Non tutti suonano in ciascun pezzo. Il punto non è offrire a ciascun membro un momento solistico, come su 'Fragile' degli Yes; piuttosto, è il contrario: una resa dell’ego alle proprietà richieste dalla musica, una concezione musicale d’insieme che è sempre resa operativa dagli strumenti necessari a farla emergere.
(Jim Green, Trouser Press, 1976)
Li si potrebbe chiamare la geek-band definitiva. Aspetto fisico e trovate a effetto non hanno parte nella loro immagine; non condiscono canzoni e interviste di proclami per richiamare l’attenzione; veicolare sex appeal attraverso la musica è l’ultimo dei loro interessi. In compenso, suonano divinamente: più compatto e più intricato di chiunque altro. Una combriccola di nerd ante litteram. “Eravamo interessati alla letteratura, a tutto ciò che mostrasse in azione processi di pensiero e abilità. Era parte della nostra cultura, parte di chi eravamo”, spiegherà il frontman Derek Shulman al giornalista Mike Barnes. Per decenni best kept secret del progressive rock britannico, hanno conosciuto maggior successo in Nordamerica e nell’Europa continentale che in madrepatria, e oggi sono ricordati come una delle formazioni più integre e originali della storia del genere musicale.
Mentre la stampa musicale inglese li bolla come “musica per secchioni”, i caleidoscopici pezzi dei Gentle Giant sono proposti con entusiasmo alla radio italiana nella trasmissione “Per voi giovani”, il cui conduttore Carlo Massarini ha come sigla introduttiva le note della loro “Prologue”.
Proprio al di qua delle Alpi, la band trova una prima calorosa fanbase capace di motivare gli sforzi dei tre fratelli Derek, Phil e Ray Shulman e degli altri membri della formazione. Ma il rapporto col nostro paese non sarà sempre semplice e conoscerà dei momenti di vuoto proprio negli anni in cui inizieranno ad arrivare consensi dal mercato più ambito di tutti, quello statunitense. Fenomenali nei live, i Gentle Giant percorrono in lungo e in largo gli States e il Canada orientale, ingenerando uno scambio che li vede assorbire elementi delle locali correnti Album Oriented Rock e power-pop, e diventare un riferimento tanto per artisti di successo (Kansas, Rush) quanto per una moltitudine di formazioni underground del frammentato scenario progressive a stelle e strisce.
Il loro stile eclettico, capace di unire hard rock e madrigale, folk e scatti elettronici, è stato battezzato a seconda delle epoche baroque’n’roll, rock rinascimentale, proto-math, e perfino indicato come paradigmatico di una corrente di pop sbilenco trasversale a generi ed epoche. Soprattutto, però, la loro passione per gli incastri e le stratificazioni ambiziose colpisce per la coesione mostrata dalle sue parti, disarticolate in mille controtempi e contrappunti ma sempre al servizio di un disegno d’insieme. Un tutto che emerge dal virtuosismo di ciascun membro come un dipinto prende forma dai suoi molti colori. Nelle parole di “Giant”, primo pezzo del loro primo album:
The rise of a high expectation;
Emerging successful, defiant;
Together the parts make a Giant
Nel racconto che segue, la carriera della band è stata ripartita in tre fasi, corrispondenti ad altrettante sezioni. La prima inizia con gli esordi, passa dal rappresentativo Acquiring The Taste (1971) e giunge alla costituzione della formazione definitiva, chiudendosi con la pietra miliare Octopus (1972). La seconda vede un approfondimento della formula stilistica, con un sound molto riconoscibile di cui i Giant esplorano le molteplici possibilità. È l’epoca della maturità formale, caratterizzata da tre uscite egualmente compiute: In A Glass House (1973), The Power And The Glory (1974) e Free Hand (1975), quest’ultimo l’album di maggior risonanza commerciale. Nella terza fase, la band sperimenta nuove soluzioni, ricercando un alleggerimento del proprio suono e un possibile consolidamento delle vendite - intento la cui inefficacia condurrà nel 1980 allo scioglimento del gruppo.
Oltre a questi tre periodi, il testo contempla anche due extra: un prologo e una conclusione. Il primo ricostruisce le vicende che hanno portato i fratelli Shulman nel music business, attraverso l’esperienza pop dei Simon Dupree And The Big Sound. La seconda contestualizza la musica dei Gentle Giant in base alle influenze che eserciterà nei decenni successivi (e che perdurano fino ai giorni nostri!) e alle molteplici iniziative, commerciali e non, legate al crescente numero di fan della band.
Tutti i titoli delle sezioni sono tratti da brani del gruppo.
Prologue
Mio padre era un musicista professionista, quindi a casa c’erano sempre strumenti musicali sparsi qui e là — una tromba, una cornamusa o qualcosa d’altro. Non è che noi volessimo diventare multistrumentisti. È che gli strumenti erano lì e ci dicevamo: “Dai, proviamo un po’ questo…”.
(Derek Shulman su Mike Barnes, “A New Day Yesterday - Uk Progressive Rock & The 1970s”, 2020)
Philip, Derek e Raymond Shulman crescono con la musica attorno. La loro è una famiglia ebraica sui generis, che all’educazione religiosa sembra preferire quella musicale. I primi anni di Phil e Derek sono trascorsi a Glasgow, nel famigerato quartiere popolare dei Gorbals dove i due nascono a distanza di dieci anni l’uno dall’altro (1937 e 1947 rispettivamente). Dopo la fine della guerra, si spostano nel Sud dell’Inghilterra, nella città portuale di Portsmouth, dove nel 1949 alla famiglia si aggiunge Ray. Iniziano presto a seguire le orme del padre, trombettista jazz: la casa è frequentata dai colleghi musicisti, che vi si riuniscono per intrattenere jam session dopo la fine dei concerti e stimolano le curiosità musicali dei tre fratelli.
Già nei primi anni Sessanta Derek e Ray si vedono come una band - gli Howling Wolves, poi i Roadrunners - e per il fratello maggiore Phil ritagliano il ruolo di manager. Col passare del tempo, il gruppo prende forma, e oltre a compagni di scuola finisce per integrare anche Phil stesso. Il nome cambia in “Simon Dupree And The Big Sound”: “Simon Dupree” sarebbe lo stage name di Derek, che abbandona il ruolo di chitarrista per dedicarsi alla voce e al basso. Il complesso suona un r&b influenzato dagli ascolti di Radio Luxembourg e delle stazioni offshore delle forze armate americane. Grazie al marito della sorella Evelyn, produttore alla Bbc, nel 1966 arriva il contratto con Emi. Seguono alcuni anni di passaggi in Tv e cambiamenti di genere, tour a tappeto nell’Inghilterra del Sud e timidi successi in classifica (accanto a molti flop). Un periodo stressante ma formativo, le cui frustrazioni saranno la miccia che darà il via all’avventura successiva.
La produzione eterogenea della band è oggi raccolta nel doppio Part Of My Past, uscito nel 2004. Si tratta di un corpus ricco, che oltre al primo album del 1967 Without Reservations e a tutti i singoli precedenti e successivi racchiude anche i materiali per il secondo album, mai pubblicato. La varietà stilistica è ampia, e spazia dal soul bianco con cui la formazione sperava di essere associata (ma la Parlophone preferiva promuoverli come complesso pop) a brillanti numeri baroque e sunshine pop, con chiare influenze beatlesiane nelle armonie. “Kites”, l’unico effettivo successo del gruppo, è un episodio psych-pop dalla strumentazione allargata (vibrafono, gong, Mellotron, macchina del vento) e dal mood esotico; firmato dai due songwriter statunitensi Hal Hackady e Lee Pockriss, raggiunge l’ottavo posto della classifica britannica dando al fantomatico Simon Dupree una certa visibilità. Fra gli altri brani, svettano l’arioso western “From Whom The Bell Tolls” (scritto dal duo Paul Smith/Evelyn King, sorella dei tre Shulman), il divertissement piratesco “Broken Hearted Pirates” e alcuni dei pezzi firmati dagli Shulman: “You” col suo piglio raggiante, la leggiadra “Rain” e la scanzonata “Laughing Boy From Nowhere”. In quest’ultima, alle tastiere figura un allora sconosciuto Reginald Dwight, poi giunto alla fama col nome d’arte Elton John: il tastierista Eric Hine ha problemi di salute nel 1967 e per rimpiazzarlo viene assoldato il giovane musicista. Il suo ruolo è principalmente quello di comprimario, ma l’ultimo B-side pubblicato dalla band prima del suo scioglimento (“I’m Going Home”) porterà la sua firma.
Due brani, dal taglio più oscuro e con voci effettate, vengono incisi nel 1968 a nome “The Moles”, senza che i dischi o il materiale promozionale riportino alcun riferimento ai Simon Dupree o ai fratelli Shulman. Si tratta di una mystery band parallela, una burla condotta in accordo con Parlophone dai tre fratelli. Fra le diverse leggende circolanti sulle due tracce (“sono state registrate ad Abbey Road con gli stessi strumenti dei Beatles”, “sono opera dei Fab Four, ma con Ringo alla voce”), ve ne è una secondo cui la vera identità dietro al nome sarebbe stata svelata da Syd Barrett. Questa però ha una smentita documentabile: lo smascheratore è Adrian Gurvitz, chitarrista della band Guns, in un’intervista all’Nme di fine 1968. La sovrapposizione con l’ex frontman dei Pink Floyd, ricostruisce il biografo Rob Chapman in “Syd Barrett: A Very Irregular Head”, nasce dal ricordo distorto di Chapman stesso, che in un articolo per Mojo nel 1996 confonderà due episodi riportati nell’intervista: quello sui Moles e il riferimento di Gurvitz a una recente performance dei Pink Floyd in cui Barrett sarebbe stato presente nel backstage nonostante l’addio alla band. Il legame tra Shulman e Pink Floyd risulta comunque così convincente che il bassista presente alle incisioni dei Moles, Peter O’Flaherty, finisce per crederci a sua volta!
Nel 1969, il manager scrittura Simon Dupree & The Big Sound per uno spettacolo itinerante di “cabaret pop”: il riscontro economico è buono, ma la tabella di marcia è massacrante; soprattutto, però, il tipo di show non interessa in alcun modo ai componenti della band. A fine anno, i fratelli Shulman sciolgono la formazione con l’intenzione di imbarcarsi verso una nuova, più ambiziosa direzione: un progetto orgogliosamente indipendente dai condizionamenti discografici, per il quale decidono di prendersi tutto il tempo necessario e individuare i collaboratori più indicati.
