Tasti bianchi e tasti neri

L'organo Hammond in 30 canzoni

Tra le tante possibili storie del pop, quella dei suoi strumenti è tra le meno raccontate. Sì, va ammesso: l’appeal degli oggetti è inferiore a quello di canzoni e personaggi, ma un qualche fascino anche solo feticistico deve ben esserci in questi ferri del mestiere - abbastanza almeno per permettere alla catena Hard Rock Cafè di costruirci sopra un successo mondiale.
Strumenti come la chitarra, e secondariamente il basso e la batteria, si sono comunque legati nei decenni a iconografie, gesti e ruoli consolidati. Attorno alle tastiere non si è creato un analogo immaginario, salvo casi episodici legati a filoni ben delimitati stilisticamente e temporalmente. Nonostante la sostanziale onnipresenza in ogni ambito del pop di successo, non si è creato un “mito del tastierista”, né un'immagine standardizzata diversa da quella del figuro pressoché immobile che si limita a svolgere diligentemente il suo compito: quello di spingere i tasti giusti al momento giusto. Anche per questo, il tastierista e i suoi strumenti sono sovente stati relegati in posizioni lontane dai riflettori, sia negli spettacoli dal vivo che nei videoclip. Gli "attrezzi del mestiere", poi, non hanno certamente raggiunto presso il pubblico generalista uno status iconico paragonabile a Stratocaster e Les Paul, se non con qualche variante anomala che oggi viene prontamente ricordata solo per dileggio (vedi alla voce keytar).
Eppure, proprio l’evoluzione delle tastiere — di fatto tutt’uno con quella del trattamento elettronico del suono — è rivelatrice delle ricche e arborescenti trasformazioni delle forme musicali, del loro rapporto con tecnologia e società e dei mutamenti che l’idea stessa di “fare musica” ha incontrato nei diversi contesti e nelle diverse epoche.

Questo articolo, il primo della rassagna Tasti bianchi e tasti neri, vuole inaugurare una serie di approfondimenti tematici sulla storia delle tastiere e degli strumenti elettronici in generale, che metta al centro il loro ruolo nel pop e nei territori attigui. Con riferimenti visivi e musicali, si cercherà di dare uno sguardo agli aspetti storici così come a quelli tecnico-costruttivi, e soprattutto alle possibilità artistiche ed espressive che si sono aperte in associazione a questa o quell’altra novità arrivata sulla piazza.
Inizieremo questo percorso tra arte e tecnologia soffermandoci sul processo che ha fatto da apripista a ogni altro sviluppo in questo campo: l’elettrificazione dei principali strumenti a tastiera del panorama occidentale. Fin dall'inizio del Ventesimo secolo, la diffusione della corrente elettrica e le crescenti esigenze in termini di compattezza, intensità acustica e (talvolta) contenimento dei costi spingono a realizzare emuli elettrici di pianoforte, organo e clavicembalo, da sfruttare nei contesti dove l’uso di uno strumento puramente acustico risultasse poco pratico. Introdotti soprattutto a partire dagli anni Trenta del Novecento, sono inizialmente di strumenti elettro-meccanici, provvisti di meccanismi di produzione del suono basati su parti mobili, pick-up e altoparlanti. Sono esempi di questa tecnologia i più iconici modelli di pianoforte elettrico e gli organi a ruote foniche (tonewheels). Tra questi ultimi, il più celebre di tutti è senz'altro l'organo Hammond.

