Esistono strumenti più versatili. Più celebrati, più diffusi, più iconici, più innovativi. Ma nessuno è tanto legato a una specifica canzone quanto il Clavinet. Inutile girarci attorno: il Clavinet è “Superstition” - e “Superstition” è, almeno in larga misura, il Clavinet. Fin dal 1972 dell’uscita del brano-simbolo di Stevie Wonder, la tastiera che sa rivaleggiare con una chitarra è una cosa sola con toni caldi e taglienti e irresistibili movenze funky. Ma nei suoi oltre cinquanta anni di storia, tuttavia, lo strumento brevettato da Ernst Zacharias — impiegato della tedesca Hohner e inventore anche di Pianet e Cembalet — è stato utilizzato da centinaia di artisti nei generi più disparati, e anche nell’era delle tastiere digitali conserva una personalità difficilmente emulabile, che lo ha mantenuto fino a pochi anni fa non un cimelio da collezionisti, ma un asset musicale sostanzialmente insostituibile.
La creazione di Zacharias nasce all’inizio degli anni Sessanta, dall’intenzione di “elettrificare” il clavicordo, strumento a corde percosse diffuso in Europa dal tardo medioevo. Sfruttato in ambito pop da artisti come Beatles (“For No One”) e Björk (“All Is Full Of Love”, “My Juvenile”), il clavicordo presenta una meccanica peculiare: alla pressione dei tasti, le corde sono simultaneamente divise e messe in oscillazione da laminette chiamate “tangenti”, che restano a contatto con le corde fino al rilascio del tasto. Poiché la lunghezza della porzione vibrante della corda è individuata dal punto in cui avviene l’urto con la tangente, una stessa corda può essere utilizzata, variando la lunghezza della parte vibrante, per produrre note di altezza diversa: questo accorgimento rendeva il clavicordo un’alternativa più compatta ed economica a tastiere meccaniche più onerose come clavicembalo, spinetta e pianoforte.
La versione realizzata da Hohner abbandona questa peculiarità, dedicando una corda a ciascun tasto, e a dire il vero evita anche il ricorso a tangenti: al posto di queste ultime, martelletti di gomma colpiscono le corde e mantengono il contatto con esse con una modalità simile alla tecnica dell’hammer-on, familiare a chitarristi e bassisti. Dopo avere sperimentato, nel 1961 col pioneristico Claviphon, l’uso di pickup capacitivi, nel 1964 della commercializzazione del primo Clavinet Zacharias è ormai passato ai pickup elettromagnetici a singolo avvolgimento — sei coppie in tutto, una ogni dieci tasti per le sessanta note di cui dispone la tastiera. Come in molte chitarre elettriche, il musicista può selezionare per mezzo di un cursore se amplificare il segnale di una sola bobina oppure di entrambe: quella disposta al centro delle corde ha un suono più rotondo, mentre quella montata in prossimità del ponte fornisce un timbro più brillante e aggressivo.
Pressoché inalterata nei diversi modelli succedutisi fra il 1964 e il 1982, la meccanica del Clavinet presenta altri elementi originali. Mentre nel clavicordo la cordiera è posta al di sopra dei tasti, e le tangenti agiscono da sotto, nel Clavinet è posta al di sotto della tastiera e i martelletti la colpiscono da sopra. Per “spegnere” più rapidamente il suono al momento del rilascio dei tasti, ciascuna corda è avvolta parzialmente da un filato tessile: questo fatto renderà la sostituzione delle corde - fortunatamente piuttosto rara - un compito particolarmente gravoso. Altro limite dello strumento, dovuto alla cattiva schermatura dei pickup, è la tendenza a generare brusii e feedback: coi primi modelli, addirittura, il problema era così significativo da spingere alcuni musicisti a ricorrere dal vivo a tracce preregistrate, per evitare che il suono del loro Clavinet risentisse, oltre che dei consueti ronzii, anche di interferenze radio indesiderate!