Ai tre Schulman si era unito, già con Simon Dupree and The Big Sound, il batterista Martin Smith: musicista versatile e ugualmente a suo agio con rock, jazz e blues, sarà essenziale per il cambio di passo. L’incontro più significativo è però, a inizio 1970, quello col tastierista e autore Kerry Minnear: diplomato alla Royal Academy Of Music di Londra con un major in composizione, è uno dei pochissimi artisti del primo prog a presentare un curriculum classico di alto profilo (gli altri grandi dell’epoca, da Keith Emerson a Rick Wakeman, passando per Tony Banks, avevano alle spalle studi assai meno formali). Il suo apporto sarà fondamentale per la costruzione di partiture complesse, autenticamente polifoniche e ricche di sorprese sul piano armonico e contrappuntistico: uno dei marchi di fabbrica della futura band.
Il chitarrista di estrazione blues Gary Green arriva a completare l’organico dopo un annuncio sul Melody Maker e una lunga serie di audizioni. Racconta il musicista, inizialmente perplesso alla vista del nome “Simon Dupree And The Big Sound” sulla cassa della batteria: “Ray mi sottopose a una serie di test musicali: […] mi fece vedere cose con ritmi complicati, infine mi chiese 'puoi suonare un accordo di Do6/9? La7sus4?'”. Sebbene il pop della precedente formazione fosse più complesso di quanto l’apparenza avrebbe potuto suggerire, gli autori dell’inserzione hanno intenzione di distanziarsene con risolutezza.
The Advent Of Panurge (1970-1972)
Il nostro obiettivo è espandere le frontiere della musica pop contemporanea, al rischio di essere molto impopolari. Abbiamo registrato ciascuna composizione con un pensiero - che debba essere unica, avventurosa e affascinante. Raggiungere questo ha richiesto tutta la nostra conoscenza musicale e tecnica. Fin dal principio abbiamo abbandonato ogni pensiero preconcetto di sfacciato commercialismo. Speriamo invece di riuscire a darvi qualcosa di molto più sostanzioso e gratificante. Tutto ciò di cui avete bisogno è mettervi comodi e farci l’orecchio (“sit back and acquire the taste”).
(Note di copertina, "Acquiring The Taste", 1971)
La neonata band sceglie “Gentle Giant” come nome. L’intuizione è del nuovo manager (nonché amico d’infanzia degli Shulman) Gerry Bron: rende l’idea di una forza compatta, nel suo elemento tanto con la potenza quanto con la delicatezza. E il primo album, Gentle Giant appunto, conferma l’appropriatezza della scelta. Prodotto da Tony Visconti e uscito per Vertigo, propone pezzi dal carattere dinamico che affiancano stili contrastanti: il blues-rock virato hard (“Why Not?”), il jazz-rock fiatistico (nell’iniziale “Giant” soprattutto), atmosfere acustiche e svolazzi classici (ancora “Why Not?”, ma senz’altro anche “Funny Ways” e “Nothing At All”).
La maggior parte dei brani è piuttosto compatta a livello di durata, una caratteristica che si manterrà nel corso della discografia; due dei pezzi più estesi però, “Alucard” e “Nothing At All”, sono i più sorprendenti del disco. Il primo presenta in primissimo piano il gorgoglio di un Minimoog, impostato su una patch penetrante e sgraziata che colloca il suono da qualche parte fra un sax e una chitarra distorta. Il brano è teso e articolato, con sezioni incentrate sui rimbalzi chitarra-Moog-organo-fiati e passaggi stagnanti, dominati da un pulsante cantato multi-strato, ottenuto sfruttando creativamente le tecniche di registrazione. Chiaramente crimsoniana nell’ispirazione, la traccia contiene alcuni passaggi di proto-math tra i più intriganti del primo progressive, con gli strumenti che si scambiano ripetutamente le parti melodiche appena prima del finale. Dopo il divertissement gypsy-beatlesiano “Isn’t It Quiet And Cold” arrivano i nove minuti di “Nothing At All”, che infila un’ammaliante apertura folk costruita su arpeggi discendenti, una virata hard/blues che conduce in centro al brano, e poi un lungo e fantasioso assolo di batteria, col suono dello strumento effettato da un flanger che ne modifica il timbro dando ai rintocchi un inedito carattere melodico. Sulle evoluzioni della batteria, si infila poi il pianoforte di Kerry Minnear, prima con fraseggi romantici riecheggianti Chopin e poi con una svolta novecentesca di stampo decisamente atonale. La chiusura torna al tema iniziale, ricomponendo l’aura fiabesca e malinconica e affermando lo spunto lirico del pezzo, semplice ma ben giocato: “Now she sits by the riverside/ Watching the waters glide by/ With a sigh/ […] / Ah this, little girl who had everything finds/ She's nothing at all”.
Variegato e a suo modo centrifugo nell’ampliare radicalmente il ventaglio stilistico rispetto all’epoca Simon Dupree, l’album d’esordio è una sorta di “prova sul campo” delle possibilità della nuova band, che ancora non ha uno stile nitido ma senz’altro sonda molte delle strade che percorrerà in futuro. È anche l’occasione per familiarizzare con la versatilità strumentale dei fratelli Shulman e dei nuovi musicisti coinvolti: sul disco figurano chitarre (elettrica, acustica, 12 corde), tastiere (Minimoog, Hammond, Mellotron, piano acustico ed elettrico, honky-tonk), percussioni melodiche (xilofono, timpani e vibrafono, suonati da Minnear), archi (il violino di Ray Shulman, il violoncello di Kerry Minnear e dell’ospite Claire Deniz), fiati (tromba, sax e flauti suonati da Phil Shulman, più il corno tenore del sessionman Paul Cosh), batteria e triangolo, e il basso elettrico gestito a seconda dei casi da Kerry Minnear, Derek oppure Ray Shulman.
L’album è inquadrato dai fan come un lavoro non ancora del tutto progressive, che tuttavia funge da brillante introduzione a quello che sarà. Ma non sono solo gli appassionati storici a conservarne la memoria: per “Madvillainy”, pietra miliare del duo statunitense Madvillain, il produttore Madlib campiona estesamente “Funny Ways”, immortalandone le atmosfere anche presso gli amanti dell’hip-hop sperimentale.
Già prima dell’esordio, i Gentle Giant avevano fatto qualche data britannica (e una ad Amburgo) ed erano stati promossi dalla trasmissione “Sound Of The Seventies” della Bbc; nei mesi successivi all’uscita, gli appuntamenti live si intensificano e la band inizia già le session per il nuovo ellepì. Acquiring The Taste arriva nei negozi a luglio 1971, dopo una fitta serie di concerti in Gran Bretagna e in Germania (con l’aggiunta di una data a Parigi e - forse - una a Novara). La dichiarazione programmatica riportata a inizio sezione, tratta dalle note copertina, è rappresentativa di una nuova chiarezza d’intenti: lo scopo è costruire composizioni sorprendenti, che non si svelino al primo ascolto e rappresentino per gli ascoltatori una sorta di “avventura” musicale, un viaggio che richiede tempo e dedizione ma lascia chi lo vive diverso da com’era prima.
Fin dall’inciso in 11/4 dell’iniziale “Pantagruel’s Nativity”, è chiaro che la personalità della band è ora più a fuoco ed è percepibile la volontà è di alzare notevolmente la posta rispetto all’album precedente. Il pezzo combina musica antica, jazz fiatistico, hard rock convoluto, spunti sintetici in un continuo flusso di atmosfere che dà prova di quanto la band abbia imparato ad amalgamare elementi distinti. Qui, come in altri brani, il contrappunto è impeccabile, con rimpalli fra strumenti e linee vocali che riprendono spunti gregoriani e la tecnica medioevale dell’hoquetus (“singhiozzo”) o cantus abscissus: più linee melodiche parallele si inseriscono le une nelle pause delle altre, combinandosi in un unico sviluppo che acquista anche un forte carattere ritmico (spesso dall’andatura, appunto, “singhiozzante”). Continui incastri e ricombinazioni sono la chiave fondamentale anche di “The House, The Street, The Room”, che si apre su una linea di basso poderosa, ma dall’andatura imprendibile: il tempo è 4/4, ma la frase è segmentata in una miriade di anticipazioni, rallentamenti e accelerazioni, che le danno un feeling al tempo stesso granitico e saettante. Doppiata inizialmente dal piano, più avanti nel pezzo è rivisitata (questa volta in 6/4) da un distortissimo organo Hammond, su cui sfrecciano le schitarrate psych-blues di Gary Green. Coi suoi sei minuti e i frequenti stacchi tensione/distensione, il pezzo è una colonna portante dell’album e, sebbene riproposta live solo molto di rado, diventerà amatissima dai fan.
Altre due tracce, “Wreck” e “Plain Truth”, percorrono una vena hard/folk in cui un riff tortuoso è il cardine compositivo su cui innestare evoluzioni del violino e degli altri strumenti. La struttura dei temi ha dei punti di contatto con le future intuizioni di Led Zeppelin, Kansas o Ac/Dc: armonicamente anche molto semplici, i motivi sono resi dinamici da un brillante gioco di spostamento degli accenti, che li suddividono in più parti dal carattere diverso, affiancando “botta” e “risposta” in una stessa frase musicale. “Plain Truth” è un pezzo con elementi di live jam che risale agli inizi della band ed è stato proposto dal vivo fin da prima dell’album d’esordio: la band ha atteso di affinare l’intricato interplay su 9/4 per inciderla sul disco, e la focosità della registrazione mostra quanto la scelta sia stata azzeccata. Considerata un crowd pleaser per il pubblico dei concerti, sarà l’unico brano di Acquiring The Taste a restare nelle scalette degli anni a venire e vedrà nel tempo l’assolo di Ray Shulman al violino elettrico espandersi notevolmente sia come durata che come suono, grazie all’aggiunta di effetti d’eco quadrifonici.