Anatomia di un mito

Laurens Hammond e la sua invenzione
Più di ottant’anni di storia, almeno due milioni di esemplari venduti, innumerevoli cloni e imitazioni. Se tra le tastiere che ha fatto la storia del rock ce ne è una che può ambire allo status di mito, è certamente l’organo elettromeccanico ideato dall’orologiaio statunitense Laurens Hammond e da John M. Hanert, che brevettarono l’invenzione nel 1934 e la lanciarono sul mercato l’anno successivo.
Commercializzato inizialmente a 1.193 $ (circa ventimila euro attuali), l’Hammond A fu inizialmente utilizzato in ambito ecclesiastico: per quanto elevato, il suo prezzo risultava interessante per quelle comunità che non potessero permettersi un ben più dispendioso e ingombrante organo a canne. Già prima della Guerra, musicisti e curiosi di diverse estrazioni iniziarono a interessarsi alle sue possibilità sonore: il compositore George Gershwin fu tra i primi acquirenti, e alcuni strumentisti lo adottarono in ambiti che spaziarono dal jazz (Milt Herth) alla musica per film muti (Jesse Crawford).
Il meccanismo di emissione del suono è peculiare, e riprende uno stratagemma già presente nel bizzarro telharmonium, pioneristico strumento costruito dallo statunitense Taddeus Cahill nel 1897. I generatori di frequenze sono ruote foniche (tonewheels): componenti metalliche simile a ingranaggi che alterano col loro movimento il campo magnetico percepito da un opportuno pickup posto in loro prossimità. Questo induce una corrente all’interno del pickup, che può essere poi amplificata e trasmessa a un altoparlante per produrre suono. La pressione dei tasti associati alle note determina quali ruote azionare, ma l’effettiva selezione delle ruote che emetteranno il segnale è controllata da un insieme di cursori detti drawbar: questi regolano il bilanciamento delle diverse armoniche che caratterizzano il timbro, indicandone il volume. Il suono è così composto da una controllata alchimia di frequenze, in cui oltre alla principale (che rappresenta il tasto premuto) compariranno con intensità modificabili anche quelle a distanza di un’ottava (sopra e sotto), di una quinta, di una terza… Si tratta di un meccanismo molto simile a quello che, quasi mezzo secolo più tardi, sarà alla base dei  sintetizzatori additivi, anche se per il momento il livello di personalizzazione timbrica consentito è piuttosto approssimativo.


Tonewheels di un Hammond B3 in azione


Configurazione dei drawbar di un organo Hammond

Dall'altare al palco

webp.netresizeimage_17_01Come imitazione di un organo a canne, il suono dell’Hammond non è chissà quanto riuscito. Nel dopoguerra, tuttavia, il marchio acustico dello strumento conquista una sua familiarità per gli ascoltatori, e la cerchia di registrazioni e musicisti che lo adottano si allarga fino ad affrancarlo ampiamente dalla sua iniziale caratterizzazione liturgica e low cost. Dagli anni Cinquanta, l’adozione dello strumento accompagna l’ascesa dell’easy listening, e vale alla organista Ethel Smith il soprannome di “First Lady” dell’Hammond. In questo periodo debuttano sul mercato i due modelli di maggior successo, destinati a restare tali anche nei decenni successivi: l’Hammond B3 e l’Hammond C3. L'unica distinzione è nell’aspetto estetico: gambe di legno tornito per il B3, cassa chiusa per il C3. Una gustosa raccolta di testimonianze di questa epoca è rappresentata dalla compilation "Hammond – The Golden Age Of The Hammond Organ 1944-1956", del 2008.

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Sono soprattutto gli aspetti dinamici a rendere il sound dell’Hammond così accattivante. Jazzisti e bluesmen sono fra i primi a sviluppare una brillante intuizione: un difetto di progettazione, che fa sì che la pressione dei tasti sia accompagnata da un distinto e indesiderato clic, poteva essere sfruttato per conferire all’attacco del suono un carattere marcatamente percussivo. Negli stessi circuiti, si diffonde l’abitudine di inviare il segnale in uscita dagli Hammond agli altoparlanti rotanti prodotti dalla californiana Leslie, che sfruttando l’effetto Doppler generano un caratteristico vibrato.
Il suono “soffioso” e tremolante generato dal combo col Leslie diventa il signature sound dell’Hammond B3 d Jimmy Smith (ancora oggi, il più ricordato organista in ambito jazz) e successivamente dello strumento stesso. Niente Leslie, invece, in una delle performance di Hammond più celebri rimaste nella memoria collettiva: “Green Onions”, del ’62, incisa su un Hammond M3 dal quartetto Booker T. and the M.G.’s, per l’oggi leggendaria etichetta Southern soul Stax Records. Coi gabbiani elettromeccanici di “Ebb Tide”, infine, una traccia delle altre sperimentazioni sonore che vengono condotte in quegli anni.

Ethel Smith — Tico Tico (dal film "Bathing Beauty", 1944)
Earl Grant – Ebb Tide (1961)
Booker T and the MGs – Green Onions (1962)

Jimmy Smith – The Cat (1964)

Alla conquista del pop

Col procedere dei Sixties, l’organo Hammond viene adottato prima episodicamente e poi stabilmente da un numero crescente di formazioni pop e rock. A ridosso dell’epoca psichedelica, sono sempre di più le band che includono in pianta stabile un tastierista, con lo scopo specifico di impiegare l’organo per l’accompagnamento dei loro pezzi. Il prezzo dello strumento continua a non essere propriamente abbordabile, e dunque sono in molti a orientarsi su alternative di tipo diverso come gli organi a transistor (protagonisti della prossima puntata di "Tasti bianchi e tasti neri"): per gli artisti affermati o che avessero a disposizione studi di registrazione ben equipaggiati, tuttavia, registrare qualcosa con l’Hammond diventa pressoché un must. Non sempre gli usi sono i più canonici: “Time Of The Season” degli Zombies ha due assoli sovraincisi del tastierista Rod Argent, e in “Paint It, Black” l’Hammond (per la precisione la sua pedaliera) è impiegata per suonare la parte di basso!