Dagli esordi alla consacrazione
Benché il debutto commerciale sia nel 1964, l’approdo dello strumento sul mercato statunitense risale al 1967. Tra i primi entusiasti del nuovo sound, spiccarono compositori di colonne sonore e autori di library music, oltre che artisti attivi nel filone easy listening. A questo apparteneva, fatto non sorprendente, anche il disco promozionale rilasciato da Hohner per presentare le possibilità della tastiera. Questi primi utilizzi, col senno di poi spesso piuttosto cheap negli orizzonti, fanno leva soprattutto sul fattore novità rappresentato dal nuovo timbro, che presenta nella sua forma più basilare, rimanendo all’interno di stili consolidati. Qualcosa di più coraggioso si scorge nei primi impieghi in ambito pop-rock: in “Six O’ Clock” dei Lovin’ Spoonful, il Clavinet (accreditato erroneamente come clavicembalo elettrico) è responsabile dei riff principali e gioca su un campo già piuttosto chitarristico e tagliente; in “Up On Cripple Creek” il groove parecchio funky è ottenuto facendo passare l’uscita attraverso un pedale wah-wah. Lo stesso trucco si ritrova nell’interpretazione realizzata da Enoch Light e la sua band della celebre “Mah-Na Mah-Na” di Piero Umiliani: il Clavinet effettato, suonato dal grande sperimentatore tastieristico Dick Hyman, si sente in particolare sul finale del brano.
Dieter Reith Quartett - Hohner Clavinet Klangbeispiele (1964?)
Jerry Goldsmith - In like Flint (1967)
Lovin' Spoonful - Six O' Clock (1967)
The Band - Up On Cripple Creek (live, 1969)
Enoch Light & The Light Brigade - Mah-Na Mah-Na (1970)
Fra gli early adopters c’è anche l’artista che più di ogni altro sarà associato al suono sferzante del Clavinet: Stevie Wonder. La prima incisione in cui lo impiega è “Shoo-Be-Doo-Be-Doo-Da-Day”, del 1968; da lì a qualche anno, il legame fra il soulman e la nuova testiera sarà così intenso da essere immortalato nel testo di “Sweet Little Girl” (“Come on now honey-sugar, you know your baby loves you, more than I love my clavinet”). A ben vedere, il pezzo non contiene affatto il Clavinet, ma la citazione sarà comunque sfruttata da Hohner con prontezza per la fortunata campagna pubblicitaria di quell’anno.
Il pezzo più iconico del repertorio Clavinet di Stevie Wonder, “Superstition”, è costruito su una stratificazione di più tracce di Clavinet, tutte suonate (in studio) da Wonder medesimo. Qui, più che in ogni altro brano precedente, si coglie il carattere rivoluzionario dello strumento: è una tastiera, ma occupa il ruolo timbrico e funzionale che spetta a una chitarra. Il suo sound squillante e affilato gli consente di uscire dal classico lessico di organo e pianoforte e dedicarsi invece alle tecniche esecutive del riffing e del vamping, che proprio in quegli anni stavano alimentando il big bang del funk.
Le novità portate alla ribalta da Wonder non si esauriscono col brano più simbolico. In “Higher Ground”, il suono è trasfigurato dal primo pedale auto-wah della storia, il Mu-tron III: l’aumento di volume associato all’attacco di ciascuna nota di tastiera innesca in modo automatico il caratteristico effetto wah-wah, consistente in una rapida oscillazione della frequenza maggiormente amplificata dal filtro. L’effetto è una continua metamorfosi del timbro, che da cupo si fa sgargiante, guadagnando un piglio funk che sarà fondamentale anche per il sound leggendario del basso di Bootsy Collins.
Dai primi anni Ottanta, inoltre, la collaborazione con il tecnico Jim Williams (che metterà mano anche sul Rhodes del musicista) consente di ridurre alte frequenze e sibili grazie alla sostituzione del preamplificatore incorporato, e di introdurre altre migliorie custom come un equalizzatore a due bande per aggiustare il colore del suono e una migliore schermatura dei pickup grazie a lamine messe a terra. Il risultato di questo maquillage lascerà Wonder così soddisfatto che utilizzerà lo strumento per i suoi live anche dopo la sostituzione del suo fido Rhodes con tastiere elettroniche. Nell’esecuzione di “Superstition” proposta nel video, si può notare fin dai primi fotogrammi l’equalizzatore a due bande, sul lato sinistro della tastiera; poco sopra, un pedale Boss AW-3 sostituisce il Mu-tron III come auto-wah.