I pezzi restanti hanno toni meno vorticosi, ma mostrano anche più chiaramente quanto la band sia interessata a costruzioni raffinate e spigolose. “Black Cat” è in 7/8 e, tra miagolii e stridii, combina qualcosa dei King Crimson del periodo con un estro decisamente cameristico, abbondando anche - ma sempre con grande levigatezza - in contrasti armonici e dissonanze. “Edge Of Twilight” riprende addirittura una melodia da “Heimfahrt”, nel “Pierrot Lunaire” di Schönberg. La title track è invece uno strumentale scherzoso, lungo poco più di un minuto e mezzo e composto da Kerry Minnear, che con una certa frivolezza accosta timbri sintetici e contrappunti arditi ma delicati.
Il disco è ancora prodotto da Tony Visconti e vede la band cimentarsi con un numero ancora maggiore di strumenti: oltre a quelli già sentiti nell’esordio, fanno qui la loro comparsa il mandolino (Gary Green in “The House, The Street, The Room”), clavicembalo, clavicordo e celeste (Kerry Minnear e Derek Shulman), viola e pedali d’organo (Ray Shulman), clarinetto (Phil Shulman), più uno stuolo di percussioni fra cui perfino teschi e mascelle d’asino (per “Black Cat”).
Il riscontro in madrepatria è limitato, ma l’attenzione nell’Europa continentale è sempre più intensa: a fine 1971 il gruppo torna in Germania e fa tappa in Austria; a gennaio 1972 è ripetutamente in Danimarca, Norvegia, Svizzera e di nuovo Germania; a febbraio tiene almeno cinque concerti nel Nord Italia in apertura ai Jethro Tull, riscontrando un grande supporto da parte del pubblico. Delle date con la band, Ian Anderson ricorda: “Si continuavano ad accapigliare, nel backstage! Non è che fossero propriamente zuffe tra fratelli: era sempre per questioni musicali. Si arrabbiavano perché qualcuno aveva mancato un attacco o un cambio di tempo o cose del genere. Mettevano davvero un sacco di passione nella loro musica”.
Per i canoni attuali, le composizioni di Acquiring The Taste non rientrano integralmente nei parametri del progressive rock: hanno ampie sezioni di hard fatto e finito, frequenti incursioni in campo blues e jam-rock, e spesso non presentano quell’elemento fantastico e magniloquente che oggi è visto da tanti come essenza del genere. Ma è soprattutto grazie a musica così che, all’epoca, l’etichetta “progressive” si fa avanti, intesa in un senso squisitamente etimologico, per indicare uno stile imprevedibile, fuori dagli schemi, capace di combinare con coraggio sonorità contrapposte e di addentrarsi in territori inesplorati, senza curarsi troppo dei riscontri critici e commerciali. D’altra parte, nei primi anni Settanta sono visti come “progressive” i Cream e Bob Dylan, i Led Zeppelin e John Mayall: le barriere sono poco definite, e muoversi liberamente in un campo ampio è per molti musicisti e fan davvero entusiasmante.
L’album successivo, Three Friends, esce nella prima metà del 1972 (probabilmente ad aprile in Italia e forse in Inghilterra, negli States a luglio). È un concept ideato da Phil Shulman, e il primo lavoro completamente autoprodotto dalla band - col supporto del tecnico Martin Rushent, che avrebbe qualche anno dopo prodotto “Dare” degli Human League. La narrazione segue le vicende di tre amici d’infanzia, unite nei primi anni d’età (“Schooldays”) ma poi divise dai differenti destini professionali: operaio (“Working All Day”), artista (“Peel The Paint”) e dirigente (“Mister Class And Quality?”). Racconterà Phil Shulman molti anni dopo: [negli anni della scuola] “si viene selezionati e ripartiti per tutta la vita, e non c’è via di uscirne. È esattamente questo che è successo, a me e ai miei amici”.
Musicalmente parlando, Three Friends è un album più coeso dei predecessori, e non solo per via del disegno comune. Le parti di tastiera hanno un ruolo più prominente e più integrato con gli altri strumenti, e i molti stili coesistenti nelle composizioni non paiono più giustapposti, bensì fusi fra loro - o per meglio dire “incastrati”, in quel modo bizantino e inatteso che sarà col tempo identificato come marchio fondamentale della band. La nuova sintesi è evidente fin dal lungo prologo strumentale, che intreccia fiati, sintetizzatore e chitarre in un tema zigzagante che si alterna e si sovrappone, ridotto all’osso, alle voci di Phil, Derek, Roy e Kerry. Più amena, “Schooldays” scommette su stratificazioni vocali e stop’n’go jazzati per rendere il clima giocoso e raggiante dell’infanzia. Sui versi “We made friends/ We broke friends/ No more friends” l’andamento cambia, e si fa inizialmente nostalgico e pensoso, e poi decisamente tetro, quasi spettrale. Si tratta di una sorta di flashforward, concluso dal ritorno al piglio scherzoso della prima sezione, con la presa di coscienza però che quei giorni che paiono eterni in realtà non lo sono: “How long is ever?/ Isn't it strange?/ Schooldays together, why do they change?”.
Le tracce dedicate alle vite professionali dei tre amici sono le più distanti sul piano stilistico: “Working All Day” è un jazz-rock piuttosto quadrato con organo e fiati ben in evidenza; “Peel The Paint” ripercorre i fasti hard/folk del disco precedente, concedendo ampio spazio anche agli excursus crimsoniani e ad assolazzi figli del blues; “Mister Class And Quality?” (che sfuma nella conclusiva “Three Friends”) è invece un numero baldanzoso, che però sviluppa più di tutti quel sound intricato che, a questo punto, sembra essere il più congeniale a questa formazione di fuoriclasse. Contrappunti, scatti, intarsi metrici sembrano suggerire per la band un ruolo da orologiai del rock, padroni assoluti degli ingranaggi ritmici e melodici ma pronti a sfidare costantemente la propria stessa perizia per realizzare invenzioni via via più fantasiose e barocche.
Sebbene il disco rappresenti, a livello stilistico, un ulteriore salto di qualità, sul piano dell’impatto i suoi pezzi risultano un po’ opachi: il più appariscente è “Peel The Paint” (una costante dei live dell’epoca), che però è anche quello che più ricorda il passato dal punto di vista compositivo. La band, in effetti, è in una fase di riassestamento: oltre alla scelta di curare da sé la propria produzione, anche altri cambiamenti si concentrano nel periodo immediatamente precedente alle registrazioni. A metà 1971 il manager Gerry Bron abbandona la band per via di divergenze, aiutandola tuttavia a prendere accordi con Worldwide Artistes Management (nota al tempo soprattutto per il rapporto con i Black Sabbath); negli stessi mesi, Martin Smith sceglie di dedicarsi alla carriera di antiquario e viene sostituito dal batterista diciottenne Malcolm Mortimore, il cui drumming è del tutto funzionale ma raramente sorprendente. A seguito di un incidente, Mortimore è costretto a lasciare il gruppo già nella primavera del 1972. Al suo posto, arriva un batterista dal tocco decisamente rock: il gallese John Patrick Weathers (detto “Pugwash”), già con Pete Brown e Grease Band. Rimarrà con gli altri componenti per tutta la vita restante dei Gentle Giant.
Dopo una nuova tornata di date britanniche e un’ulteriore (e ricca) puntata in Germania, nell’agosto 1972 i Gentle Giant si imbarcano per gli Stati Uniti, a supporto dei compagni di scuderia Black Sabbath. In diverse occasioni, la band è ben ricevuta dal pubblico dei Sabbath; in altre, tuttavia, l’accoglienza è pessima: schiamazzi assordanti, lanci di bottiglie, petardi gettati sul palco… Fortunatamente, da metà settembre il gruppo gira gli States prima accanto agli Yes e poi coi Jethro Tull, entrambi dotati di un’audience assai più disciplinata (nonché incuriosita dalla musica del sestetto). In qualche circostanza, come nella breve costola canadese del tour, i Giant hanno la possibilità di figurare come headliner e ottengono buoni riscontri. Quando, a novembre, tornano infine nel Regno Unito, le fondamenta sono gettate per un solido legame col pubblico americano, destinato a crescere negli anni a venire.
Presentato da una copertina firmata Roger Dean, il quarto album, Octopus, arriva nei negozi a dicembre 1972, ma è stato registrato fra luglio e agosto, prima della partenza per gli States (in Italia, in effetti, è già uscito a ottobre). Per gli appassionati di oggi come di ieri, si tratta del più palese capolavoro della band, quello in cui le virtù affinate fino ad allora risaltano al loro massimo grado. È anche il disco più compatto uscito fino a quel momento: appena trentaquattro minuti, sebbene la tracklist contenga ben otto pezzi. Il titolo è un gioco di parole su “Octo Opus”, suggerito dalla moglie di Phil Shulman, Roberta, per quello che doveva essere un concept con un pezzo dedicato a ognuno dei sei Giant, più uno per i roadies e uno sul gruppo nel suo complesso. Di questo schema iniziale sopravvivranno in realtà solo due tracce, “Dog’s Life” e “The Boys In The Band” (roadies e gruppo, rispettivamente).
Spesso è stato osservato come le tracce dell’album presentino un suono più “pesante” e più “rock” rispetto ai predecessori; questa descrizione rischia però di fornire un’immagine inadeguata del disco. È senz’altro vero che il sound è più dinamico e tagliente che mai, ma l’effetto è ottenuto non ricalcando ma distanziandosi dal rock, e in particolare dal blues e dall’hard. I Giant non hanno mai composto canzoni basate su giri d’accordi ripetuti a oltranza, ma nei primi tre album abbondavano i pezzi riff-based, in cui una linea di chitarra o basso faceva da colonna portante a buona parte dell’architettura. In Octopus, invece, i riff scompaiono, sostituiti da frasi ritmico/melodiche molteplici e segmentate, che passano da uno strumento all’altro e si incrociano in maniere sempre nuove nel corso di uno stesso brano. Certo, il drumming del nuovo arrivato John Weathers sa essere decisamente diretto, ma i brani sono un campionario di stratagemmi anti-rock’n’roll: accelerazioni e capovolgimenti di fronte in “A Cry For Everyone” (con le stesse frasi musicali che sovraimpongono sfasate), found sound e cambi di passo nella strumentale “The Boys In The Band”, un suono cameristico e ticchettante in “Dog’s Life”, puntuta come non mai, grazie ai tocchi di xilofono e chitarra acustica - e all’utilizzo da parte di Kerry Minnear di uno strumento inconsueto, il regale, sorta di organetto rinascimentale che può essere considerato per costruzione e timbro un precursore dell’harmonium e della fisarmonica.
