Non è sempre semplice risalire all’origine (geografica e non solo) di un genere musicale: se si può affermare senza alcun dubbio che il rock’n’roll sia un fenomeno nato negli Usa e con minor certezza ma relativa sicurezza lo stesso si può dire del punk, grazie al tempismo dei Ramones sui colleghi inglesi (senza dimenticare il proto-punk di Stooges e New York Dolls), per quanto riguarda la psichedelia le cose si fanno più complicate. Fin dagli inizi dei Sixties le influenze reciproche tra le due sponde dell’Atlantico sono state complesse e colme di rimandi da ambo le parti, tanto che il beat inglese dei Beatles prendeva inizialmente l’abbrivio dal rock degli anni 50 mescolato alle armonie degli Everly Brothers e ai ganci melodici dei girl group, tutti elementi americani rielaborati attraverso la lente armonica della tradizione europea in uno stile comunque freschissimo e innovativo, mentre gli stessi Rolling Stones affondavano nelle radici del blues (e rhythm’n’blues) di marca Usa riuscendo comunque a connotarlo in una nuova versione personale e l’orgoglio British veniva raffigurato dall’iconica union jack, vessillo sfoggiato spesso dagli Who.
Nel 1964 le band nominate (a cui aggiungeremmo almeno i Kinks) e decine d’altre vennero esportate negli Stati Uniti con il fenomeno della cosiddetta British invasion che influenzò importanti gruppi più (Byrds) o meno (Beau Brummels) conosciuti e diede inoltre origine al genere garage-rock con migliaia di ragazzi americani (all’epoca si stima oltre il 60 percento dei teenager!) pronti a emulare le gesta dei gruppi British beat appunto nei garage di casa, irrobustendone e sporcandone la formula in una miscela eccitante, grezza e aggressiva, con l’uso di suoni distorti (in particolare il pedale fuzz) proto-lo-fi e un approccio approssimativo proto-punk all’interno di un fenomeno di massa (almeno a livello numerico) e al contempo underground con rade emersioni in ambito dei 45 giri, molti dei quali raccolti in leggendarie antologie postume come “Nuggets”. E proprio il garage-rock con tutte le differenze del caso è stato spesso accostato alla psichedelia tanto che il connubio garage-psych ha segnato la storia del rock, dagli Electric Prunes fino a Ty Segall e non è un caso che il termine “psychedelic” venne usato tra le primissime volte nel titolo di un album da una band d’indole garage come i Blues Magoos in “Psychedelic Lollypop” nel 1966.
È proprio a partire dall’inizio del secondo lustro dei Sixties che i tempi iniziarono a cambiare, in modo ancor più accelerato (il sempre lungimirante Dylan l’aveva intuito con almeno un paio d’anni d’anticipo): orde di giovani infiammati dalla letteratura beat e dall’uso delle sostanze psicotrope si opponevano a una realtà oppressiva nella quale non si riconoscevano, cercando di cambiarla con atti di disobbedienza civile e proteste più o meno violente che deflagrarono nei tumulti del ’68, creando ambiti sociali alternativi con le comuni hippie oppure semplicemente rifugiandosi in mondi immaginari con l’utilizzo delle droghe leggere e dell’Lsd in voga all’epoca, stupefacenti che andavano a sostituire le anfetamine assunte dai mod per ballare