Ma a vincere, nella caratterizzazione dei pezzi, è di certo il clavinet: è il suo timbro a dare accenti sinistri ai jazz-rock più fratturati, "Boot" (inizio tarantolato al cardiopalma), "Brick" (con accenti tribali e una sezione centrale altamente rarefatta) e "Cot" (quasi saudade), e la sua distorsione chitarristica, con tanto di wah-wah, a dotare "Saw" d'onda d'urto in controtempo King Crimson-iano. La sonata ambientale per riff arpeggiato ad libitum di "Slip" è più democratica, spartita con un synth mellifluo di nuovo simil-chitarristico (stavolta imita una slide).
Fondamenta salde negli anni 70 per il tastierista britannico trapiantato in quel di Oslo, senza dimenticare la sezione ritmica a pieno regime: il jazz-funk del Miles Davis elettrico (qui ripulito e masticabile), il progressive-rock (in strutture riconoscibili, non ultima la forma-canzone, pur se non v'è canto), il rumorismo d'avanguardia post-minimal (come solleticazione intellettuale per gli esecutori e, solo in parte, per l'ascoltatore).
Non ci si aspetti, dunque, grosse sorprese stilistiche, eccezion fatta per la prima parte di "Caboose", pugno di Feliciati, un paesaggio di riverberi psichedelici fin troppo alieno dal resto. Salva tutto il boogie draculesco di "Stone" e il suo bel finalone pirotecnico.
(05/09/2017)