Stevie Wonder - Shoo-Be-Doo-Be-Doo-Da-Day (1968)
Stevie Wonder - Sweet Little Girl (1972)
Stevie Wonder - Superstition (1972)
Stevie Wonder - Higher Ground (1973)
Stevie Wonder - Superstition (live, 2008)
Nei primi anni del Clavinet, Hohner immette sul mercato una successione di modelli, apportando leggere variazioni dall’uno all’altro. Il primo è il Clavinet I, e il prezzo di lancio negli Stati Uniti (1967) è di 545 $ - due terzi di un Rhodes Suitcase, a titolo di paragone. Il Clavinet II esce a stretto giro, e a differenza del predecessore non presenta né un altoparlante né un amplificatore integrato (solo un preamplificatore). È tuttavia il primo modello a prevedere dei selettori per modificare il timbro: sono gli iconici interruttori a bilanciere bianchi che, aumentando via via di numero, occuperanno lo spazio a sinistra della tastiera anche nei successivi modelli.
Nel 1968, a 595 $, arriva il Clavinet C: è lo strumento dell’incisione originale di “Superstition”, riconoscibile in video e fotografie per le sue rifiniture bianche e rosse. Su autorizzazione di Hohner, l’azienda tedesca Echolette ne produce anche una variante con posacenere integrato e tasti colorati in modo opposto: è il Beat Spinett, oggi un pezzo da collezione. La stessa colorazione caratterizza anche il Clavinet L, pure del 1968: concepito per un utilizzo domestico, ha un altoparlante integrato ed è contraddistinto da una sagoma trapezoidale.
Di gran lunga il modello di maggior successo, il Clavinet D6 fa il suo debutto nel 1971. Il prezzo di lancio non è noto, ma materiali dell’epoca testimoniano come il suo valore di listino nel 1973 fosse di 849,50 $ - poco meno di un coevo Rhodes Stage Mark I. Qui i selettori basculanti diventano sei: due controllano i pickup e la loro polarità (se i due pickup sono in fase il suono risulta pieno, se in controfase più esile), gli altri quattro operano su filtri passa-basso e passa-alto per consentire un’ulteriore personalizzazione del timbro (“medium” e “soft” sono le impostazioni del passa-basso; “brilliant” e “treble” quelle del passa-alto). Ciascuna delle opzioni è attivabile indipendentemente dalle altre. Sulla destra della tastiera, fa inoltre la sua comparsa un cursore “mute”, che riduce la durata del sustain e conferisce al suono un carattere più “smussato”, paragonato da alcuni appassionati all’effetto del palm mute sulla chitarra.
Il look dai colori aranciati rende il D6 immediatamente riconoscibile, ed è evidente dalle testimonianze video come questo sia, per tutti gli anni Settanta, il modello più diffuso. Anche Stevie Wonder lo adotta, e proprio il suo D6 è l’oggetto delle modifiche custom discusse nel precedente paragrafo. Ancor oggi apprezzato per la sua usabilità, circola sul mercato secondario con prezzi fra i 2500 € e gli 8000 €, a seconda delle condizioni.
La voce del funk
Nei filoni in cui i passaggi strumentali svolgono un ruolo centrale, il Clavinet si impone molto rapidamente. Nel giro di pochi anni, è uno dei simboli della fusion: già nel 1967 Don Ellis lo utilizza nella sua big band, fra le prime a suonare jazz elettrico e in tempi composti (nel breve frammento proposto, il tastierista che si divincola fra i ritmi aksak è Pete Robinson, mai inquadrato). Prevedibilmente, la Germania è un fulcro dell’affermazione dello strumento, coi pionieri jazz-rock Passport che riescono a farlo svettare nel loro ricco mix di tastiere e chitarre. Dalla prima metà degli anni Settanta, è un ingrediente fondamentale per il sound funky di Herbie Hancock, in cui occupa un posto di primo piano insieme al Rhodes e ai sintetizzatori ARP Odyssey e ARP Pro Soloist.
