Gli inglesi Kaleidoscope, da non confondere con i più famosi (almeno all'epoca) Kaleidoscope americani, pur possedendo tutte le carte in regola per sfondare, non sono mai riusciti a emergere sul serio, accarezzando soltanto il sogno del successo. Nella loro breve ma intensa carriera, i quattro componenti dei Kaleidoscope ne hanno passate di tutti i colori: sono stati boicottati dalle case discografiche, traditi da persone di fiducia e, più in generale, perseguitati da una cattiva sorte che non li ha mai abbandonati. A cominciare dalla scelta del nome: teoricamente azzeccatissimo, se non fosse che da lì a poco sarebbe emerso un altro gruppo, tra i più importanti della scena psichedelica californiana, chiamato Kaleidoscope. E, per uno strano scherzo del destino, il titolo scelto per il loro primo disco sarebbe diventato il nome di una celeberrima band tedesca.
Almeno il tempo, però, è stato benevolo con loro, trasformandoli in uno dei gruppi di culto per antonomasia. Tangerine Dream, il loro celebrato album d'esordio, era infatti divenuto uno degli Lp più ricercati dai collezionisti e aveva raggiunto quotazioni esorbitanti. In tempi recenti, il disco - tra i più venerati dell'intera era psichedelica - è stato ristampato diverse volte: ciò ha permesso ai Kaleidoscope di essere riscoperti da nuove schiere di ascoltatori, che ne hanno così alimentato il mito.
Quindi giustizia è stata (tardivamente) fatta? Soltanto fino a un certo punto, dal momento che gli altri tre lavori realizzati da Peter Daltrey & C. - il lisergico Faintly Blowing, il progressivo From Home To Home (pubblicato come Fairfield Parlour) e la rock-opera White Faced Lady (il capolavoro perduto del gruppo, uscito postumo) - non godono della stessa considerazione di Tangerine Dream, benché si mantengano sui medesimi altissimi livelli, conservando quel magico mix tra melodie beatlesiane, delicatezze barocche in stile Zombies, visioni colorate e infantili à la Donovan e stramberie barrettiane.
Il chitarrista Eddy Pumer e il batterista Danny Bridgman formano il loro primo gruppo, i Sidekicks, nel 1964, all'high school di Acton. Al neonato complesso si aggiungono il bassista (e poi anche flautista) Steve Clark e il diciottenne Peter Daltrey, che nel giro di poco tempo ne diventa il leader e il paroliere. Quest'ultimo ha studiato piano classico, ma non possiede una gran dimestichezza con gli strumenti rock; per questo motivo, si propone come cantante. I Sidekicks si esercitano nei club giovanili londinesi, suonando cover del repertorio di Bo Diddley, Chuck Berry, Muddy Waters, Beatles e Rolling Stones. I quattro, però, sono dei tipi ambiziosi, determinati a scrivere delle canzoni che vadano oltre gli stilemi del tradizionale rhythm'n'blues. Le loro primissime registrazioni, grazie al crescente interesse nei confronti della band, verranno pubblicate nel 2003, nel cofanetto The Sidekicks Sessions 1964-1967.
Dopo un apprendistato durato tre anni, il quartetto - che nel 1965 ha mutato il proprio nome in The Key - firma nel gennaio del 1967 un contratto annuale con la Fontana, che ne intuisce subito il potenziale melodico, testimoniato dal sostegno economico garantito. Sono anni di fermenti giovanili e cambiamenti epocali per la storia del rock, che avranno forti ripercussioni sulla musica e sull'attitudine della band londinese, che opta infine per un nuovo nome, questa volta definitivo: Kaleidoscope. Una scelta emblematica, perfetta nell'evocare il caleidoscopico sound di Daltrey e soci, in quel periodo letteralmente stregati da "Revolver", un disco che cambia il loro modo di percepire la musica. Fortemente influenzati anche dal songwriting di Donovan e dalle intuizioni dei primi Bee Gees, i Kaleidoscope abbracciano la psichedelia inglese, mostrando punti di contatto con altri gruppi emergenti della zona, come i Pink Floyd, i Blossom Toes e i Tomorrow.Il primo singolo del gruppo, dal forte sapore lisergico, è un'esplicita dichiarazione di intenti: "Flight From Ashiya", infatti, non ha più nulla da spartire con il canonico blues-rock proposto inizialmente. Il brano non riesce a entrare nella classifica britannica (paradossalmente, però, vende oltre un milione di copie nel mercato nipponico: i quattro lo scopriranno soltanto con diversi anni di ritardo), ma è tra più trasmessi dalle radio indipendenti inglesi. Tra gli estimatori della prima ora dei Kaleidoscope va segnalato un certo John Peel, che ritiene le loro canzoni inferiori soltanto a quelle dei Beatles.