The Beach Boys – Fun, Fun, Fun (1964)
Bob Dylan – Like A Rolling Stone (1965)
The Rolling Stones – Paint It, Black (1966)

The Zombies – Time Of the Season (1968)
Lucio Battisti – Un’avventura (1969)

Le sorti dell’Hammond si legano soprattutto a due chiavi espressive: da un lato il tono solenne, sognante, chiesastico, perfetto per struggimenti e rivisitazioni classicheggianti; dall’altro, il versante più energico e percussivo, che alimenta sequenze impetuose e a tratti inebrianti. A rappresentare la prima connotazione, tra i più simbolici ci sono i bachiani Procol Harum e i greci Aphrodite’s Child, in cui militavano i giovani Vangelis e Demis Roussos. Fra i seguaci del sound fiammeggiante, oltre a svariati esponenti della Woodstock Nation, è da ricordare soprattutto il britannico Brian Auger, che con i suoi torrenziali fraseggi blues iniziò ad aprire le vie che sarebbero state esplorate a fondo dal progressive rock degli anni successivi.

Procol Harum – A Whiter Shade Of Pale (1967)
Brian Auger – Red Beans And Rice (1967)
Al Kooper – Stop (1968)
Aphrodite’s Child – It’s Five O’Clock (1968)
Santana – Soul Sacrifice [live @ Woodstock] (1969)

La nuova voce del rock

A congiungere le due impostazioni predominanti nei tardi anni Sessanta provvede il funambolico Keith Emerson, tastierista prima dei Nice e poi degli Emerson, Lake & Palmer. È soprattutto con la prima formazione che mette a punto il suo approccio incendiario all’Hammond: passaggi strabordanti e rapidissimi, che ricalcano l’ardimento della musica sinfonica ma la combinano a una veemenza tipicamente rock - e a un rapporto con lo strumento che sconfina nel carnale. La devozione maniacale alla tastiera e il gusto insopprimibile per la grandeur daranno i loro frutti più esaltanti dopo l’incontro tra Emerson e il sintetizzatore, all’inizio dell’avventura degli Elp. Già ai tempi di “America”, rilettura a base di feedback e pugnalamenti di Bernstein e Dvořák, il pubblico aveva tuttavia avuto modo di spaccarsi tra scandalizzati ed estasiati.
Molti altri artisti, a cavallo tra hard rock e prog, ricercano una fusione di classicità e ardore. Tra questi, Jon Lord dei Deep Purple è ricordato per la sua sintesi particolarmente aggressiva. Fra le vie esplorate dalle formazioni meno in vista, una delle più efficaci è invece orientata ad atmosfere cupe, grevi e a tratti orrorifiche, oggi associate soprattutto al cosiddetto dark-prog esemplificato da Atomic Rooster, Black Widow, Monument.

The Nice – America (1968)
Atomic Rooster – Seven Lonely Streets (1970)
Black Widow – In Ancient Days (1970)
Deep Purple – Fireball (1971)
Monument – Dog Man (1971)

Nel corso degli anni Settanta, l’Hammond conserva una posizione centrale, via via intaccata tuttavia dai cambiamenti del gusto e - soprattutto - dalla sempre maggiore diffusione dei sintetizzatori. Su questi, l'organo avrà ancora fino a metà decennio un importante vantaggio competitivo: a differenza dei primi synth, si tratta di uno strumento polifonico. Potedo emettere più note alla volta, si presta alla creazione di tappeti sonori meglio dei vari Moog, Arp e similari, e conserverà dunque una sua nicchia di impiego per la realizzazione di sound particolarmente avvolgenti e stratificati. Sia come sia, nel corso della decade l'organo diventa non più il suono tastieristico del rock, ma uno dei tanti possibili, ed eventualmente sovrapponibili per creare atmosfere particolarmente ricche ed evocative. L'accumulazione è acustica ma anche fisica: è l’epoca dei rig di tastiere, pile di strumenti elettrici ed elettronici che circondano durante i concerti i tastieristi, costretti ad acrobazie e contorsionismi notevoli per suonarne più d’una contemporaneamente, o per passare dall’una all’altra in rapida sequenza.
La spinta verso nuove sonorità porta anche a tentare combinazioni sonore non standard, filtrando il segnale in uscita dall’organo con effetti pensati per basso o chitarra. Si trova così, nella lunga sezione concusiva di “Winter Wine” e in molti altri episodi della scena di Canterbury, un sound di Hammond decisamente trasfigurato dal fuzz. Cosa di preciso accada invece nell’assolo di “Punk Sandwich” dei Dixie Dregs non è dato saperlo: qualche fan scommette sull’utilizzo di un pedale wah-wah, ma l’effetto fa pensare anche al passaggio dell’output dell’organo attraverso un synth modulare.