Hermeto Pascoal, personaggio eccentrico e funambolico del jazz brasiliano, utilizza il Clavinet almeno dal 1977 di “Slaves Mass”. Successivamente, ricorrerà al bizzarro Clavinet-Pianet Duo, ibrido di Pianet T e Clavinet E7 (l’ultimo della serie Clavinet, lanciato nel 1979) prodotto da Hohner tra il 1978 e il 1982. Lo strumento è pesante e complesso, in quanto dotato sia della meccanica del Clavinet che di quella del Pianet. Tuttavia è estremamente versatile: un selettore a pedale permette di stabilire il mix tra Pianet e Clavinet nel suono, e opportuni controlli consentono di assegnare le due componenti a parti differenti della tastiera e ai due diversi canali stereo.
George Duke, tastierista leggendario noto agli amanti del rock anche per le collaborazioni con Frank Zappa, fa installare sul suo moddatissimo D6 trasparente una whammy bar simile a quella presente in alcune celebri chitarre elettriche. Progettato dal tecnico Buddy Castle, il sistema consente di inclinare il ponte a sostegno delle corde, permettendo un vibrato molto pronunciato che Duke sfrutterà per la sua cavalcata disco “Reach Out”.
Don Ellis – K.C. Blues (live, 1968)
Passport – Uranus (live, 1971)
Herbie Hancock – Chameleon (live, 1965)
Hermeto Pascoal @ Montreaux Jazz Festival (live, 1979)
George Duke – Reach Out (live, 1983)
Gran parte del vocabolario sfruttato dalla fusion per il Clavinet proviene dal filone che più di tutti ha investito sulle potenzialità dello strumento: quel continuum funk/funky/disco che per tutti i Settanta intesserà col jazz un dialogo tale da rendere, molto spesso, assai sfumate le distinzioni di categoria. Gli episodi trascinanti in cui il Clavinet fa la parte del leone sono pressoché innumerevoli: per questo, converrà dedicare loro una specifica playlist a tema e soffermarsi qui solo su un excursus generale.
Fra i primi successi del Clavi-funk c’è “Outa-Space”, singolo di Billy Preston estratto dal suo primo album post-Apple, pubblicato dall’etichetta di Herb Alpert con arrangiamenti di Quincy Jones. Il brano, che nasce da una jam e sfrutta il wah-wah per ottenere un suono particolarmente plastico, darà col suo secondo posto nella classifica statunitense una spinta considerevole agli utilizzi pop del Clavinet. Altro nome irrinunciabile è quello di Bernie Worrell, tastierista di Parliament e Funkadelic (nonché dei Talking Heads in “The Name Of This Band Is Talking Heads”-”Speaking In Tongues”-”Stop Making Sense” e dei Praxis di Bill Laswell). Un suo Clavinet D6, la cui tastiera è decorata con ritagli dei fumetti di Braccio di Ferro, è andato all’asta nel 2017 per 20.000 $.
Negli Earth Wind And Fire, Larry Dunn è responsabile di alcuni dei passaggi di Clavinet più groovy che abbiano toccato le classifiche di vendita. “Build Your Nest” non è certamente il loro episodio più noto, ma è fra quelli in cui il suono scheletrico eppure robustissimo del Clavinet risulta più prominente: anche qui molta della personalità nasce dal wah-wah, che entra ed esce sugli accordi ripetuti rendendoli penetranti e materici.
Balzando a fine decennio, incontriamo gli esordi del paladino del synth-funk, Prince, che inizialmente importa e semplifica schemi di Clavinet diventati standard nella prima metà degli anni Settanta, e presto li riadatta al ricco armamentario sintetico che caratterizzerà la sua carriera. Molti anni dopo, nel riprendere coi Jamiroquai il sound funky degli anni d’oro e aggiornarlo al vangelo acid jazz, il tastierista Toby Smith punterà tutto sul Clavinet-Pianet Duo, spesso accioppiato al Fender Rhodes. I suoi sono fra i lick più incisivi realizzati con lo strumento, e variano molto in timbro passando da un suono pulito al classico wah-wah, fino a unghiate più velenose, ottenute giocando sulla distorsione introdotta dall’overdrive dell’amplificatore.