Consapevoli delle loro qualità e della prolificità compositiva di Peter Daltrey ed Eddy Pumer, i Kaleidoscope immettono sul mercato altre piccole gemme di pop psichedelico come "A Dream For Julie" e "Jenny Artichoke", entrambe poi non inserite nell'album d'esordio. Anche in questo caso, tuttavia, nonostante vengano trasmesse di continuo in radio, le due canzoni non ottengono il successo sperato. I Kaleidoscope, in quel periodo, sono peraltro penalizzati dal fatto di non avere un manager: probabilmente proprio a causa di ciò, non riescono a suonare nei locali-simbolo della scena psichedelica londinese, come il Middle Earth e soprattutto l'Ufo.
Ma non è ancora giunto il momento di gettare la spugna e di scagliarsi contro la sorte avversa: i Kaleidoscope si presentano così fiduciosi in studio per registrare il loro primo disco, uno dei tanti tesori nascosti del 1967: Tangerine Dream. Un lavoro curato nei minimi dettagli (la strumentazione è ricca e varia e comprende anche clavicembali e campane), con una produzione impeccabile, che riesce ad ammaliare per la delicatezza e la tenerezza, quasi irreali, che caratterizzano i brani più leggeri (praticamente twee-pop ante litteram).
Canzoni adorabili come "Please Excuse My Face", "Mr. Small, The Watch Repairer Man" e "Dear Nellie Goodrich" sono contraddistinte da toni infantili e si integrano alla perfezione con la foto di copertina, che indugia sui volti fanciulleschi dei quattro musicisti e sulla loro immagine pulita da bravi ragazzi, calmi ed educati, benché vestiti secondo le stravaganze hippie tanto in voga. Non mancano, ovviamente, i momenti più sballati e tipicamente psichedelici, nei quali affiora prepotentemente tutta l'influenza esercitata sul gruppo da un personaggio come Syd Barrett. La tipica enfasi barrettiana viene infatti più volte riproposta in modo convincente, grazie soprattutto alla pronuncia - davvero simile - di Peter Daltrey."Relax your eyes, for after all/ We can but share these minutes". Tangerine Dream inizia così e quello dei Kaleidoscope sembra proprio essere un invito a rilassarsi per poter godere appieno tutte le sensazioni suscitate dalla loro proposta musicale - ora più morbida e delicata, ora più minacciosa e imprevedibile. Nell'eponimo brano di apertura preziose armonie vocali incorniciano una semplice e orecchiabile melodia, mentre il testo descrive il viavai del mondo visto attraverso un caleidoscopio. Il tema iniziale viene poi ripreso in "Dive Into Yesterday", forse il loro brano più noto oggi come oggi, nonché quello più sfacciatamente barrettiano, contraddistinto dal tremolio della chitarra, che sembra simulare il suono di un clacson. Tra gli episodi più psichedelici vi è poi senz'altro la già citata "Flight From Ashiya", la traccia più sperimentale dell'album, ispirata a "New York Mining Disaster 1941" dei Bee Gees. Altrettanto pregevole la successiva "The Murder Of Lewis Tollani", che parla di morte e - simbolicamente - si apre e si chiude con un inquietante battito cardiaco.
I Kaleidoscope sono anche degli eccellenti scrittori di ritornelli contagiosi, facili da memorizzare, come testimoniano "(Further Reflections) In The Room Of Percussion" (ancora con echi barrettiani) e la vacanziera "Holidaymaker", quest'ultimo - a metà fra Beach Boys e primi Beatles, con un esotico tocco messicano - l'episodio più pop e spensierato di tutto il disco. Anticipata da "A Lesson Perhaps", un poema medievale per solo accompagnamento acustico recitato da Peter Daltrey, giunge infine "The Sky Children", che conclude l'album nel migliore dei modi. Un racconto onirico, con chitarra a dodici corde e carillon tintinnanti, dalla durata di otto minuti, praticamente sempre uguali, con la stessa eterea melodia ripetuta all'infinito. Eppure il tempo sembra non scorrere mai e per l'ascoltatore la canzone potrebbe tranquillamente continuare in eterno. Non è un'esagerazione considerare "The Sky Children" uno degli apici raggiunti dalla musica pop negli anni 60.