I riferimenti alle epoche precedenti al barocco, da sempre presenti nella musica della band, sono in effetti molto amplificati in Octopus, e senz’altro fra gli aspetti che più colpiscono l’ascoltatore. L’iniziale “The Advent Of Panurge”, terzo pezzo a esplicito tema “giganti” dopo “Giant” nel primo disco e “Pantagruel’s Nativity” su “Acquiring The Taste”, cita fin dal titolo lo scrittore francese François Rabelais, maestro cinquecentesco di un filone che sarà definito anti-rinascimentale per il suo frequente ricorso al grottesco e il rifiuto dei toni aulici. “Raconteur, Troubadour” rimanda, sia nel testo che nelle atmosfere cortesi, ai musici itineranti del tardo medioevo. Soprattutto, però, sono le tessiture madrigalesche di “Knots” a catapultare indietro nel tempo, con un gioco di incastri vocali che le note di copertina descrivono così: “R.D. Laing, eminente psicologo, ci ha stimolati con i suoi indovinelli intriganti, logici e poetici, spingendoci a comporre questo madrigale di oggigiorno — nonché una sorta di puzzle musicale”.
I due pezzi conclusivi del disco, “Think Of Me With Kindness” e “River”, sono i più anomali: il primo è una delicata pop song incentrata sul pianoforte, che pur mantenendo gli elementi dello stile Giant si addentra nei territori più radiofonici sentiti fino ad allora; il secondo torna invece su un sound spigoloso, ma si concede proprio in chiusura l’unica seria digressione blues dell’album, un torrenziale assolo elettrico di Gary Green.
Nonostante alcune recensioni positive, come i precedenti l’album non registra buone vendite nel Regno Unito, e in Italia - dove i vari Ciao 2001 e Gong celebrano la band fin dagli esordi - non bissa il buon risultato in classifica di Three Friends (venticinquesimo posto). Pubblicato solo a febbraio 1973 negli Stati Uniti, l’Lp raggiunge la centosettantesima posizione della classifica americana - un risultato non eclatante, ma comunque superiore al 197 del precedente. A inizio marzo la ciurma riparte in effetti per gli States, ma porta con sé un significativo problema da risolvere: nei primi giorni di gennaio, nel corso di un minitour italiano insieme agli Area, Phil Shulman ha annunciato agli altri membri il suo addio alla band.
Playing The Game (1973-1975)
Una macchina fatta dall’arte dell’uomo non è una macchina in ciascuna delle sue parti, ad esempio il dente di una ruota di ottone ha delle parti o frammenti, che non sono a noi altrimenti qualche cosa di artificiale, e non hanno più nulla che tenga della macchina rispetto all’uso, cui la ruota era destinata. Ma le macchine della natura, vale a dire i corpi viventi, sono macchine anche nelle loro minime parti fino all’infinito. Ciò costituisce la differenza tra la natura e l’arte, cioè fra l’arte divina e la nostra.
(Gottfried Leibniz, Monadologia, 1720)
Tra le ragioni dell’abbandono, Phil Shulman indica alcune divergenze artistiche coi fratelli, ma soprattutto la sensazione che la vita del touring musician sia inadatta a sé e alla sua famiglia. I restanti Giant scelgono di proseguire come quintetto: dopotutto, anche Derek sa suonare il sax e Ray può occuparsi della tromba. Nell’arco di tre mesi, attraversano gli Stati Uniti e il Canada figurando a volte come headliner (con gli Steeleye Span a supporto), e più spesso come “spalla” di altri artisti britannici: King Crimson, Procol Harum, Strawbs, Humble Pie. Nel luglio 1973, dopo alcune date tedesche, la band è di nuovo in studio per registrare un album, che esce a settembre col titolo In A Glass House.
Il nuovo disco è marcato, oltre che dalla mancanza dei fiati e della voce di Phil, anche dal cambio di etichetta: anziché per Vertigo, il disco esce direttamente per WWA Records, la label associata alla casa di management. Oltreoceano, la compagnia discografica Columbia, che si era occupata delle stampe americane dei precedenti album, teme che il nuovo corso della formazione abbia troppo poco appeal commerciale e scarica la band. Per questa ragione, In A Glass House non sarà pubblicato negli Stati Uniti - circostanza a dir poco bizzarra, visto il crescente supporto guadagnato con vendite e concerti (la reissue del 1992 di Terrapin Trucking Records riferirà che le vendite per importazione furono consistenti, e riporterà la cifra di 150mila copie).
Visto da alcuni come l’inizio di una fase calante, l’album è per altri fan il punto di svolta verso un nuovo ed entusiasmante corso, in cui il sound si fa più asciutto e l’elemento “macchinato” assume il predominio a livello compositivo. Difficile non appoggiare questa seconda prospettiva, ascoltando la traccia che apre il disco: “The Runaway” è uno dei pezzi più sorprendenti e obliqui della carriera del gruppo. Il brano costruisce il suo ritmo sul rumore di vetri in frantumi, e prosegue esponendo un riff (sì, l’album segna il ritorno dei riff) tortuoso e spinosissimo. Una figura in 6/8 che è una cosa sola col graffiante sound di chitarra, lontanissimo dai canoni dell’epoca e a ben vedere perfino anticipatore di wave e post-punk. Tra un cambio di tempo e l’altro, il riff risbuca nei momenti più inattesi, creando una sensazione martellante e disorientante: l’intero svolgimento sembra una costante fuga dalla rottura di vetri iniziale, che periodicamente è costretta a ripartire dal riapparire del tema melodico dell’"inseguitore". Una struttura azzeccata, visto che il brano racconta le sensazioni di un prigioniero evaso.
Le precognizioni wave continuano con “Way Of Life”, alimentate dal drumming incalzante di Weathers e dai guizzi diagonali del Minimoog di Weathers. Qualche sfumatura medievale riappare all’orizzonte in “Experience”, che a più riprese lambisce però anche territori minimal/matematici, prossimi a quelli che otto anni dopo saranno dei King Crimson di “Discipline”. Più che i paragoni, però, colpiscono gli aspetti unici: per esempio, il camaleontico folk-rock della title track, che a metà corsa si attorciglia su uno stordente riff 7+10+12, orecchiabilissimo malgrado la sua cerebralità - o forse proprio grazie a quella.
“Inmates Lullaby”, delicatissima, contiene solo strumenti a percussione (celesta, glockenspiel, marimba, vibrafono, timpani), tutti suonati da Minnear; “A Reunion”, di contro, è un pezzo per soli strumenti a corda, eccezion fatta per il pianoforte elettrico. Una peculiare stralunatezza, contorta e oziosa, ma irresistibile come le parole crociate, pare essere ora la cifra fondamentale della band. Il pubblico mostra di gradire la nuova linea, quantomeno nell’Europa continentale, che da sempre apprezza la formazione più della madrepatria. Benché inizialmente il gruppo lo consideri registrato un po’ troppo di fretta, in Italia l’album balza al sedicesimo posto, e rimane per cinque settimane in top 20. La successiva tournée europea tocca il nostro paese per una decina date (con opening act gli Acqua Fragile di Bernardo Lanzetti, una delle formazioni italiane più chiaramente ispirate ai Giant) e si sposta poi in Svizzera e Germania, a supporto dei Procol Harum in almeno un paio di occasioni.
Una scheda pubblicata nel settembre 1973 dal Melody Maker, con mini-interviste ai singoli componenti, fornisce uno spaccato delle passioni musicali della band in quel momento: Kerry cita Stravinsky e Palestrina come influenze; “Hot Rats”, “Elastic Rock” dei Nucleus, “Birds Of Fire” della Mahavishnu Orchestra e “Aqualung” sono alcuni degli album preferiti di Gary, Ray e Derek; Joni Mitchell e Ian Anderson sono i più ricorrenti fra i nomi degli artisti amati (ma c’è posto anche per Stevie Wonder, Brian Wilson e James Brown). Qualche anno più tardi, Frank Zappa avrebbe espresso a sua volta apprezzamento per la musica dei Giant.
Le sessioni per l’album seguente, The Power And The Glory, cominciano già nel dicembre del 1973 e si protraggono fino al mese successivo, dopo il quale la band riprende con i concerti britannici ed europei, con il supporto degli scozzesi String Driven Thing. L’uscita dell’album è programmata per giugno ’74 da WWA Records, e la casa discografica insiste per pubblicare contemporaneamente anche un singolo, che porta lo stesso titolo ma non è presente sul 33 giri (verrà incluso comunque in diverse ristampe a partire dagli anni Novanta).
Le otto canzoni sviluppano nuovamente un concept, incentrato sulle dinamiche del potere e della menzogna. Per quanto del tutto casuale, il timing è perfetto rispetto al culmine istituzionale del Watergate, che porterà Richard Nixon a dimettersi quell’agosto dalla carica di Presidente degli Stati Uniti.
Fortunatamente, i problemi di distribuzione in terra americana sono superati e l’album esce a settembre per Capitol Records. Il mese successivo, il gruppo dà inizio a un nuovo tour americano, realizzando cinque giorni consecutivi di “tutto esaurito” come headliner al Whisky A-Go-Go di West Hollywood, California, un locale da 500 posti che, in due delle date, li ingaggia per due show nella stessa giornata. L’album monta fino alla settantottesima posizione della Billboard Top LPs & Tape (l’attuale Billboard 200), un risultato ragguardevole per una formazione che non entrerà mai nella classifica britannica.
La musica del disco è a un tempo la più cervellotica e la più diretta registrata dai Giant fino ad allora. Da un lato, segna una certa “ottimizzazione” melodica e il ritorno delle chitarre hard che caratterizzavano i primi lavori; dall’altro, presenta articolazioni più tortuose che mai e scelte timbriche che enfatizzano il gusto “meccanico” delle architetture. Racconterà qualche anno dopo Derek Shulman al mensile statunitense Musicians Guide: “Dalle parti di quell’album siamo diventati un po’ soffocanti, le cose ci sono sfuggite di mano. Siamo arrivati a mettere contro-melodie sopra alle melodie. La voce faceva il contropelo alle canzoni. Siamo diventati troppo esoterici, e io ho iniziato ad annoiarmi”. Di avviso diverso Kerry Minnear: “L’album si è sviluppato in modo molto naturale a partire dal tema. Alcune delle canzoni presenti sono fra le nostre migliori di sempre”. E Gary Green: “Si tratta forse dell’album che abbiamo realizzato meglio. Combina il nostro versante più musicale con un sano sound rock”.