Billy Preston - Outa-Space (1971)
Funkadelic - A Joyful Process (1972)
Earth, Wind & Fire - Build Your Nest (1973)
Prince - Why You Wanna Treat Me So Bad? (1979)
Jamiroquai – The Kids (live, 1993)
Il riscatto del rock
L’uso in campo rock è ampio, e soprattutto in ambito prog prende una veste diversa da quella prevalente. Il carattere aggressivo del Clavi-sound viene ovviamente apprezzato, ma più che le potenzialità funky, a esserne valorizzate sono le capacità evocative. Il Clavinet è visto soprattutto come un clavicembalo on steroids, un mezzo per aggiungere ulteriore enfasi e grandeur alle elaborate partiture architettate dalle band. A indicare la via è, prevedibilmente, Keith Emerson, che nel primo album degli Emerson, Lake & Palmer sfrutta proprio una saettante sequenza classico-contemporanea di Clavinet per introdurre il primo assolo esteso di Moog della storia del prog, e giocoforza del rock (sempre col Clavinet a fare da tappeto).
Il Clavinet ha un ruolo di contrappunto nel medley televisivo “Sguardo verso il cielo/ Una dolcezza nuova” delle Orme, in cui il grosso del riffing e del soloing sono gestiti prima dall’Hammond e poi dal pianoforte. È interessante, nel confronto con gli originali incisi su album, notare come molte parti del Clavinet siano state trasferite ad altri strumenti (orchestra, organo, Minimoog), e al Clavinet vengano lasciati gli stacchi più taglienti, in cui gli altri timbri non sarebbero stati altrettanto incisivi. Lo stesso confronto rivela anche come nei brani originali il Clavinet copra il range funzionale di molti altri strumenti: un'indubbia prova di duttilità.
L’uso più peculiare del Clavinet in quest’ambito è però quello dei Gentle Giant, che lo pongono al centro del loro sound con una triplice funzione: elemento aggressivo, rimando pre-industriale (attraverso l’analogia impropria col clavicembalo) e cardine di costruzioni astrusamente spigolose. Il risultato è un connubio unico, che fa suonare insieme antichi e modernissimi, cervellotici e immediati incastri di melodie, accordi e tempi fra i più tortuosi del progressive rock.
Più convenzionale l’impiego da parte dei Pink Floyd, che lo inseriscono sia in “Have A Cigar” che nell’ottava sezione di “Shine On You Crazy Diamond”, decisamente buried in the mix nel primo caso (appare poco prima dell’ingresso della voce), e senz’altro più prominente - ma anche stereotipicamente funky - nella seconda. Atipico per la musica dei Van Der Graaf Generator, il Clavinet fa la sua comparsa nel loro album più abrasivo, “Godbluff”, dove alimenta a grandi accordi la seconda metà di “The Sleepwalkers”. Suonato da Peter Hammill, parte su un 4/4 molto rock e tiene botta lungo uno degli episodi dispari più imprendibili del loro canzoniere, confermandosi lo strumento perfetto per trasporre in chiave prog-rock la ruvidezza della carta vetrata.
ELP - Tank (1970)
Le Orme - Sguardo verso il Cielo/ Una dolcezza nuova (live, 1972?)
Pink Floyd - Shine On You Crazy Diamond, pt. 8 (1974)
Gentle Giant – Cogs In Cogs/Proclamation (live, 1974)
Van Der Graaf Generator – The Sleepwalkers (live, 1975)
Tolti gli stili idiosincratici come quello dei Gentle Giant, gli utilizzi del Clavinet incontrati finora possono essere raggruppati in tre scuole: quella funk, di derivazione chitarristica, che privilegia la ripetizione ritmica di accordi (vamping) con variazione di accenti e giochi di anticipi e ritardi; quella neoclassica/neobarocca che aggiorna e dà ulteriore magniloquenza all’uso tardo-Sixties del clavicembalo; e uno stile più quadrato e aggressivo, a metà fra riff chitarristico e accordoni di organo o piano, visto ad esempio nel pezzo dei Van Der Graaf Generator. Si potrebbe etichettare quest’ultimo caso col termine “rock”, ma a ben vedere in ambito rock si incontrano tutti e tre gli stili, senza una netta prevalenza per quello appena descritto.