durante i weekend nei club o gli stimolanti di cui abusavano artisti celebri (come ad esempio Johnny Cash) per resistere a tour massacranti. Le droghe allucinogene ebbero un ruolo non marginale per la psichedelia in quanto utilizzate proprio per “svelare la coscienza” (questa l’etimologia del termine) e per espanderla sviluppando la creatività in ambito artistico, insieme all’approfondimento delle filosofie orientali e delle tecniche meditative per la crescita spirituale e interiore.
Tali fermenti socio-culturali non tardarono a tracimare nell’ambito musicale alterandone il linguaggio e primi germogli del pop e del rock psichedelico sbocciarono nel 1966: negli Stati Uniti con i Byrds che volavano alti otto miglia su “5th Dimension”, con l’esordio dei Jefferson Airplane e soprattutto con “The Psychedelic Sounds of the 13th Floor Elevators”, in cui la band di Roky Erickson alternava sventagliate garage a brani visionari e allucinogeni, mentre in Gran Bretagna il germe psych attecchì tanto in contesti underground con il fenomeno freakbeat (un’evoluzione acida e barocca del beat originario) tipico di band non troppo conosciute tra cui i Creation, quanto in quello dei più grandi e celebri gruppi, su tutti i Beatles dell’Lp “Revolver”, che conteneva l’avanguardistica “Tomorrow Never Knows” (oltre che altri pezzi lisergici firmati John Lennon), sempre in ambito beat gli Who di “Sell Out”, in ambito folk il Donovan di “Sunshine Superman” e in quello blues i Cream di “Fresh Cream”.
Dunque il (pop-) rock psichedelico inglese e quello americano nacquero nello stesso periodo ma fin dall’inizio assumeranno forme stilistiche differenti che divergeranno ulteriormente nel loro sviluppo successivo.
Il momento dell’affermazione definitiva del fenomeno avvenne nell’anno di grazia 1967, data centrale della storia del rock nella quale, per limitarci agli Stati Uniti, esordirono Jimi Hendrix, Doors, Velvet Underground e (con minor impatto) i Grateful Dead, mentre i Jefferson Airplane pubblicavano “Surrealistic Pillow” e “After Bathing At Baxter's”, due tra i loro migliori album. Se per i primi tre seminali nomi citati andrebbe fatto un discorso a parte in virtù di uno stile personale e comunque per motivi diversi (tra cui la morte di alcuni dei protagonisti) esaurirono più precocemente la loro arte, furono gli ultimi due gruppi nominati, entrambi attivi nel polo di San Francisco (insieme ai Quicksilver Messenger Service), a portare avanti la fiaccola psichedelica, i Jefferson Airplane con derive politiche rivoluzionarie e i Grateful Dead dilatando la formula sonora con fluviali improvvisazioni e jam session che sonorizzava i loro trip confluendo nel cosiddetto acid rock. Era musica figlia del proprio tempo, nei contenuti sovversivi acuiti da un contesto dilaniato dalle morte dei due Kennedy e dalla guerra in Vietnam che diventava di anno in anno sempre più inaccettabile, figlia dei grandi spazi americani attraverso cui fluivano le infinite note delle suite più estese, figlie della storia di uno stato rivolto fin dagli albori verso la conquista di nuove distanze e della libertà, ideale spesso tradito dietro un’ipocrita facciata.