Sfruttando un elemento già presente in Octopus e In A Glass House, il disco si apre e si chiude su suoni “concreti”: il vociare di una folla in “Proclamation” e il riavvolgersi di un nastro in “Valedictory”. I due brani si richiamano fra loro, con melodie e parole che compaiono in entrambi i pezzi e un verso che ritorna capovolto (“It can change, it can stay the same”/ “Things must stay, there can be no change”). Entrambi sono fra gli episodi più rocamboleschi del disco, con i consueti intarsi metrici resi ancora più spigolosi dall’introduzione di un inedito piglio funk - e dello strumento che del funk è principe, il Clavinet.
Emerge, qui come in “So Sincere” e altri pezzi, una sorta di dicotomia fra i timbri sfruttati. Da una parte quelli più vigorosi come chitarra, basso, batteria, Wurlitzer e organo Hammond; dall’altra, una pluralità di suoni aguzzi e metallici: violino acustico ed elettrico, Clavinet, marimba, vibrafono, tamburello, sonagli. Le due anime si esprimono alla massima potenza in “Cogs In Cogs”, programmatica fin dal titolo (“Ingranaggi dentro a ingranaggi”): il risultato è una musica paradossale, che suona poderosa e arzigogolata come un automa clockpunk sfuggito al suo creatore.
Nel disco compaiono anche brani più lineari come “Play The Game” e “Aspirations”. Quest’ultimo è quanto di più simile a una ballad i Giant abbiano pubblicato nella loro carriera recente, e al momento della stesura della monografia è il più pezzo più ascoltato della band su Spotify, Deezer e Last.fm. Il singolo “The Power And The Glory”, invece, oggi come all’epoca non riscontra più di tanto i favori dei fan: sorta di filastrocca ringalluzzita, è stata descritta da Ray Shulman come “atroce” e “la peggiore” delle tre tracce costruite dalla band per dare a WWA il cavallo da corsa che tanto desiderava (e che non riscuoterà alcun successo commerciale).
Nel Regno Unito e in Europa i risultati di The Power And The Glory sono deludenti. A frenare lo slancio del disco è in parte la crisi petrolifera (per alcuni mesi la produzione di vinili è notevolmente ridotta dalla scarsa disponibilità della materia prima) e più di ogni altra cosa la pessima organizzazione dei live tour. In Italia, peraltro, i Giant effettuano col supporto degli Arti e mestieri solo una manciata di concerti: la crescente indisponibilità del pubblico del nostro paese a partecipare a show a pagamento convince la band a rientrare in madrepatria. Ma il tour britannico viene inizialmente rinviato a fine anno, e infine cancellato. Nei mesi successivi, WWA affronta un aspro contenzioso con i Black Sabbath riguardo alla gestione economica dei proventi, e l’attenzione dell’etichetta verso i Giant cala al minimo. L’insieme di questi fattori spinge Shulman e soci a guardarsi intorno, e il loro interesse si indirizza verso il management e la label degli amici Jethro Tull. Grazie a un anticipo sull’album successivo ottenuto da Capitol Records, i Giant rescindono il contratto con WWA e passano a Chrysalis.
Free Hand è l’album di maggior successo nella storia della band. Registrato ad aprile 1975 dopo altri tre mesi di concerti in Canada e negli States, il nuovo lavoro esce d’estate e raggiunge il quarantottesimo posto negli Usa (quarantunesimo in Canada). Al solito, nel Regno Unito il responso è tiepido: sulla stampa musicale compaiono diverse recensioni positive, ma il tour britannico inizia soltanto a dicembre dopo un’altra infilata di concerti nordamericani ed europei. Prevede solo tredici date, e nessuna di queste è a Londra (dove la band si è esibita a settembre per un singolo evento).
Rispetto al piglio angoloso di The Power And The Glory, quello di Free Hand è più elastico e scoppiettante. Lo si percepisce fin dall’opener “Just The Same”, con le sue piroette di chitarra e il sound ballonzolante del Minimoog, ma lo confermano anche gli echi “molleggiati” del Clavinet in “His Voyage” o i suoni videogiocosi che punteggiano “Time To Kill” (provenienti, pare, dal celeberrimo “Pong”).
Anche dove la band mostra il suo versante più rock, come nei passaggi quasi Aor della title track o nell'assolone blues di “His Voyage”, il taglio resta sempre più sciolto e giocoso che nei dischi immediatamente precedenti. Come sempre, incastri e tempi dispari abbondano, ma sempre più spesso a guidare i pezzi è l’andatura serrata di John Weathers, abilissimo nel “tirar dritto” con ritmi ahead of the beat che rendono groovy anche le evoluzioni più capziose.
L’altro aspetto evidente del disco è il ritorno a riferimenti antichi o antichizzati. “On Reflection” si apre su una fuga vocale che a molti ricorderà la splendida “Gaudete” con cui gli Steeleye Span avevano conquistato la Top 20 britannica tre anni prima. Echi del suono tagliente della formazione electric folk sono evidenti anche nella celticheggiante “Mobile” a chiusura dell’album (si ricordi che le due band hanno condiviso il palco e che entrambe sono in modo assai chiaro devote allo stile secco di Martin Barre, chitarrista dei Jethro Tull). L’evocativa “Talybont”, invece, deve l’allure medievale alla sua origine: composta da Minnear come tema per uno sceneggiato su Robin Hood, allo sfumare del progetto viene inclusa dell’album in preparazione, dove si inserisce in effetti con naturalezza.
Betcha Thought We Couldn't Do It (1976-1980)
Indubbiamente, al di là dell’adorazione di qualche migliaio di devoti, i Gentle Giant non hanno ricevuto in patria particolari riconoscimenti. Mi si permetta dunque di ideare un titolo per loro: La Band Britannica Più Sconosciuta Che Abbia Mai Pubblicato Dieci Album
(Phil Sutcliffe, giornalista di Sounds, 1977)
L’exploit commerciale di Free Hand, per quanto realtivo, segna un prima e un dopo nel percorso musicale della band. Se i tre album successivi a Octopus erano stati marcati dal consolidamento e dall’esplorazione delle possibilità dello “stile Giant”, i lavori che seguono Free Hand vedono un gruppo padrone delle proprie capacità aprire la propria formula ad altri influssi. Come naturale per un periodo di sperimentazione e rimessa in discussione dei propri orizzonti, i risultati sono decisamente eterogenei, sia a livello di generi affrontati che di efficacia compositiva. Un filo conduttore è la ricerca di un linguaggio più diretto, come sound e come strutture, ma il gioco sembra funzionare al meglio quando la musica riesce a mantenere un piede in due scarpe e coniugare la consueta astrusità a una certa immediatezza pop-rock.
Anche aspetti biografici e relazionali incidono su questa fase. L’ormai evidente caratterizzazione come band che dà il suo meglio (quantomeno a livello economico) con i live si traduce in tabelle di marcia molto serrate, che riducono il tempo per l’attività in studio e - soprattutto - per la vita in famiglia. Abituati a considerare proprio la band come casa, i Giant sono posti di fronte a nuove sfide dal matrimonio di Gary Green e dalla volontà di Derek e Ray Shulman di trascorrere negli Stati Uniti quanto più tempo possibile.
Nel frattempo, il rapporto con la stampa musicale non migliora. Il primo album del nuovo corso, Interview (sulla copertina indicato come ĭn′terview), è un concept-non-troppo che prende spunto dalla crescente noia del gruppo verso le domande stereotipate sottoposte dai giornalisti ai membri del gruppo. Registrato in sole tre settimane tra febbraio e marzo del 1976, il disco contiene quattro frammenti (fittizi) di intervista, inscenata in studio con l’aiuto di Phil Sutcliffe della rivista Sounds. “Ah, curioso! Siete imparentati?”, “Come descrivereste la vostra musica?”, “A che gioco giocate?”, sono alcuni degli interrogativi balzani a cui parte delle canzoni nella tracklist dà risposta. La title track è la più esplicita: “Ma perché lo chiedi? Di certo lo sai già”. E poi, con disillusione: “Ora che è andato, spegniamo le facce, aspettiamo il prossimo. Di nuovo la stessa canzone, cantata per il successivo”. Oltre che schietto nel messaggio, il pezzo è anche assai spiccio nel sound: pur non rinunciando ai contorsionismi, ha un chiaro taglio rock e - come altri brani nel disco - una linea vocale particolarmente carismatica, che si staglia sugli altri strumenti anziché porsi allo stesso livello nell’intreccio.
“Another Show”, “Timing” e “Give It Back” inaugurano le esplorazioni di nuovi generi musicali. Le prime due sconfinano nel territorio tutto sommato attiguo dell’Aor, dando spazio anche ad accenti southern con cui la fanbase americana possiede certamente familiarità. Anche qui il sound è energico e diretto, con parti di piano particolarmente percussive, al limite del boogie, e un assolo blues-rock da capogiro, che pare pensato apposta per fare sfaceli in contesto live. “Give It Back” è invece un buffo numero di reggae-rock sbilenco, costruito sul tempo sbagliato (12/8 anziché 4/4) e dotato di un tema strumentale che si avvita su sé stesso fino a perdersi. Poco apprezzato dal pubblico dell’epoca, viene presto rimosso dalla scaletta dei concerti, ma rimane uno dei pezzi più anomali del già piuttosto peculiare canzoniere dei Giant. Suona invece come un rimando al passato immediato la conclusiva “I Lost My Head”: una prima parte delicata e stravagante, sostenuta dal suono sgangherato dell’RMI Electra, poi un’interruzione repentina e una sorprendente svolta zeppeliniana.
L’uscita dell’album è accompagnata da un’ampia tournée nordamericana e da diverse date europee (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi) e britanniche. Generalmente soli in cartellone al di qua dell’oceano, in alcune occasioni i Giant si esibiscono col supporto dell’ensemble jazz-rock Solution, proveniente dai Paesi Bassi. In Canada e in alcune serate negli States fanno invece da spalla gli yessianissimi Starcastle, freschi di debutto e fra le poche prog-band statunitensi ad avere un contratto con una major. Per il resto, in terra americana i Giant suonano come opening act al solito vasto ventaglio di artisti tier 1: Ted Nugent, Yes, Peter Frampton, Gary Wright, gli Utopia di Todd Rundgren. Pur non bissando i numeri di Free Hand, l’album si inserisce in diverse classifiche: in Italia arriva alla posizione 22, in Canada alla 56, in Svezia e Norvegia alla 29 e alla 19 rispettivamente, mentre negli Usa si ferma alla 137.