“Stop Lookin’ Back” dei Grand Funk Railroad potrebbe essere indicato come esempio prototipico di uso iper-rock del Clavinet: il suo compito è sostanzialmente quello di tenere un ostinato hard, con un suono nitido che fa risaltare ogni nota senza rinunciare all’asprezza del timbro. Un brano in cui coesistono tutti e tre i “dialetti” è invece l’eccezionale “Jeremiah” del christian-rocker Michael Omartian, che alterna ampollosi passaggi clavicembalistici, groove funk e, poco dopo la metà della canzone, un vigoroso ancorché obliquo stacco rock.
Celeberrimo è senz’altro il Clavinet distorto di “Trampled Under Foot” dei Led Zeppelin, che unisce un evidente debito funk a una tecnica tastieristica sostanzialmente mutuata dal linguaggio dell’organo blues (la vicinanza stilistica è particolarmente evidente nell’assolo). Similmente robusto è il suono sfruttato dagli Allman Brothers per “Can’t Lose What You Never Had”, dove il Clavinet doppia il piano per rendere più rauca e punchy la parte di tastiera. Più slavata e funky la performance di Joe Sample in “Black Cow” degli Steely Dan, in cui un phaser è accoppiato allo strumento e il riverbero straborda sull'opposto canale stereo.
Grand Funk Railroad – Stop Lookin’ Back (1973)
Michael Omartian – Jeremiah (1974)
Led Zeppelin – Trampled Under Foot (live, 1975)
Allman Brothers – Can’t Lose What You Never Had (1975)
Steely Dan – Black Cow (1977)
Dai Caraibi al futuro
Dalla seconda metà degli anni Settanta, un altro linguaggio sviluppato per il Clavinet esercita una forte influenza sulla musica anglosassone, e di rimando sulle altre scene nazionali. Si tratta dell’approccio reggae, e in particolare della versione (autodichiaratamente) “non purista” elaborata dal tastierista John “Rabbit” Bundrick per rendere lo stile di Bob Marley più appetibile per il pubblico americano. All’alba dello “sbarco in America” di Marley con “Catch A Fire”, il Clavinet è uno strumento già in uso in ambito reggae dalla fine degli anni Sessanta, ma con parti molto essenziali e solitamente sepolto nel mix: l’intuizione di Bundrick è di prendere a prestito tecniche affermatesi in ambito funk e rock, a cui i potenziali ascoltatori hanno già fatto l’orecchio, e adattarle al nuovo contesto. La veste è duplice: da un lato, parti asciutte e sferraglianti, a fare da contraltare (o da supporto) all’onnipresente chitarra in levare; dall’altro, un suono del tutto liquefatto dal wah-wah, che nasconde il punch del rumore d’attacco e dell’asprezza caratteristica dello strumento lascia solo il release. La centralità del Clavinet è tale che in “Stir It Up” la seconda metà del pezzo è occupata da un notevole e assai esteso assolo in overdub, che mostra tutta la libertà espressiva consentita dal nuovo stile.
Altro pezzo esemplare è “I’m The Toughest” di Peter Tosh, che prevede numerose tracce distinte di Clavinet, in gran parte con funzione percussiva e dotate di un suono secco e corposo. Non è un caso che uno dei più iconici pezzi influenzati dal reggae nell’Italia di fine anni Settanta, “E la luna bussò”, presenti un Clavinet in bella evidenza a partire dalla seconda strofa. Anche il principe del del Clavinet, Stevie Wonder, tributerà Bob Marley e il nuovo stile con “Master Blaster (Jammin’)”, nel 1980.
