Rolling Stones - Paint It, Black
(1966 - Inclusa nell'edizione Usa dell'album "Aftermath", Abikco, 1966)
La luce dei roghi nella notte del Vietnam, i marines che marciano tra le macerie, intonando in coro “Mickey Mouse Club”, mentre la voce narrante di Joker chiosa: “Sono in un mondo di merda, sì, ma sono vivo. E non ho paura”. Buio. E quegli stranianti accordi di sitar ad anticipare i titoli di coda, che scorrono in bianco e nero sulla voce di Mick Jagger. In tanti, “Paint It, Black”, l’hanno conosciuta così, in quel finale di raggelante rassegnazione di “Full Metal Jacket”, ennesimo capolavoro di mastro Kubrick, datato 1987. E tanto potente è stato quel connubio da far sì che il singolo pubblicato dai Rolling Stones più di vent’anni prima finisse col diventare una delle canzoni-simbolo sulla guerra in Vietnam, accompagnando anche innumerevoli programmi televisivi (e persino videogame) sull’argomento. Eppure, con il conflitto che ha lacerato la generazione 60’s, non ci sono apparenti legami. Se non, forse, nelle sonorità orientaleggianti e nella esplorazione di quel cuore di tenebra che, da Conrad fino ad “Apocalypse Now”, finisce inevitabilmente con l’associarsi agli orrori della guerra e del colonialismo. Ma niente di tutto ciò era nella mente dei giovani Stones, che la primavera del 1966 fotografa intenti a emanciparsi dalla formula cover più inediti, per mettere a punto, finalmente, un disco composto solo da canzoni loro. "Paint It, Black" è una di queste. Accreditata all’accoppiata Jagger/Richards, è in realtà un parto collettivo dell’intera band, come ricorderà Bill Wyman. Decisivo, in particolare, l’apporto di Brian Jones che partecipa alla creazione del riff e, da autodidatta, suona quell’indimenticabile sitar, regalandoci forse il più efficace utilizzo dello strumento indiano in una canzone rock. Ma la casualità, come spesso accade nei capolavori, gioca un ruolo altrettanto determinante. Sempre se di casualità si può parlare al cospetto di una band in palla come gli Stones del periodo, capaci di trasformare in oro anche la più estemporanea delle improvvisazioni.
Fatto sta che l’embrione di "Paint It, Black" è un numero funky-soul decisamente più rilassato e convenzionale. C’è bisogno di un po’ di sano cazzeggio per farlo deflagrare. Ci pensa Wyman, improvvisando all’organo una parodia del loro co-manager Eric Easton, che da giovane faceva l'organista in un piccolo cinema. Sarebbe potuto finire tutto lì. E invece no, perché il segreto di una vera band è l’affiatamento. Così gli vanno dietro tutti. Charlie Watts sfodera un doppio tempo di batteria che riecheggia le danze mediorientali. È il contrappunto ritmico perfetto per il canto di Jagger, un’ode di morte e disperazione in forma di requiem per l’amata scomparsa. Poi, quel battito pellerossa si trasforma in un irresistibile ritmo hard-rock per accompagnare il ritornello: uno stramaledetto hook alla Stones, di quelli che tolgono il fiato per la forza innata della loro semplicità. E poi quel sitar, scoperto dal gruppo durante un viaggio alla Fiji. In mano a Jones, lo strumento mistico per definizione si fa oscuro, dannato, inquietante. Ricama incessante, lacera a colpi di twang il tessuto della canzone, le inietta una limpida fiammella di follia, acuita da un testo torbidamente nichilista: “I see a red door and I want it painted black/ No colors anymore I want them to turn black/ I see the girls walk by dressed in their summer clothes/ I have to turn my head until my darkness goes” (con tanto di citazione dall’Ulisse di Joyce in quest’ultimo verso). La porta rossa è il cuore del protagonista, che si spegne nell'oscurità, incapace di accettare la perdita dell’amata ("Maybe then I'll fade away and not have to face the facts"), immaginata ancora tra le ragazze in abiti estivi, prima che lo sguardo cada sul corteo funebre di auto nere e sui fiori per la sepoltura ("I see a line of cars and they're all painted black/ With flowers and my love, both never to come back").
L’atmosfera si fa claustrofobica, il ritmo ossessivo (il basso sarà poi aggiunto da Wyman con l'overdubbing usando il pedale del basso di un organo Hammond B3). Un crescendo ormai inarrestabile, con il pianoforte di Jack Nitzsche a dar man forte, quei coretti a bocca chiusa tutt’altro che rassicuranti e Jagger che fa esplodere ancora la sua rabbia, invocando l’eclissi totale e definitiva: “I want to see the sun blotted out from the sky”. Raramente, nella storia del rock, ci si era spinti fino a tali abissi di disperazione. Ma per chi un paio d’anni dopo avrebbe flirtato direttamente con Sua Maestà Satanica (“Sympathy For The Devil”, 1968), in fondo, quel baratro nero pece non era che l’inizio di una lunga discesa agli inferi.