Tutti i testi, poeticamente infantili, portano la firma del cantastorie Peter Daltrey, il quale - oltre a mettere in mostra la sua voce suadente - suona un po' di tutto: pianoforte, organo, Mellotron, clavicembalo. I protagonisti delle sue storie, fiabesche e immaginifiche, hanno nomi improbabili, che inevitabilmente rimandano a quell'Arnold Layne di floydiana memoria. Ma nelle liriche aleggia anche lo spettro di "Eleanor Rigby", perché i personaggi di canzoni come "Flight From Ashiya" e "Mr. Small, The Watch Repairer Man" (il riparatore di orologi del titolo è nientemeno che il padre del chitarrista) appaiono impotenti e vivono in un profondo stato di solitudine, che li porta irrimediabilmente alla morte. Gli arrangiamenti sofisticati sono invece opera di Eddy Pumer, l'altro cervello della band, che si alterna fra chitarre e tastiere.
Nel 1968 il gruppo parte per un tour europeo, che comprende anche una manciata di apparizioni televisive (le uniche reperibili oggi) in Francia e in Olanda. I Kaleidoscope dal vivo sono particolarmente creativi, anche a livello scenico e coreografico: giocano con le luci, lanciano bombe fumogene e petali di fiori sul pubblico e sono sempre accompagnati da graziose ragazze, tutte rigorosamente in minigonna, che durante i concerti recitano delle poesie. Va precisato, però, che la band ha difficoltà a riprodurre fedelmente quanto proposto in studio, per ovvi limiti legati alla scarsa strumentazione (in quattro è impossibile replicare tutti quei suoni). I Kaleidoscope perdono quindi qualcosa in quanto a raffinatezza, ma acquistano in potenza, con un sound più duro e abrasivo.All'inizio del 1969 viene rilasciato il nuovo disco dei Kaleidoscope, un degno successore dell'acclamato esordio. Faintly Blowing non possiede la stessa freschezza (dovuta anche a una certa ingenuità giovanile) di Tangerine Dream, ma è musicalmente più avventuroso, con cambi di tempo improvvisi, e presta un'attenzione ancora maggiore ai piccoli particolari. Una via di mezzo fra il pop psichedelico e il folk progressivo, con un'atmosfera più oscura rispetto al debutto, percepibile fin dall'iniziale title track, che conferma lo splendido momento di forma attraversato dalla band. "(Love Song) For Annie" mostra il nuovo volto dei Kaleidoscope, che alla delicatezza già ampiamente mostrata in Tangerine Dream, ora aggiungono i muscoli, con il batterista Dan Bridgman che pesta duro sulle pelli. La stravagante "Snapdragon" funge da ponte tra il recente passato e il presente della band.
Negli episodi più folk risuonano l'Incredible String Band e soprattutto Bob Dylan (evidenti i rimandi a quest'ultimo in "A Story From Tom Bitz" e "The Feathered Tiger"). Non a caso, tra i collaboratori che partecipano alla realizzazione dell'album vi è John Cameron, arrangiatore di Donovan in quegli anni. Sono presenti poi diversi brani acustici e atmosferici, appena sussurrati e di breve durata, mentre il gran finale è affidato alla lisergica "Music", il loro pezzo più elettrico e tirato, un delirio di feedback, percussioni sfondate e manipolazioni vocali.