Nel 1976/1977, l’attività dal vivo è fondamentale per la sostenibilità finanziaria del progetto Gentle Giant. Questo non solo perché il fittissimo calendario concertistico è la principale fonte di proventi del quintetto, ma anche perché, vista la fama di fenomenale live band, Chrysalis pensa bene di capitalizzare le vittorie sul campo e dare alle stampe un doppio live album. Playing The Fool: The Official Live arriva nei negozi a gennaio 1977 e raccoglie registrazioni di performance tenute l’anno precedente nel tour europeo immediatamente successivo al ritorno dagli States. Gli undici brani provengono da spettacoli a Düsseldorf, Parigi, Monaco, Bruxelles nel settembre/ottobre 1976; in quel periodo, il gruppo fa tappa anche in Svezia, Svizzera e perfino Liechtenstein, spesso col Banco come band di supporto.
L’album è solo parzialmente fedele alle scalette dell’epoca: per scelta dell’etichetta, sono esclusi tutti i brani provenienti dal recente Interview (realisticamente “Interview”, “I Lost My Head” e “Timing”) e la prima traccia non presenta nella sua interezza l’introduzione, consistente in una porzione della strumentale “Talybont”. Come consueto per gli anni, inoltre, i pezzi presentano alcune sovraincisioni di studio, inserite in particolare per rafforzare il sound del Clavinet. Nell’album si conservano comunque molti aspetti essenziali degli spettacoli dei Giant. Innanzitutto, le scalette da sempre “profonde”, che privilegiano i brani dalla migliore resa live a prescindere dal loro anno di uscita. La riproposizione, poi, non è mai didascalica e presenta forti rielaborazioni rispetto alle versioni studio. Abbondano i medley: “Proclamation”/”Valedictory”, “Peel The Paint/ I Lost My Head” (unica inclusione da Interview, perché non eliminabile) e soprattutto i quindici minuti di tour de force “Excerpts From Octopus”, da diversi anni un cavallo di battaglia inderogabile. Importanti anche i passaggi aggiuntivi: gli incastri vocali di “A Reflection” sono introdotti da una sezione strumentale composta ad hoc da Kerry Minnear, “So Sincere” evolve in un camaleontico assolo di batteria. Scompare purtroppo con “Timing” la possibilità di ascoltare un numero imperdibile delle esperienze live, l’assolo quadrifonico di violino elettrico di Ray Shulman, col suono a rimbalzare da un altoparlante all’altro, dando un’impressione di spazialità celebrata in molti racconti dei fan.
Un ultimo aspetto necessariamente mancante nella trasposizione discografica è la dimensione ruspante e autoironica delle performance. Ma d’altra parte si tratta di elementi spesso sottovalutati anche dalla stampa dell’epoca. L’immagine confezionata in alcune riviste britanniche snobba la band come kitsch e la accusa di eccessiva ampollosità. Stando a quanto riferito dal giornalista Mike Barnes nel monumentale “A New Day Yesterday: UK Progressive Rock & the 1970s”, a un certo punto il New Musical Express arriva a soprannominarli “Genital Gnat” (“moscerini genitali”). Per tutta risposta, i Giant, da sempre poco magniloquenti per l’epoca nelle loro scelte di vestiario e scenografie, iniziano ad apparire sul palco con un cartello recante la scritta “PRETENTIOUS”, e proprio nel 1977 chiamano una loro compilation Pretentious: For The Sake Of It. Chi segue con attenzione la band ha tuttavia maturato negli anni una visione più sfaccettata. Un articolo apparso ad aprile 1976 sulla fanzine statunitense Trouser Press recita: “Benché i Gentle Giant, dovendoli proprio classificare, ricadano nell’ampia categoria del progressive rock, certamente non si conformano allo stereotipo del genere. Non fanno scempio della musica classica, non indulgono in eccessi e melodrammi; non celebrano sermoni sulle forze cosmiche della Natura e dell’Universo; non si comportano sul palco come se le idee musicali complesse fossero in esclusione col senso dell’umorismo; non sostituiscono all’integrità della creazione musicale dimostrazioni sterili e prive di emozioni”. Ammesso e non concesso che queste maldicenze siano una descrizione adeguata per un qualsivoglia caposaldo prog, la peculiarità dei Giant è vistosa.
Tutti i primi mesi del 1977 sono dedicati alla prosecuzione del tour nordamericano, con un’alternanza fra performance in accoppiata ai Renaissance (e, in un caso, alla Electric Light Orchestra) e concerti da primi in cartellone. In Québec, la band si esibisce con due formazioni locali, gli Et Cetera (chiaramente influenzati dalla musica di Shulman e soci) e i Symphonic Slam, dal taglio più Aor. Rientrati nel Vecchio Continente, i Giant si recano ai Relight Studios di Hilvarenbeek, nei Paesi Bassi, e in soli dodici giorni completano la registrazione del nuovo album, di cui alcuni pezzi sono già stati sperimentati sul palco nei mesi precedenti - un fatto inedito nella storia del gruppo.
The Missing Piece esce ad agosto a settembre ed è un album anfibio, con una prima facciata più coraggiosa (ma non per forza più riuscita) orientata al pop-rock e una seconda più legata alla comfort zone medieval/progressiva in cui la band si muove con scioltezza. Apre le danze la frizzante “Two Weeks In Spain”, forse il caso più convincente di ibridazione tra arguzia costruttiva e immediatezza pop. Nei pezzi successivi, il suono si sposta su territori più “americani”, con la ballatona Aor “I’m Turning Around”, efficace in fatto di atmosfere ma mancante del qualcosa di più (anche solo di un bridge!) che fa svettare i grandi classici del genere. “Betcha Thought We Couldn’t Do It” parrebbe un esperimento tra punk e power pop, mentre “Who Do You Think You Are” e “Mountain Time” giocano rispettivamente in campo southern/Steely Dan (sentire per credere) e rhythm’n’blues (con tanto di coriste a contorno). Fra i pezzi della seconda facciata, che propongono in linea di massima una linearizzazione del consueto Giant sound, si fa notare l’azzardo di “Winning”: sul ritmo scheletrico di una drum machine, il sempre versatile John Weathers aggiunge le sue variazioni, creando un effetto al tempo stesso robotico e vivace.
Nonostante la decisa virata pop, i risultati in classifica proseguono lungo la china discendente avviata con Interview: ottantunesimo posto negli States e in Canada, cinquantesimo in Svezia, ventunesimo in Italia (che, dopo una parentesi ormai conclusa, si conferma molto ricettiva verso la proposta della band). Eppure, tanto i Giant quanto l’etichetta paiono convinti che la strada sia quella buona. D’altra parte, proprio in quegli anni formazioni come Yes e Jethro Tull mantengono numeri importanti abbandonando le suite chilometriche, e i Genesis di Banks/Rutherford/Collins/Hackett montano nelle classifiche statunitensi con l’infilata “A Trick Of The Tail”-“Wind And Wuthering”-“…And Then There Were Three…”. La ripresa delle date americane dopo una breve tournée continentale, poi, conferma l’entusiasmo del pubblico d’oltreoceano. Ora i Giant sono stabilmente headliner, e portano al loro seguito una band britannica molto apprezzata da Derek Shulman, i Dr. Feelgood, il cui pub rock è tuttavia accolto in modo pessimo da una fanbase nient’affatto avvezza a formule blues-rock in odore di punk.
Dopo una manciata di date, il gruppo spalla fa baracca e burattini e rivola in Inghilterra. Il supporto per il resto del tour viene perlopiù da band locali, il cui elenco offre un interessante spaccato delle limitate scene prog nordamericane, incapaci di imporsi su scala nazionale: in Ontario ecco il progressive pop dei Garfield, in Pennsylvania i Baby Grand col loro ibrido progressive/soft rock/power pop, mentre in Virginia ad aprire sono i Face Dancer, da Rhode Island, partiti come band pomp rock prima di evolvere a loro volta in direzione power pop/Aor.
Ad aprile 1978, il gruppo torna in studio per incidere il suo decimo album con un’intenzione chiara: si tratterà di un disco di canzoni pop. Giant For A Day!, questo il titolo, viene registrato nuovamente a Londra, dove i Giant incidono presso gli studios di Who (Ramport) e Jethro Tull (Maison Rouge). A differenza di The Missing Piece, ma in analogia agli album precedenti, le session cominciano senza alcun brano già pronto: questa volta, però, le idee paiono latitare. Ricorda John Weathers, che con “Friends” firma per la prime e ultima volta un pezzo dei Gentle Giant come autore: “Mi presentai alle session e dissi: ‘Ho una canzoncina semplice…’ e Ray disse: ‘Mi piace!’. La registrammo e la inserimmo nel disco. Mi sa che eravamo un po’ a corto di materiale”. E Kerry Minnear: “Fu un album difficile per me perché non riuscivo a capire quale potesse essere il mio ruolo. Avevo problemi con la scrittura, perché l’idea generale era di produrre qualcosa di meno contorto, e, anche se per me la cosa era ok, non mi sentivo a mio agio. Non c’era alcuno dei miei talenti che potessi impiegare per migliorare il risultato, o anche solo contribuire in modo significativo”.
La spinta alla semplificazione nasce soprattutto dalla volontà dei fratelli Shulman, e, a dispetto di quanto si possa pensare, ha molto poco a che vedere col coevo emergere del punk (fenomeno legato a un mercato, quello britannico, a cui la band ha ormai rinunciato da tempo). I modelli sono invece soprattutto il power-pop e l’Aor, che sul finire dei Settanta popolano abbondantemente le classifiche statunitensi con Cheap Trick, Cars, Knack, Player, Boston, Journey, Jefferson Starship, Foreigner, Styx, i primi fasti di Toto e REO Speedwagon… Purtroppo, la scaletta di Giant For A Day! non contiene potenziali chart buster che possano spedire i Giant nello stesso Olimpo delle band sopracitate. I singoli che teoricamente dovrebbero spingere il disco - l’opener “Words From The Wise”, il lento pseudo-country “Thank You” - sono brani piatti come suono e come composizione: incredibile ma vero, la band che aveva fatto della sorpresa la sua cifra stilistica costruisce ora canzoni del tutto prive di variazione interna. A peggiorare le già dubbie prospettive commerciali del prodotto, si aggiunge anche un’idea promozionale quantomeno bislacca: una copertina fustellata, che, opportunamente strappata, si trasforma in una maschera da gigante.