Anche in Inghilterra è il 1967 l’anno chiave del genere con l’esplosione definitiva del fenomeno avvenuta durante la summer of love grazie all’uscita di “Stg. Pepper’s Lonley Hearts Club Band” dei Beatles (1° giugno) e “The Piper At The Gates Of Dawn”, l’album d’esordio dei Pink Floyd (5 agosto) registrati entrambi nelle stesse settimane negli Abbey Road Studio della Emi con le due band a spiarsi e influenzarsi reciprocamente. Se “Stg. Pepper's” fu un vero e proprio evento culturale, disco dell’ennesima consacrazione dei Fab Four, prodotto psichedelico ma fondamentalmente pop per quanto avveniristico, frutto del grande lavoro in studio del “quinto Beatle”, ovvero il produttore George Martin, oltre che dell’estro di una band in stato di grazia e ai massimi livelli di creatività, l’esordio della band capitanata da Syd Barrett, dopo i primi singoli squisitamente psych-pop, iniziava a esplorare zone sconosciute attraverso derive interstellari e sperimentazioni sonore ancor più ardite che ne facevano un altro caposaldo della psichedelia britannica, a comporre la trilogia maggiore del genere targato Uk con la psych-opera “S.F. Sorrow” dei Pretty Things uscita però l’anno successivo.
Il capolavoro dei Beatles consacrò il fenomeno psichedelico a livelli di massa, buona parte della quale all’oscuro, almeno all’epoca, dei riferimenti lisergici (l’acronimo Lsd, allusione pur smentita dagli autori in “Lucy In The Sky With Diamonds”) e spirituali - esoterici con una copertina che inseriva tra i vari personaggi figure di spicco della mistica orientale come Yogananda e al contempo l’oscuro occultista Aleister Crowley, ma al di là dei contenuti più o meno velati, attraverso uno stile creativo e fruibile fece da traino per altre band importanti all’epoca distanti dal mondo psichedelico come i Rolling Stones, in parte nel sottovalutato “Between The Buttons” (tra gli album preferiti da Syd Barrett all’epoca) e soprattutto nel confuso “Their Satanic Majesties Request”, il loro anti-“Stg.Pepper's”, o gli Animals nell’ottima celebrazione della scena titolata “Winds Of Change” (a nome Eric Burdon And The Animals).
Nel frattempo a Londra parallelamente nasceva una scena underground sostenuta da storiche riviste come International Times e mitici locali come l’Ufo Club (situato in Tottenham Court Road), scena guidata dagli esordienti Pink Floyd, all’epoca lontani dal ruolo di istituzione del rock che avrebbero ricoperto in seguito, insieme a band come i primi Soft Machine e i meno conosciuti Tomorrow a rappresentare un’alternativa acida e carbonara alla più patinata Swinging London, con un seguito di giovani abbigliati in modo stravagante a presenziare alterati dalle droghe psichedeliche a happening acidi e concerti memorabili che vedevano tra gli spettatori celebrità come Paul McCartney e Brian Jones. In realtà, questa scena sotterranea a livello discografico rappresentò la punta dell’iceberg di un sottobosco alternativo che diede vita a un florilegio di produzioni di ampiezza inusitata, raramente intercettate dal pubblico e spesso riesumate da pubblicazioni postume.
È proprio da questo ambito sommerso che abbiamo prevalentemente pescato per questa lista (ovviamente non esaustiva) dei dieci tra i migliori album ascrivibili al genere pop psichedelico inglese (più o meno underground) degli anni 60, tralasciando la psichedelia ad ampio raggio dell’esordio dei Pink Floyd e quella patafisica dei primi due lavori dei Soft Machine, mantenendoci all’interno del perimetro pop legato alla forma canzone, dove la scrittura e l’elaborazione di quest’ultima ha raggiunto livelli di creatività e fantasia ormai lontana dai semplici motivetti Mersybeat grazie a nuove sonorità e arrangiamenti, trucchi da studio e manipolazioni visionarie e avveniristiche, tali da fondare un vero e proprio (sotto)genere che ebbe massimo fulgore nella seconda metà degli anni 60 per poi spegnersi a fine decennio per venir spazzato via da hard-rock, progressive e glam.
Per rimanere in un ambito “sotterraneo” sono stati esclusi dalla lista i vari album citati in questa introduzione in quanto prodotti da band molto conosciute (uniche eccezioni gli Hollies, meno seguiti in Italia che in patria, e gli “insospettabili” Bee Gees) comunque ampiamente trattati in altri contesti per lasciare spazio a gruppi misconosciuti, spesso fuori anche dall’ambito della controcultura e del giro Ufo Club (tranne i Tomorrow), che ebbero carriere brevi e sfortunate con all’attivo uno o due dischi, nonostante la qualità della proposta che li rende non solo materiale per collezionisti e completisti ma tesori perduti da riscoprire per gli amanti di queste sonorità che nacquero in quei frangenti e in essi brillarono di massimo fulgore, pur lasciando tracce successivamente, tanto nel recupero neopsichedelico del Paisley Underground (soprattutto Rain Parade e Plasticland) degli anni 80, quanto in quello di artisti contemporanei come i primi Tame Impala, i britannici Temples o i più recenti e sottovalutati Electric Looking Glass o The Striped Bananas (e molti altri, un elenco completo sarebbe chilometrico).
Abbiamo infine aggiunto come addendum una raccolta dei primi singoli dei Pink Floyd, non inseriti negli album ufficiali, che rappresentano al pari della produzione coeva dei Beatles lo zenit del pop psichedelico, genere durato poco più di un paio di stagioni ma che con il suo fascino surreale e raffinato si è guadagnato una porzione di eternità nella storia della musica pop e rock.
1967
Blossom Toes - “We Are Ever So Clean”