L’inquietudine giovanile aveva trovato il suo nuovo inno, con quel tocco esotico così in voga all’epoca, ma al tempo stesso in grado di emancipare gli Stones dai dogmi del blues-rock. Il cuore di tenebra diveniva “necessaria condizione umana da accettare passivamente, ma anche attiva scelta della volontà (di potenza?), libera presa di posizione contro il perbenismo borghese degli adulti” – come ipotizza Cristian Degano nella recensione di “Aftermath”, l’album dal quale “Paint It, Black” sarà estratta come primo singolo, ma solo nell'edizione americana, dove andava a sostituire l’iniziale “Mother’s Little Helper”, sgradita per le sue allusioni alle droghe. Più pragmaticamente, i britannici conserveranno quell’altro gioiello nella tracklist, facendo poi uscire “Paint It, Black” come 45 giri. Ma il successo del brano si rinnoverà negli anni, anche grazie all'imponente sfilza di cover di cui, nella colonna a fianco, segnaliamo le più rappresentative.
Curiosa anche la vicenda di quella virgola, finita a inframezzare le parole "It" e "Black": venne apposta (per errore?) dalla casa discografica al momento della stampa. Aggiunta non gradita da Richards, che temeva eventuali implicazioni razziste: “Dipingilo, nero”, in effetti, poteva suonare un po’ sinistro, specie in quegli anni di forti tensioni razziali. E così nelle successive edizioni la virgola sarà rimossa.
Fatto sta che, a dispetto delle virgole e delle cervellotiche strategie dei discografici, “Paint, It Black” si rivelerà proprio ciò che Melody Maker aveva profetizzato il giorno della sua uscita: “Un glorioso raga-riot indiano che riporterà gli Stones al numero uno delle classifiche”. Missione compiuta, su entrambe le sponde dell’Atlantico (Usa, Canada, Uk e finanche Olanda).
A volte, perfino le riviste musicali ci prendono.
I see a red door and I want it painted black
No colors anymore, I want them to turn black
I see the girls walk by dressed in their summer clothes
I have to turn my head until my darkness goes
I see a line of cars and they're all painted black
With flowers and my love, both never to come back
I see people turn their heads and quickly look away
Like a newborn baby it just happens everyday
I look inside myself and see my heart is black
I see my red door and I must have it painted black
Maybe then I'll fade away and not have to face the facts
It's not easy facing up when your whole world is black
No more will my green sea go turn a deeper blue
I could not foresee this thing happening to you
If I look hard enough into the setting sun
My love will laugh with me before the morning comes
I see a red door and I want it painted black
No colors anymore I want them to turn black
I see the girls walk by dressed in their summer clothes
I have to turn my head until my darkness goes
I want to see it painted black, black as night, black as coal
Don't want to see the sun, blotted out form the sky
I want to see it painted, painted, painted, painted black, yeah
Edita da London Records
Pubblicazione: 7 maggio 1966
Durata: 3:45
Musicisti:
Mick Jagger: lead vocals
Brian Jones: sitar, percussion
Keith Richards: electric guitar, acoustic guitar, backing vocals
Bill Wyman: bass pedals, bass guitar, Hammond B3
Charlie Watts: drums
Jack Nitzsche: piano
Cover
Caterina Caselli - Tutto nero
(1966)
Marie Laforêt - "Marie-douceur, Marie-colère"
(1966)
Eric Burdon & The Animals
(dall'album "Winds Of Change", 1967)
Eric Burdon & The Animals
(live al Monterey Festival, 1967)
Chris Farlowe
(1968)
Eric Burdon & War
(live, 1970)
Flamin' Groovies
(dall'album "Flamin' Groovies Now", 1978)
The Feelies
(da "Crazy Rhythms", 1980)
Mo-Dettes
(7" single, 1980)
U2
(B-Side del singolo "Who's Gonna Ride Your Wild Horses", 1992)
Avengers
(dall'album "Avengers", 1983)
Keba - "U crno obojeno" (in serbo)
(dall'album "Sve ću tuge poneti sa sobom", 1994)
The Residents
(dall'album "Dot.Com.", 2000)
Vanessa Carlton
(dall'album "Be Not Nobody", 2002)
Firewater
(dalla compilation "Songs We Should Have Written", 2004)
Ministry
(dalla compilation "Every Day Is Halloween: The Anthology", 2010)
Supercute!
(2011)
Brittany Marie
(2015)
Sito ufficiale dei Rolling Stones |