L'album, tuttavia, suscita nel pubblico minor interesse del predecessore, che già aveva venduto poco o nulla. Il problema di Faintly Blowing, in effetti, è di essere ancora legato alla stagione psichedelica, che appare già fuori dal tempo, ampiamente superata. Tra il '68 e il '69 sono infatti cambiate molte cose, il sogno hippie è definitivamente tramontato. I Kaleidoscope commettono così l'errore (ammesso che si possa definire tale, vista la qualità della musica proposta) di non accorgersene in tempo.Nell'agosto del 1969, per cercare di risollevare le proprie quotazioni commerciali, Peter Daltrey & C. decidono di cambiare nome e di ripresentarsi come Fairfield Parlour (col senno di poi, si dichiareranno pentiti per il cambio di identità). Dave Symonds, ex-disc jockey della Bbc, diventa il loro nuovo manager e li convince a rescindere il contratto con la Fontana e ad accettare le proposte contrattuali della Vertigo Records. Symonds, che nei quattro crede ciecamente, regala loro anche un pittoresco furgoncino, immortalato in quasi tutte le (poche) foto del gruppo, un mezzo che i Fairfield Parlour utilizzano per gli spostamenti. Quello degli ormai ex-Kaleidoscope è un rinnovamento anche musicale, in chiave romantica: abbandonano (almeno parzialmente) la sbornia psichedelica e abbracciano le nuove tendenze progressive. Il risultato di questa mutazione è From Home To Home, la cui splendida traccia d'apertura, "Aries" (con un finale che è un atto d'amore nei confronti dei Beatles), è una brillante testimonianza del loro cambiamento.
Intrise di un folk pastorale, con il flauto suonato da Steve Clark che svolge spesso un ruolo da protagonista, le canzoni di From Home To Home evocano scenari legati alla campagna inglese e sono mediamente meno gioiose rispetto al passato. Nei testi, malinconici e crepuscolari, ricorrono ricordi legati all'infanzia. In brani vivaci ed eccentrici come "In My Box" e "Sunny Side Circus" torna, però, a essere preponderante l'influenza barrettiana (e infatti appartengono entrambe al vecchio catalogo dei Kaleidoscope). Spiccano poi "Free" (una canzone di limpida bellezza nella quale i Fairfield Parlour dimostrano tutte le loro abilità strumentali), la magniloquente "Emily" (che unisce al suono del Mellotron un'epica morriconiana) e la conclusiva "Drummer Boy Of Shiloh". Ma è tutto l'album a mantenersi su alti livelli. A non accorgersene, tanto per cambiare, è soltanto il pubblico, che continua cocciutamente a ignorarli.
Nel 1970 i Fairfield Parlour fanno una comparsata a Top Of The Pops con "Bordeaux Rose", ennesimo singolo melodicamente ineccepibile, eppure ancora una volta passato inosservato. Sempre nello stesso anno, con lo pseudonimo I Luv Wight, incidono il tema musicale del Festival dell'isola di Wight, "Let The World Wash In". Ma i ricordi legati a quell'esperienza sono, per la verità, unicamente negativi, a causa delle minacce ricevute da un'organizzazione terroristica, che aveva intenzione di sparare contro la prima band che si sarebbe esibita al Festival di Wight. Inutile dire che i primi a salire sul palco avrebbero dovuto essere i Fairfield Parlour, che vedono così sfumare la possibilità di suonare dinanzi a un folto pubblico, in una giornata che avrebbe potuto cambiare per sempre la loro carriera.
Un rapporto certamente complicato, quello dei Fairfield Parlour con le esibizioni dal vivo; una scalogna nera sembra infatti accompagnarli ovunque. Nel 1971, per esempio, aprono un concerto alla Royal Albert Hall ai Pentangle, ma puntualmente succede il disastro: qualcuno sabota i collegamenti e il suono uscito dagli strumenti risulta quindi inascoltabile. E non va meglio un live al Mother's Club di Birmingham, in compagnia nientepopodimeno dei Led Zeppelin, i quali - verosimilmente ubriachi fradici - radono al suolo l'intera amplificazione di Peter Daltrey e soci, impedendo loro di esibirsi. Sempre a Birmingham, durante un altro evento di grande richiamo, il batterista Danny Bridgman ha un collasso, che lo obbligherà a rimanere fuori causa per diversi mesi. Insomma, un gruppo perseguitato dalla sfortuna, è proprio il caso di dirlo!Sfiduciati, ma non ancora abbattuti, i Fairfield Parlour pianificano un'opera ambiziosa, ispirata alla vita di Marilyn Monroe: White Faced Lady, il loro testamento musicale. Un concept-album che, in un mondo ideale, siederebbe al fianco dei vari "S. F. Sorrow", "Arthur", "Tommy" e "The Lamb Lies Down On Broadway", ma che il gruppo non riuscirà neanche a pubblicare, nonostante ogni brano - da un punto di vista melodico - rasenti la perfezione assoluta. L'affascinante storia è narrata da Peter Daltrey come se fosse una novella, con testo in prosa per ogni canzone.