Il flop è inevitabile, e pochi fanno caso ai pallidi elementi positivi celati nella tracklist: la goliardica “Spooky Boogie”, il techno-rock quasi alla Devo della title track, le ottime performance chitarristiche di Gary Green, finalmente libero di darci dentro con la sua migliore vena rock/blues. Non solo l’album non si piazza in alcuna classifica, ma sia in Europa che in Nordamerica non viene organizzato alcun tour. Potrebbe essere non solo la fine delle aspirazioni commerciali dei Gentle Giant, ma anche della band tout court.
Tra i fan del progressive rock i Gentle Giant godono della nomea, rara fra i grandi del genere, di non essersi “svenduti” a livello di sound sul finire degli anni Settanta. Alla luce di Giant For A Day!, è difficile dar credito a questa reputazione. Negli anni in cui i Genesis spingono al massimo sul versante jazz-rock (“...And Then There Were Three...”, uscito nel 1978, è sì l’album di “Follow You Follow Me”, ma anche di “Down And Out” e “The Lady Lies”), gli Yes trasportano con “Tormato” la loro epicità in nuovi orizzonti stilistici, e perfino gli Emerson, Lake & Palmer del tanto bistrattato “Love Beach” conservano tutta la loro visionarietà sintetica e un’intera facciata progressiva, i Gentle Giant di Giant For A Day! non solo eliminano ogni risvolto prog, ma nemmeno suonano più riconoscibili. Il cambio di passo, peraltro, è frutto di un confuso ma del tutto deliberato tentativo di inseguire le preferenze del mercato, nella speranza di riacciuffare il treno di quel “sogno americano” che avevano avvicinato negli anni precedenti e che ora sta offrendo una nuova vita ad altri big del settore. Certo, in quanto fallimentare la “svolta pop” dei Gentle Giant non lascerà tracce sulla popular culture: forse è per questo che gli appassionati mostrano verso di loro un’indulgenza molto maggiore che con le milionarie flessioni stilistiche degli altri pro player del filone.
Dopo il fallimento di Giant For A Day!, la band si prende una pausa. Mentre gli altri si occupano delle proprie vite familiari, Derek Shulman si trasferisce in pianta stabile in California, dove fra le altre cose si dà da fare per procurare un contratto ai Giant in vista di un possibile ritorno. Capitol Records ha infatti abbandonato la band, che è quindi priva di un distributore americano. La nuova possibilità arriva grazie al ritorno in gioco di Columbia, e nella primavera del 1979 i Giant al completo si ritrovano a Los Angeles per realizzare il nuovo album. La mentalità è ancora orientata a un sound radio-friendly adatto a conquistare nuovo pubblico in terra americana. Ma questa volta il gruppo non intende consentirsi passi falsi, e per questo si avvale della consulenza di Lee Abrams, pezzo grosso della radio Fm statunitense che ha contribuito in modo determinante all’ascesa del formato Album Oriented Rock. Le registrazioni, poi, sono condotte con la supervisione di Geoff Emerick, storico ingegnere del suono dei Beatles. Nel ricostruire il suo apporto al disco, John Weathers dichiarerà: “Benché i credits lo indichino soltanto come ingegnere del suono, ci diede tutta una serie di input fondamentali. Sapeva esattamente che cosa stavamo cercando di creare: un album dal suono davvero massiccio, davvero rock”.
Sebbene “massiccio” e “rock” non siano i primissimi termini che vengano in mente nel tentare di descrivere Civilian, va riconosciuto che il suo sound è decisamente più a fuoco rispetto al disco precedente. Gli abiti Aor/power-pop sono ora indossati con più personalità e lo stile risultante riesce a essere da un lato inedito per la formazione, e dall’altro in chiara continuità col suo marchio storico. Il riff circolare del singolo “All Through The Night” ha la dovuta appiccicosità radiofonica, ma anche una segmentazione interna che lo riallaccia direttamente ai brani cult del gruppo. “Convenience (Clean And Easy)”, unico pezzo cofirmato da Gary Green in dieci anni di permanenza, combina l’aggressività dei Giant più obliqui a scintille pressoché wave; “Number One” è un solido episodio arena rock che però lascia spazio al Wurlitzer di Kerry Minnear e al lato più elfico della voce di Derek Shulman. Anche quando, circostanza più unica che rara, le canzoni sembrano vestire i panni degli Yes (“Underground”) o del Tony Banks più umbratile (“Shadows On The Street”), il suono conserva una sua credibilità.
Sia come sia, fra i meriti del disco non c’è quello di attrarre nuovo pubblico. Uscito nel maggio 1980, solo in Canada l’album ottiene un riscontro in classifica (novantunesimo posto), e in Europa la promozione del “ritorno in scena” della band è minimale per usare un eufemismo. Viene allestito un tour nordamericano di un mese e mezzo, che tocca spesso venue minori e - salvo alcuni sold-out in Ontario e California - registra vendite inferiori alle aspettative. Il nome dei Giant è sempre il primo in cartellone, e a supporto figura un inventario di formazioni locali paragonabile a quello della precedente tournée: interessanti in particolare gli 805 che aprono i concerti nello stato di New York, che nel 1982 pubblicheranno un riuscito album al confine fra Aor, prog-rock e new wave. A Toronto l’introduzione spetta all’ibrido progressive electronic/minimal wave di Nash The Slash, ex-violinista degli FM, un nome apprezzato del prog canadese. A Houston, infine, i Giant sono accanto ai texani Heyoka, autori di uno sgargiante pomp-rock dalle tinte heavy e prog. Il pubblico mostra comunque di non apprezzare particolarmente i pezzi del nuovo disco, e giunto in momento del ritorno in Gran Bretagna, Kerry Minnear e Derek Shulman hanno chiarito al resto dei componenti la loro volontà di non proseguire più nell’avventura della band. È il giugno del 1980, e i Gentle Giant non esistono più.
Valedictory
A conti fatti, come band semplicemente non eravamo tagliati per il ruolo di rockstar. Certo, avremmo davvero desiderato essere famosi quanto Genesis, Rush o Yes. Ma col tempo ho capito il come e il perché i Gentle Giant siano rimasti una formazione di culto, mentre un gruppo come i Genesis è riuscito a sfondare
Molti anni dopo lo scioglimento, Derek Shulman avrebbe riflettuto così, sulle pagine della webzine Sea Of Tranquillity. Il successo, in realtà, l’avrebbe poi ottenuto. Per sé e per altri. A partire dai primissimi anni Ottanta, inizia a lavorare come talent scout per Polygram Records, e negli anni porta nel mercato musicale nomi come Bon Jovi, Tears For Fears, Def Leppard, Cinderella, Kingdom Come. Dopo essere diventato vicepresidente del reparto A&R (Artists & Repertoire) di Polygram, nel 1988 si sposta ad ATCO Records, dove ricopre le cariche di presidente e Ceo e mette sotto contratto Pantera e Dream Theater. Negli anni Novanta approda poi a Roadrunner, di nuovo come presidente e Ceo (fino al 2002): tra gli artisti avvicinatisi all’etichetta sotto la sua supervisione ci sono Nickelback e Slipknot.
Anche il fratello Ray si trasferisce negli Stati Uniti, abbandonando così il progetto Shout!, da poco avviato in compagnia di Gary Green (l’unica testimonianza della band resterà un singolo dell’82, “Starting Line”, in stile new wave). Negli anni successivi si dedica all’attività in studio, producendo la pietra miliare “69” degli A.R. Kane oltre che lavori di Sundays e Sugarcubes (uno dei primi progetti di Björk). Da sempre interessato ai computer, si avvicina come autore alla musica elettronica e compone nei primi anni Novanta due Ep di stampo techno-trance a nome Head-Doctor e alcune colonne sonore di videogame music. Nel frattempo, si specializza nell’editing di immagini e video e trasforma la realizzazione di Dvd e Blu-ray musicali nella sua attività principale: fra le altre cose, opera a stretto contatto con Steven Wilson (Porcupine Tree), curandone le release multimediali.
Rimasto in Inghilterra, Gary Green suona con Eddie Jobson (violinista di Roxy Music, Frank Zappa, Curved Air, Jethro Tull, Uk) nell’eclettico prog-synth-pop “The Green Album” (1983) ed è con Billy Sherwood (Yes) in diversi all-star tribute album. Kerry Minnear si dedica invece all’insegnamento musicale, mentre John Weathers torna nel suo Galles e incide tre album con la storica prog jam band Man.
Nonostante le numerose richieste, i Giant non conducono mai una reunion. Dal 2008, tuttavia, Gary Green e il batterista di Three Friends Malcolm Mortimore effettuano tour eseguendo materiale della band, con una formazione opportunamente chiamata “Three Friends” in cui, per un breve periodo, milita anche Kerry Minnear. Fra i brani proposti, oltre ai classici cavalli di battaglia dei live di un tempo, anche alcuni pezzi mai ascoltati al di fuori dal formato album.
Il gigante non è tornato, ma la sua musica è rimasta. Già negli anni di attività, l’influenza della band su altre formazioni è stata percepibile. Come confermato dal musicista e musicologo Franco Fabbri (Stormy Six) nel suo “Album Bianco²” (2002), gli intrecci contrappuntistici e i riferimenti novecenteschi di Kerry Minnear sono stati un apporto essenziale per diverse formazioni dell’"ala sinistra" del progressive europeo, quell’area Rock In Opposition che coi britannici Henry Cow, gli svedesi Samla Mammas Manna, i nostrani Stormy Six e molti altri avrebbe portato avanti anche nei decenni successivi una continua sperimentazione tra folk, prog, post-punk, improvvisazione, spunti world e musica colta contemporanea. Al di là dall’Oceano, invece, dove il gruppo ha avuto la parte più cospicua della sua fanbase, la musica dei Gentle Giant è stata un modello imprescindibile per almeno due fasi della travagliata storia progressive, fatta soprattutto di scene locali e uscite su etichette minori. In un primo momento, legato a stili prevalentemente imitativi, i Gentle Giant sono coi ben più celebri Yes il più importante termine di paragone per gruppi come Cathedral, Hands, Mirthandir, Yezda Urfa, Pentwater, Window (oggi come allora poco noti al di fuori del circuito dei fan).
