A volte è solo una questione di ottimismo. Senza quello di George Henry Martin, scomparso l'8 marzo all’età di novant’anni, non ci sarebbero mai stati i Beatles. Quando nel 1962 i quattro reduci dalla gavetta di Amburgo si presentarono a quel giovane dirigente della Parlophone, grazie ai buoni uffici del loro manager Brian Epstein, la disfatta fu a un passo. “I ragazzi erano emozionatissimi - raccontò Martin - mi fecero ascoltare i loro demo: terribili, spazzatura, ma c’era anche ‘Love Me Do’ (che lo stesso Martin avrebbe poi trasformato in hit accelerandone il ritmo, ndr). Sapevo che Decca e altri grandi etichette li avevano già cacciati, e li capivo. Ma avevano fascino, carisma e senso dell’umorismo e volli fare una prova: un’ora di studio per vedere cosa si riusciva a tirarne fuori. Anche perché la mia perplessità li aveva spinti alle lacrime. Il resto della storia lo sapete tutti”.Senza George Martin, “il duca di Edimburgo” come lo chiamava John Lennon, il mondo si sarebbe perso i Beatles, ma anche le loro canzoni così come le conosciamo. Il produttore londinese, infatti, non solo suonò delle parti strumentali in alcune di queste, ma ne fu il demiurgo, l’architetto supremo. Rallentandole, velocizzandole, manipolandole con i distorsori, i delay, gli echi, i riverberi, ricomponendole con i nastri, come tante tessere di quel meraviglioso mosaico su cui è stata edificata la pop music contemporanea. Qualche esempio spicciolo? La parte orchestrale di “Yesterday”, il mirabolante accordo iniziale di “A Hard Day’s Night”, l’arrangiamento classicheggiante di “Eleanor Rigby” (l’unico successo rock senza gli strumenti del rock – basso, chitarra e batteria), l’armonizzazione delle due parti in tonalità e velocità diverse del trip psichedelico di “Strawberry Fields Forever” (“I’m sure you’ll fix it”, la celebre frase di Lennon; ma ci sarebbero volute 45 ore di lavoro in studio!), l’urlo primordiale che incendia “Can’t Buy Me Love”, l’ambientazione circense di “Being For The Benefit Of Mr. Kite!”, l’apporto decisivo a McCartney nel taglia e cuci di nastri per i loop di “Tomorrow Never Knows”, e - forse la trovata più geniale di tutte - “il suono da fine del mondo” di “A Day In The Life”: alla stravagante richiesta di Lennon, Martin replicò scrivendo le parti per quaranta orchestrali, dalla nota più bassa alla più alta, in un glissato in crescendo. Ma si potrebbe proseguire all’infinito.
Nessuno, più di lui, ha meritato il pluririvendicato titolo di “quinto Beatle”. Forse persino più prestigioso di quello di “sir”, conferitogli nel 2004, e di quello di Knight Bachelor, assegnatogli otto anni prima. Oppure dei suoi 6 Grammy Award e delle chiavi della Rock and Roll Hall of Fame, che gli furono consegnate nel 1999. Perché tra Martin e i Beatles fu simbiosi totale, un’alchimia unica e irripetibile. “Guidò la nostra carriera con abilità e senso dell’umorismo. È stato per me un secondo padre”, lo ha ricordato commosso Paul McCartney in una lunghissima lettera. E a dare la notizia della sua morte è stato l’altro Beatle superstite, Ringo Starr, proprio colui che Martin volle nel gruppo al posto del batterista originario Pete Best, nonostante le titubanze iniziali (proprio su “Love Me Do”, infatti, lo fece sostituire dal turnista Andy White, ritenuto più adatto). Un tweet colmo di devozione: “Grazie per tutto il tuo amore e la tua gentilezza George, peace and love. Sono talmente distrutto da non avere parole”. Perché neanche la gloria eterna può mettere al riparo dall’angoscia del momento fatale, come faceva intendere lo stesso Martin a proposito della scomparsa di un altro Beatle, George Harrison: “È stato uno choc, tutti sappiamo di essere sulla Terra per poco, ma non siamo mai preparati alla morte”.Ma Martin non è stato solo il padre amorevole che si divertiva a veder giocare i quattro ragazzi di Liverpool, traducendone i sogni in realtà nello Studio 3 di Abbey Road. E' stato l'apripista per un'intera nuova scuola di produttori, il traghettatore delle strategie della musica d'avanguardia nel pop.
Londinese, classe 1926, pianista e arrangiatore di formazione classica, iniziò a lavorare negli anni 50 con le produzioni per la Emi e le registrazioni per commedie con Peter Sellers, Spike Milligan e altri, incidendo anche una sua canzone strumentale, “Time Beat” e centrando il primo grande successo nel 1961, con The Temperance Seven. Nella sua lunga carriera ha prodotto oltre settecento dischi di successo, collaborando, tra i tanti, con Cilla Black, Shirley Bassey, Gerry and the Pacemakers, America, Ufo, Van der Graaf Generator, Peter Gabriel, Sting, Jeff Beck, Elton John (la “Candle In The Wind” rielaborata per Lady Diana), Ultravox (lo splendido “Quartet”) e jazzisti quali Cleo Laine, John Dankworth, Humphrey Lyttelton e Stan Getz.
La sua figura slanciata ed elegante – perennemente in giacca e cravatta, come un lord d’altri tempi - ha attraversato gli studi discografici di mezzo secolo, imprimendo anche una svolta decisiva alle tecniche di produzione e registrazione del suono. Ma senza mai smarrire il senso più nobile del mestiere: “Ho sperimentato molto – ricordava - ma non credo affatto alla tecnologia come fine prevalente, al potere delle macchine in sé. La tecnologia è una gran cosa solo se serve alle idee, altrimenti resta un’entità liquida che finirà per inibire il pensiero”.
Dal 1997 aveva dovuto limitare il suo lavoro per colpa di forti disturbi all’udito. “Causati da tutta la musica degli ultimi trent’anni, su questo non ci piove”, commentò. Già ci manchi, sir George.
Versione estesa di un articolo originariamente pubblicato sul quotidiano Leggo