Dietro le tracce - Storie di produttori

Quincy Jones - "Thriller" (Michael Jackson)

"Off The Wall" aveva alzato la posta in gioco. Dieci milioni di copie negli Stati Uniti (venti nel mondo) erano la chiara risposta a chi riteneva che Michael Jackson non dovesse mollare la Motown per passare alla Epic. Si trattava del migliore exploit di una carriera solista in crescita costante, con il record di ben quattro singoli finiti dritti nelle posizioni più alte della Billboard Hot 100 e relativo visibilio della nuova casa discografica (controllata dalla Cbs), che ora guardava con meno interesse l'ennesimo tour di Michael insieme ai suoi fratellini Jackson Five.
Ma c'era qualcun altro che poteva dirsi altrettanto fiero e co-responsabile di aver traghettato la black music in una dimensione da pop internazionale, e questo qualcuno era il produttore Quincy Jones.
Un inizio carriera folgorante come trombettista, arrangiatore e direttore d'orchestra lo aveva portato a collaborare, a cavallo tra gli anni 50 e 60, con quasi tutto il gotha della musica afroamericana (Ray Charles, Lionel Hampton, Count Basie, Sarah Vaughan, Betty Carter, Dinah Washington, Dizzy Gillespie, Miles Davis) e una discreta parte di quella bianca (Gene Krupa, Frank Sinatra, Barbra Streisand, Tony Bennett). Erano state poi le sirene di Hollywood a farlo diventare uno dei compositori di colonne sonore più richiesti, in grado di mettere il nome nei credits di lungometraggi come "A sangue freddo", "La calda notte dell'Ispettore Tibbs", "Getaway, il rapinatore solitario" e di serie televisive come "Radici" e "Sanford and Son".
A fine anni 70 Quincy Jones era un nome importantissimo e Jackson aveva fatto di tutto per averlo. Non c'era un solo motivo per cui la collaborazione non dovesse continuare anche per l'atteso seguito di "Off The Wall".

Quincy Jones - Michael Jackson - Off The Wall

Quincy ("Q" per gli amici) sapeva fin troppo bene che la partita questa volta andava giocata su un campo diverso; l'inesorabile declino della disco music aveva obbligato il business dell'industria pop a battere il terreno in altre direzioni. Intere praterie di pubblico erano bramose di novità e Q non intendeva certo lesinare in termini di livello qualitativo
Aveva quindi deciso di ricostituire la stessa squadra di collaboratori di fiducia, composta (oltre che dalla consueta pletora di musicisti di altissimo livello) dall'eclettico autore/arrangiatore inglese Rod Temperton (ex-membro e autore della band funk-disco Heatwave, e co-autore nel primo album solista di Karen Carpenter), e dall'ingegnere del suono di origine scandinava Bruce Swedien, contando su un tempo a disposizione di quattro mesi per completare il lavoro.
Nello stesso periodo, le amicizie di Hollywood gli avevano fatto conoscere Steven Spielberg e tra i due era nata una buona intesa. Un giorno Spielberg, fresco di acclamazione planetaria per il suo "E.T.", chiese se Michael fosse interessato a contribuire allo storybook del film con un pezzo cantato.
Jones e Jackson, ritenendo che l'impegno non avrebbe ostacolato le session del nuovo disco, accettarono di buon grado, ma quando il regista, entusiasta del risultato, chiese loro candidamente "Ragazzi, perché non facciamo insieme tutto lo storybook?", fu evidente che non avrebbero potuto dirgli di no e che la pianificazione decisa fino a quel momento sarebbe saltata.
Ci vollero infatti sei settimane per completare il lavoro dello storybook (che in sostanza doveva arditamente condensare due ore di film in quaranta minuti di audio), e questo alla fine ridusse a poco più di due mesi il periodo utile per portare a termine il disco di Jackson, mettendo in ansia la Epic.
Da lì in poi tutto fu fatto alla velocità della luce.