Caravan – Winter Wine (1971)
Todd Rundgren – Tic Tic Tic, It Wears Off (1973)
Premiata Forneria Marconi – Celebrarion [live] (1974)
Tower of Power – What It’s Hip? [live @ Chicago Sunstage] (1977)
Dixie Dregs – Punk Sandwich (1979)

Morte e rinascita

Nel 1975 la Hammond Organ Company dismette la produzione dei modelli a ruote foniche per passare unicamente alla tecnologia dei transistor. La scelta è probabilmente dettata dalla crescente concorrenza di altri strumenti: i sintetizzatori, senz’altro, ma anche l’ormai vasto assortimento di imitazioni a basso costo (clonewheel organs) che diversi artisti esordienti preferiscono ai dispensiosi B3 e C3, per comprensibili ragioni di tasche. I nuovi modelli non hanno la stessa grana sonora di quelli classici, e l'azienda attraversa un decennio abbondante di traversie economiche finché nel 1989 l’eredità viene raccolta dalla giapponese Suzuki, che rileva nome e brevetti.
D’altra parte, new wave e generi figli della disco music non sanno bene che farsene del sound corposo dell’Hammond, che sempre più spesso è lasciato da parte in luogo dei più versatili e sgargianti sintetizzatori (prima analogici e poi digitali). Già negli Eighties e poi sempre più negli anni Novanta e nel nuovo millennio, tuttavia, il suono Hammond viene rispolverato da artisti in cerca di inflessioni retrò. In qualche caso la rievocazione è esplicita: accade senz’altro nelle prosecuzioni mainstream del classic rock e nella nicchia neo progressive, ma anche in formazioni di stampo funky come Vulfpeck e Chicano Batman (questi ultimi ideatori talvolta di sonorità piuttosto creative). Altre volte, i rimandi sono più subliminali. Il timbro pastoso dell’Hammond, assieme alla sua connotazione inevitabilmente nostalgica, è infatti perfetto per le venature chiaroscurali e i momenti emotivamente più toccanti. Quello dell’Hammond è ancora oggi un sound percepito come “vero”, capace di infondere al tempo stesso radiosità e malinconia, eleganza ed energia.
Lo status ormai consolidato di evergreen spinge la Hammond-Suzuki a mettere in commercio nuovi modelli, concepiti per massimizzare la fedeltà al suono originale. I primi ad arrivare sono cloni digitali per l’utilizzo dal vivo: nel video dei Toploader si scorge un esemplare di XB-1, introdotto nel 1998. Nel 2003 fa invece il suo esordio il B-3 MK2, sempre digitale ma estremamente fedele all’originale sia nell’aspetto estetico che nel suono grazie alla tecnica della "modellazione fisica" - ovvero alla replica algoritmica - del meccanismo a tonewheel. Ne volete uno? Sta sui ventimila dollari…!

Dire Straits – Walk Of Life [live] (1991/92)
Portishead – Numb (1994)
Toploader – Dancing in the Moonlight [live @ Glastonbury] (2000) 
Änglagård – Jordrok [live] (2015)
Chicano Batman – Friendship (Is a Small boat in a Storm) (2016)

Per i più interessati agli aspetti tecnici, infine, si consiglia uno sguardo alle performance di John Medeseki, visto dai fan dello strumento come uno dei suoi conoscitori più esperti. Al minuto 2:30 del video sotto riportato si può percepire l’effetto del cambio di configurazione delle drawbar, mentre a 4:50 si assiste all’attivazione della rotazione sul Leslie, poi lasciata rallentare a partire da 5:06.

John Medeski’s Mad Skillet [live @ New Orleans] (2016)

 

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