Successivamente, anche grazie al sorprendente debutto su major dei washingtoniani Happy The Man, si fa avanti una nuova compagine carbonara di band, ispirate sia dal progressive sinfonico che dal Canterbury sound o dal Rock In Opposition (nonché da Frank Zappa, jazz, composizione contemporanea, new age…). Formazioni quali Cartoon, However, Rascal Reporters, Thinking Plague e più avanti Echolyn, U Totem/Motor Totemist Guild o 5uu’s hanno spesso al loro interno compositori formati (caratteristica che si è visto essere peculiare di Kerry Minnear nella scena britannica degli anni Settanta) e vedono lo stile ibrido dei Gentle Giant come un naturale “ponte” fra le loro molteplici influenze, traghettandone lo status di cult band fino agli anni Novanta dell’esplosione neoprog.
Benché raramente manifestatosi a livello mainstream, da allora l’interesse verso il genere non si è più spento e consente a un fitto sottobosco di formazioni di incontrare, anche grazie alla Rete, un altrettanto variegato numero di fan. A oggi, l’ombra lunga del Giant sound si staglia su progetti eterogenei come il prog revival di Änglagård e Wobbler e l’eclettico prog-metal degli Haken, l’art-pop dei Dutch Uncles e il nu jazz dei Kneebody. Un altro ambito in cui, forse sorprendentemente, i Gentle Giant hanno trovato ammiratori è l’hip-hop: oltre che dal già citato Madlib, che avrebbe utilizzato più volte sample dei loro brani, i beat disarticolati di cui abbondano gli album dei Giant sono stati presi in prestito da J Dilla, Run The Jewels, A Tribe Called Quest, De La Soul e altri ancora (per un elenco completo, si veda la pagina su Whosampled).
Curiosamente, poi, i Gentle Giant sono indicati come numi tutelari di un bizzarro non-genere retroattivo che raccoglie formazioni fra le più eccentriche della storia del pop. Il filone, caratterizzato da “ritmi iper-singhiozzanti e da un’alternanza di bleep e boing armonici e/o cacofonici”, è stato battezzato “zolo” sulla scorta della trasmissione radiofonica che per prima ha posto la costellazione stilistica al centro dell’attenzione: Zany Zolo Music Hour, condotta per una college radio di Portland da Terry Sharkie attorno alla metà degli anni Novanta. Inizialmente poco più che uno scherzo, l’etichetta è andata affermandosi grazie alla Rete negli ultimi decenni, e ha ora un suo tag dedicato su Rateyormusic, che viene impiegato per descrivere una pluralità di musiche da qualche parte tra prog sbilenco e post-punk giocherellone, con ampie incursioni in territorio camp e occasionali fulminazioni elettroniche. Qualche nome oltre ai benemeriti Giant (il cui periodo chiave per il filone sarebbe quello da Octopus in poi) chiarisce la trasversalità del campo di gioco: Xtc e Split Enz, Devo e Oingo Boingo, Godley & Creme, Bill Nelson, Cardiacs, Fred Frith, Sparks, Gong (e si potrebbe andare avanti a lungo).
Come per molte altre formazioni storiche del progressive britannico, anche il catalogo dei Gentle Giant è stato oggetto dagli anni Novanta in poi di una serie di ristampe, ripescaggi, ripulizie, che offrono agli adepti accumulati negli anni un accettabile tradeoff tra finanze personali e un’esperienza di ascolto arricchita rispetto a chi ha vissuto la band in diretta. Dal 1997, a curare le operazioni è Alucard Music, fondata da Kerry Minnear e dalla moglie Lesley. Oltre a una vasta rassegna di live, la label ha edito le due maxi-raccolte Under Costruction (1997) e Scraping The Barrel (2004), che collezionano rarità e materiale di archivio mai pubblicato in precedenza. La prima fornisce l’occasione per ascoltare, fra le altre cose, versioni dal vivo dei brani di Interview dell’epoca di Playing The Fool (compreso il celebre violino quadrifonico in “Timing”) e audace materiale elettronico coevo a “Talybont”, preparato per la mai completata colonna sonora del progetto Robin Hood. Fonte di interesse, nella seconda compilation, sono invece i pezzi dei primi anni Ottanta proposti da Kerry Minnear a Chrysalis come possibile seguito solistico di Civilian (e respinti dall’etichetta), brani degli Shout! di Gary Green e Ray Shulman, altri pezzi di Minnear realizzati in Midi e impiegati come portfolio per proporsi a reti tv e due tracce di videogame music composta da Ray Shulman.
Anche grazie rapporti solidi fra Ray Shulman e Steven Wilson, Alucard ha avviato negli ultimi anni un’opera di remix delle uscite principali della band, curate dal leader dei Porcupine Tree analogamente a quanto fatto coi classici dei Jethro Tull. Al momento sono disponibili Octopus, The Power And The Glory e Free Hand, più una compilation di brani dei primi tre album chiamata Three Piece Suite. Il restauro è decisamente filologico e mira a potenziare la brillantezza dell’audio aumentando la definizione dei suoni e la separazione tra gli strumenti. Tracce come “Proclamation” e “On Reflection” ne guadagnano apprezzabilmente.
Altre uscite significative, legate a etichette terze, sono le registrazioni Bbc di Out Of The Woods (Band Of Joy, 1996, poi espanse in Totally Out Of The Woods, Hux, 2000) e Out Of The Fire (Hux, 1998). I fan più incalliti apprezzeranno poi il colossale box set Unburied Treasure (Madfish, 2019), che colleziona tutti gli album della band, quindici live inediti e il debutto Gentle Giant remixato da Steven Wilson. La raccolta include anche due corposi libri riguardanti le tournée concertistiche (con informazioni presenti anche sul sito Gentle Giant Tour History) e la storia della band. È da quest’ultimo testo che provengono i virgolettati presenti in questo articolo, se attribuiti ai membri della band senza ulteriori indicazioni.
Da sempre essenziali per il gruppo, i fan hanno contribuito a mantenere vivo il culto dei Gentle Giant anche con iniziative dirette, molte delle quali risalgono al ritorno di interesse per il progressive rock incominciato negli anni Novanta. La fanzine "Proclamation", di cui è liberamente accessibile l’archivio completo, è stata attiva tra il 1992 e il 2000, pubblicando interviste, aggiornamenti e analisi dettagliate riguardo alla musica dei Giant. Dal 1994 è inoltre operativa la mailing list On-Reflection, ospitata dall’Università dell’Oregon, che mette in comunicazione gli appassionati di tutto il mondo e da più di vent’anni ne organizza anche il regolare meeting annuale (GORGG: Global On-Reflection Giant Gathering). Legata alla convention, c’è anche la pubblicazione di album-tributo contenenti musica originale ispirata dai Giant, composta ed eseguita dagli appassionati del gruppo. È del 2008, infine, la creazione della Wiki Gentle Giant Home Page, miniera di informazioni oltre che di materiale storico.
Restando in tema tribute album, vanno menzionate almeno le due doppie compilation all-star "Giant Tracks - A Tribute To Gentle Giant" (HyberNation Music, 1997) e "Giant For A Life" (Mellow Records, 1997). Tra gli artefici delle reinterpretazioni, figurano nella prima Kevin Gilbert (Giraffe, Toy Matinee) e Mike Keneally (“stunt guitarist” per Frank Zappa, e poi rinomato solista); nella seconda svettano invece gli avant-progger americani French TV e i nostrani Zauber. In entrambe sono presenti anche gli statunitensi Advent, visti da molti appassionati come “la band più Gentle Giant di sempre” ("Cantus Firmus", del 2006, è in genere considerato il loro album più riuscito). Curioso anche l’album "Knots" (Thousand, 1999), che raccoglie brani composti da autori di musica elettronica assemblando esclusivamente frammenti audio pubblicati come free sample nel doppio Under Construction.
Si tratta ovviamente di materiale per die-hard fan, capace però di mostrare quanto la musica dei Giant presenti ancora oggi possibilità di reinvenzione e ricombinazione.
SIMON DUPREE AND THE BIG SOUND | |
Without Reservations(Parlophone, 1967) | |
Part Of My Past (antologia, EMI, 2004) | |
GENTLE GIANT | |
Gentle Giant(Vertigo, 1970) | |
Acquiring The Taste(Vertigo, 1971) | |
Three Friends(Vertigo, 1972) | |
Octopus(Vertigo, 1972) | |
In A Glass House(Vertigo/WWA, 1973) | |
The Power And The Glory(Vertigo/WWA, 1974) | |
Giant Steps... The First Five Years (antologia, Vertigo, 1975) | |
Free Hand(Chrysalis, 1975) | |
Interview(Chrysalis, 1976) | |
Playing The Fool(live, Chrysalis, 1977) | |
The Missing Piece(Chrysalis, 1977) | |
Pretentious... For The Sake Of It(antologia, Vertigo, 1977) | |
Giant For A Day!(Chrysalis, 1978) | |
Civilian(Chrysalis, 1980) | |
In Concert(live, Windsong, 1992) | |
The Last Steps(live, Red Steel Music, 1996) | |
Out Of The Woods: The BBC Sessions(antologia, Band Of Joy, 1996) | |
Under Construction(box set, Alucard, 1997) | |
Out Of The Fire: The BBC Concerts(antologia, Hux, 1998) | |
King Biscuit Flower Hour Presents Gentle Giant(live, King Biscuit Flower Hour, 1998) | |
Totally Out Of The Woods: The BBC Sessions(antologia, Hux, 2000) | |
Scraping The Barrel(box set, Alucard, 2004) | |
GG At The GG: BBC Sight & Sound Concert & Other Antiquities(dvd, Alucard, 2006) | |
King Alfred's College 1971(live, Alucard, 2009) | |
Live In Stockholm '75(live, MLP, 2009) | |
I Lost My Head: The Chrysalis Years (1975-1980)(box set, Chrysalis, 2012) | |
Live At The Bicentennial 1776-1976(live, Alucard, 2014) | |
Three Piece Suite(antologia, Alucard, 2017) | |
Unburied Treasure(box set, Burning Shed, 2019) |
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