diversi, messi insieme in un lavoro collettivo in cui Travis Scott non sembra sempre il protagonista, piuttosto un eccellente curatore, come già avveniva in Astroworld. Lo sforzo produttivo è davvero impressionante ma la scaletta è tanto lunga da far perdere coesione al tutto, indebolendosi nell’ultimo terzo e nei brani più estesi (perchè “Skitzo” e “Telekinesis” durano così tanto?). Nell’insieme, è l’album-evento hip-hop dell’anno, un’opera tentacolare che ammicca a chi cerca elementi (relativamente) sperimentali e crossover senza disdegnare qualche hit, ma come il “Tenet” di Nolan in cui Travis Scott ha collaborato, vale più per il dispiego di mezzi che per la profondità del messaggio, invero assai modesta.

Travis Scott

Discografia

TRAVIS SCOTT
Owl Pharaoh(mixtape, Grand Hustle, 2013)
Days Before Rodeo(mixtape, Grand Hustle, 2014)
Rodeo(Grand Hustle/Epic, 2015)
Birds In The Trap Sing McKnight (Grand Hustel/Epic, 2016)
Astroworld(Cactus Jack et al., 2018)
Utopia(Cactus Jack et al., 2023)
HUNCHO JACK
Huncho Jack, Jack Huncho(Cactus Jack et al., 2017)
JACKBOYS
Jackboys (Epic/Cactus Jack, 2019)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Upper Echelon (da Owl Pharaoh, 2013)

Don't Play
(videoclip da Days Before Rode, 2014)

Mamacita
(videoclip da Days Before Rode, 2014)

Antidote
(videoclip da Rodeo, 2015)

 

Pick Up The Phone
(videoclip da Birds In The Trap Sing McKnight, 2016)

 

90210 
(videoclip da Astroworld, 2016)

 

Beibs In The Trap
(videoclip da Birds In The Trap Sing McKnight, 2016)

 

Goosebumps 
(videoclip da Birds In The Trap Sing McKnight, 2016)

 

Birds In The Trap 
(videoclip da Birds In The Trap Sing McKnight, 2017)

 

Butterfly Effect 
(videoclip da Astroworld, 2017)

 

Highest In The Room
(videoclip, 2019)

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Sito ufficiale
Testi commentati