White Faced Lady emana maestosità fin dall'iniziale "Overture", che anticipa grandiosamente i temi portanti dell'opera. Svolge un compito analogo "Picture With Conversation", che riassume l'album quando questo volge al termine, riallacciandosi a tutti i momenti-chiave. Le canzoni, dalla struttura barocca e progressive, mutano di continuo, riuscendo a spiazzare ogni volta l'ascoltatore. Si pensi alla sacra solennità con cui si apre la title track, che poi si tramuta in un boogie caracollante. Oppure a "Standing", che così dal nulla, senza preavviso, si trasforma in un tiratissimo pezzo hard-rock. Pregevole anche la lunga divagazione psichedelica, a suon di sitar, di "Song From Jon". L'alternanza fra brani dolcissimi come "The Locket" e trascinanti come "Nursey, Nursey" è sapientemente dosata e rende il disco particolarmente vario, sebbene possa apparire un po' ridondante, oltre che eccessivamente lungo (diciotto brani per più di un'ora di durata), dopo un primo ascolto.
White Faced Lady è infatti meno immediato rispetto agli altri lavori realizzati da Peter Daltrey & C., è necessario del tempo per coglierne la ricchezza melodica nella sua interezza (non mancano di certo, in ogni caso, gli episodi orecchiabili: brani come "Small Song: Heaven In The Back Row", "All Hail To The Hero" e "Long Way Down" sfoderano infatti due-tre ritornelli magistrali a testa). "Burning Bright" ricorda i Byrds più intimisti ed eterei, mentre "Broken Mirrors" mantiene intatta quella delicatezza che aveva contraddistinto i Kaleidoscope, con una consapevolezza però diversa: ora disillusione e malinconia hanno preso il sopravvento sul meravigliato stupore degli esordi.
Il disco si chiude in bellezza con "Epitaph: Angel", praticamente una riproposizione di "The Sky Children", con la stessa, immutata grazia melodica.
Per quanto possa apparire incredibile, tutte le case discografiche si rifiutano di pubblicare l'opera, ritenuta troppo lunga e senza potenziali singoli. Una beffa atroce, che si rivelerà fatale per il futuro del gruppo. Ormai esausti, i Fairfield Parlour si sciolgono senza clamori nel 1972. E nella loro ultima, triste, esibizione riescono a racimolare la miseria di 20 dollari. "La mia fidanzata voleva sposarsi, ma io ero senza un soldo, sempre più preoccupato per il mio avvenire", ricorda un addolorato Peter Daltrey, che si prenderà quantomeno una piccola rivincita quando, 20 anni dopo, nuove generazioni di ascoltatori invocheranno la pubblicazione postuma di White Faced Lady.
Peter Daltrey ha poi proseguito la sua carriera, continuando a registrare buona musica lontano dalla luce dei riflettori, con lo stesso entusiasmo dei primi tempi. Quasi una ventina gli album pubblicati da solista da parte di un musicista che non si è mai fermato, a differenza invece dei suoi ex-compagni, allontanatisi dal mondo della musica dopo lo scioglimento dei Fairfield Parlour. Tutti e quattro hanno ottenuto infinitamente di meno rispetto a quanto avrebbero meritato, ma il loro culto è più vivo che mai ed è destinato a rimanere.
KALEIDOSCOPE | ||
Tangerine Dream(Fontana, 1967) | 8 | |
Faintly Blowing(Fontana, 1969) | 7,5 | |
White Faced Lady (The Kaleidoscope Record Company, 1991) | 8,5 | |
Dive Into Yesterday(antologia, Fontana, 1996) | ||
The Fairfield Parlour Years(antologia,Burning Airlines, 2000) | ||
Please Listen To The Pictures(antologia, Circle, 2003) | ||
Further Reflections The Complete Recordings 1967-1969(antologia, Grapefruit Records, 2012) | ||
FAIRFIELD PARLOUR | ||
From Home To Home(Vertigo, 1970) | 7,5 | |
SIDEKICKS | ||
The Sidekicks Sessions 1964-1967(antologia, Alchemy Entertainment, 2003) |
Flight From Ashiya / Holidaymaker |
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