Le due componenti si compenetrano in un album pervaso da classe sopraffina, tra le vignette alla Kinks deformate da armonie alterate (“Telegram Tuesday”) la cui ironia sfocia perfino in derive demenziali alla Bonzo Band (“The Remarkable Saga Of The Frozen Dog”) pur senza disdegnare ballad più canoniche dal gusto classicheggiante (“Love Is” e “What’s It For”) con orchestrazioni degne di Burt Bacharach. Nella traccia finale “Track For Speedy Freaks” vengono ri-assemblati come in uno specchio deformante frammenti delle canzoni dell’album che rimane uno dei più riusciti capolavori del genere.
Kaleidoscope - “Tangerine Dream”

Creation - “We Are Paintermen”

Come i Beatles transitarono in Germania, ma con un destino alquanto diverso: qui registrarono per problemi con la casa discografica il loro unico album (raggiunsero anche la top ten tedesca con il già citato singolo “Painter Man”!) e invece di conquistare il mondo, ebbero problemi a emergere anche nella perfida Albione per poi sfaldarsi nonostante il loro indubbio valore, lasciando l’amaro in bocca in una carriera artistica e commerciale a dir poco sfortunata.
Bee Gees - “Bee Gees First”

Hollies - “Butterfly”

1968
Nirvana - “All Of Us”

Se il concept surreale riconduceva il gruppo alla nascente psichedelia, il sound opulento e barocco rimandava piuttosto a un pop orchestrale (fin troppo?) elegante. L’ispirazione artistica dei Nirvana trovò compimento con il successivo “All Of Us” che aumentava le ambizioni del debutto ampliando le suggestioni baroque-pop stile primi Bee Gees con un gusto proto-prog sinfonico alla Procol Harum, la cui “A Whiter Shade Of Pale” non lasciò certo indifferente la band che si cimentava perfino in strumentali cinematici di gusto morriconiano (“The Show Must Go On”). A ricondurre i Nirvana in ambito psych-pop sono brani degni dei Blossom Toes come “Girl In The Park”, “Miami Masquerade”, “Frankie The Great” e “Everybody Loves The Clown”, zuccherini appena bagnati da una stilla di Lsd, quel tanto che basta alla creazione e deformazione di armonie insolite e acidule, senza dimenticare il phaser chitarristico dell’iniziale “Rainbow Chaser”, unico successo a 45 giri di una band ingiustamente dimenticata.
Tomorrow - “Tomorrow”

A rendere unico e completo l’album sono le tracce visionarie della west coast di “Hallucination” e una vena politica, per quanto generica e ingenua, presente nei primi singoli. Nonostante tanto ben di Dio, il ritardo dell’uscita dell’album, pubblicato solo nel 1968, e lo scarso successo, unito alle fratture interne al gruppo, portarono allo scioglimento dello stesso relegandolo a un parziale e immeritato oblio. A completare la formazione era il batterista Twink, poi transitato nei Pretty Things, Pink Faires, Stars (fantomatico progetto con Syd Barrett durato meno di un mese tra gennaio e febbraio del 1972) e protagonista di un disco solista non inserito in lista, in quanto caratterizzato da uno stile sperimentale che trascendeva il pop.
July - “July”

Raddoppia l’effetto psicotropo l’altro 45 giri giustapposto in scaletta “Dandelion Seeds”, ora grazie a scansioni ritmiche creative e chitarre non più liquide e a tratti addirittura infuocate; mentre le ludiche “Jolly Mary” e “Hallo To Me” aggiornano il canzoniere beat all’epoca di Kaleidoscope e Blossom Toes, mantenendo gli stessi standard qualitativi. Ad arricchire il sound compare una vena quasi etnica, frutto di svariati viaggi in Marocco, evidente nei suoni di “In The Way” con l’ausilio di tablas e congas ad accompagnare armonie di gusto mediorientale. L’intro percussiva di “You Miss It All’’ è invece solo un depistaggio che precede bordate acide à-la “S.F. Sorrow”. La capacità di coniugare chitarre deformate e percussioni etniche, melodie allucinate e strutture tradizionalmente pop con una ispirazione continua e senza cedimenti rende l’esordio omonimo dei July uno dei migliori lasciti della psichedelia britannica, oltre che un pezzo di culto per i collezionisti. Purtroppo la band, proprio come i Tomorrow si sciolse poco dopo l’uscita dell’album, con ancor meno clamore e maggior indifferenza del pubblico.
1969
Apple - “An Apple A Day”

Open Mind

Se la loro matrice psichedelica emergeva anche da un immaginario lisergico (il singolo “Magic Potion”, dal titolo allusivo) e dagli acidi guizzi strumentali, i fili con la tradizione britannica sono annodati saldamente da un gusto melodico che innerva l’intero lavoro e si sublima in coretti beat o refrain epici (“Horses And Chariots”). Come per le band precedenti, anche per gli Open Mind il tempismo non fu certo il loro forte, cosa ancor più vera nel loro caso: due anni di ritardo (all’epoca un’enormità di tempo) e un sound ancor più passatista della media impedirono l’emersione dall’underground, relegando la band al culto più sotterraneo.
1970
Pink Floyd - “The Best Of Pink Floyd”

Ma è nei singoli citati che rifulgeva il loro carattere psych-pop, tra testi che rispettivamente discernevano di travestimenti compulsivi e fungevano da dediche a una fantomatica frequentatrice sballata dell’Ufo Club, attraverso aperture melodiche insolite e arrangiamenti lisergici, notevoli soprattutto quelli del tastierista Rick Wright. Oltre ai primi due 45 giri, vengono anche inseriti i due retro, il freakbeat di “Candy And The Currant Bun” (in origine “Let’s Roll Another One” titolo troppo esplicito dunque non accettabile all’epoca) e l’acquarello psych-folk “The Scarecrow” (presente nell’album d’esordio al pari di “Chapter 24” e “Mathilda Mother”), oltre all’altrimenti introvabile “Apples And Oranges”, l’ultimo singolo a firma di un Barrett sempre più allucinato e appannato, tra wah-wah acidi e intuizioni armoniche ancor più oblique e meno commerciabili. Era probabilmente l’inizio della fine del sodalizio tra il resto della band e il suo leader, ormai in evidente declino psichico, probabilmente a causa dell’abuso di Lsd, tanto che nel 1968 Syd lasciò definitivamente i Pink Floyd per una carriera solista breve (appena due album) seppur folgorante, a dimostrazione del suo tormentato ma indiscutibile genio.