In campo pop, nel corso dei Seventies vanno definendosi comunque anche altri stili. La Electric Light Orchestra, partita con un progressive pop dagli ascendenti decisamente classicheggianti e beatlesiani, incorpora sempre più elementi disco nel suo sound; in pezzi come “Evil Woman”, “Showdown” e soprattutto “Last Train To London”, mette a punto un’impostazione ipermelodica al Clavinet, con linee molto definite e meccaniche, che già sembrano dialogare con le architetture elettroniche che Giorgio Moroder va sviluppando negli stessi anni. (Nota bene: nel video ufficiale di “Evil Woman”, la parte del Clavinet è truffaldinamente associata alle immagini di un Polymoog).
Più sottile e difficile da tracciare è l’uso fatto dagli ABBA, che pare lo inseriscano in svariati brani come ingrediente del loro wall of sound, per dare brillantezza al suono: le testimonianze dirette dell’impiego in studio scarseggiano, anche se non mancano i passaggi in cui se ne può intuire la presenza. I filmati live del periodo 1979-1980 tuttavia sono inequivocabili: nelle performance dal vivo, il Clavinet esegue anche linee principali e nelle registrazioni è inquadrato in maniera riconoscibile.
Bob Marley – Stir It Up (1973)
Peter Tosh – I’m The Toughest (1977)
Loredana Bertè – E la luna bussò (1979)
Electric Light Orchestra – Last Train To London (1979)
ABBA – Gimme! Gimme! Gimme! (A Man After Midnight) (live, 1979)
Terminata la produzione nel 1982, il Clavinet non scompare dalla circolazione. La complessità del suo timbro, tagliente perché ricco di ipertoni non armonici, rende il suo suono di difficile emulabilità rispetto a quello degli organi elettrici e degli e-piano: nei decenni successivi, dunque, lo strumento conserverà una sua nicchia di utilizzo piuttosto stabile fino all’inizio dell’inevitabile revival, a metà anni Novanta. Inutile tentare una rassegna di tutti i ripescatori: basterà qualche esempio eccellente per mostrare la varietà delle circostanze in cui il Clavinet si mostra molto apprezzato dagli artisti, anche se non più veramente insostituibile (oltre alla modellazione fisica permessa dalle onnipresenti tastiere Nord, sono presenti sul mercato valide imitazioni elettromeccaniche).
Anche al di là dei diversi sound imitativi - quello in “Dirty Harry” dei Gorillaz, per dire, è, stando ai credits, un sintetizzatore - molti impieghi dello strumento si associano a un innegabile spirito retrò. Che si tratti del groove poliziottesco dei Calibro 35, del neo-funk di Mark Ronson o della fusion funambolica degli Snarky Puppy, è chiaro che le note ronzanti del Clavinet svolgono prevalentemente la funzione di riesumare, con classe sia chiaro, uno specifico stile.
Non mancano tuttavia riscoperte più sorprendenti: il Clavinet di Roy Powell è un elemento centrale nel jazz-rock crimsoniano dei Mumpbeak, dove tiene testa a Pat Mastelotto, Bill Laswell, Tony Levin e Shanir Ezra Blumenkranz con una raffica di invenzioni che spesso trasformano il timbro in modo pressoché irriconoscibile. Ancora più estremo il linguaggio virtuosistico dell’australiano Lachy Doley, che mettendo insieme tutte le possibili trovate tecniche storicamente introdotte per lo strumento (whammy bar, wah-wah, distorsione dell’ampli) rende il suono del Clavinet virtualmente indistinguibile da quello di una chitarra elettrica. Nel video proposto, la sua reinterpretazione di un classico del Clavinet anni Settanta, “Use Me” di Bill Withers.
Gemma finale per i più curiosi degli aspetti performativi, un video in cui l’attuale tastierista dei Jamiroquai, Matt Johnson, illustra le principali tecniche del Clavi-funk su un suo moderno erede elettromeccanico, il Vibanet lanciato nel 2013 da Vintage Vibes.
Mark Ronson ft. Lily Allen – Oh My God (2007)
Calibro 35 – Arrivederci e grazie (live, 2011)
Mumpbeak - Biscuit (2013)
Lachy Doley Group – Use Me (live, 2016)
Snarky Puppy – Grown Folks (live, 2018)