Quincy Jones - Rod Temperton - Bruce Swedien

Q e Temperton ascoltarono un totale di quasi 600 potenziali brani prima di arrivare a una dozzina di selezioni possibili. Successivamente, Rod passò a Quincy circa trenta canzoni scritte di suo pugno in forma di demo complete, per ognuna delle quali aveva previsto dieci-venti variazioni di titolo con tanto di inizio di schema per i testi. Il tipico lavoro maniacale alla Temperton, uno dei motivi che facevano di lui un elemento imprescindibile nell'economia di lavoro di Jones.
La scelta del materiale che sarebbe finito nell'album era condizionata dal particolare taglio che Q e Michael volevano dare al tutto, un elegante mix di black pop sintetico, funk gommoso e soul ballad. Bisognava strizzare un occhio alla dance (l'emergente erede tecnologica della disco) e concedere poco alla zuccherosità.
Jones sosteneva inoltre che sarebbe stato necessario pensare al pubblico bianco, tanto da insistere ripetutamente con Michael per fargli scrivere qualcosa che avesse un'impronta rock, e che potesse essere ricordato come la sua "My Sharona".
Alla fine fu deciso che potevano arrivare al traguardo solo nove canzoni: tre scritte da Temperton ("Baby Be Mine", "The Lady In My Life" e quella che in un primo tempo si chiamava "Starlight" ma che finì per essere la title track), quattro da Jackson ("Wanna Be Startin' Somethin'", "The Girl Is Mine", "Billie Jean", "Beat It"), una scritta da Steve Porcaro dei Toto insieme a John Bettis ("Human Nature") e una da Quincy insieme a James Ingram ("P.Y.T").

La prima sessione di quello che sarebbe diventato il disco più venduto della storia della musica registrata cominciò a mezzogiorno del 14 aprile 1982 nello studio A dei Westlake Audio in Beverly Boulevard a Hollywood, e fu il duetto vocale con Paul McCartney in "The Girl Is Mine" (il predestinato primo singolo) a tenere a battesimo le incisioni su nastro. Le parti strumentali del brano furono eseguite interamente dai Toto (come anche quelle di "Human Nature"), ormai da anni sessionmen di assoluto valore, e che si stavano in quel momento godendo il successo di "Toto IV".

"Starlight" fu registrata per intero una prima volta senza corrispondere alle aspettative di Jones, che riteneva fosse debole a livello di testo. Lui stesso propose una variazione sul tema in direzione horror, trovando terreno fertile in Michael, che si stava appassionando al genere letterario e che aveva appena visto "Un lupo mannaro americano a Londra".
Il titolo divenne "Thriller" e fu la moglie di Quincy, Peggy Lipton (attrice nella serie di successo "Mod Squad" e con un passato di ex-fidanzata di Elvis Presley e Paul McCartney), a proporre il coinvolgimento di Vincent Price, per il quale Temperton si immaginò una sorta di "horror story" da declamare in forma di tre strofe parlate durante un intermezzo.
Il giorno in cui Price arrivò in studio dovette prima di tutto superare il trauma dell'utilizzo delle cuffie per sincronizzarsi con la musica (come attore non lo aveva mai fatto), ma gli ci vollero soltanto un paio di take per recitare con il suo inconfondibile stile la sorta di sonetto vagamente Edgar Allan Poe che Temperton aveva scritto su un taxi la notte precedente venendo ai Westlake (alla fine soltanto due delle tre strofe furono utilizzate per la versione finale).
Swedien mise in campo tutta la sua meritata fama: il solo intro del pezzo, a base di "spaventosi" scricchiolii, tuoni, passi, ululati (gli ultimi due fatti dallo stesso Jackson), occupava tutte le 24 tracce di una bobina (Bruce era un esteta della registrazione stereofonica, al punto da aver sviluppato un metodo per sincronizzare più registratori a nastro contemporaneamente, battezzato The Acusonic Recording Process, e avere così più spazio possibile - fondamentale quando ogni strumento occupa due tracce).
Una tale ricercatezza aveva prodotto una song stratificata e affascinante, che meritava di diventare più di un semplice episodio nel disco. Q iniziò a maturare l'idea che potesse dare il nome a tutto il lavoro.

Quincy JonesJones aveva un soprannome per tutti: Temperton era "Worms", dal nome della cittadina tedesca nella quale aveva abitato, Swedien era "Svensk" (in pratica la traduzione del suo cognome in svedese) e Michael era "Smelly", perché quando sentiva che qualcosa stava suonando con il groove giusto era solito dire "That's some smelly jelly!"
E le differenze di vedute tra Smelly e Q da questo punto di vista non mancavano. Un esempio classico è l'inizio di "Billie Jean", che Jackson sosteneva avesse bisogno di numerose battute di batteria e basso introduttive (perché era proprio quello che gli faceva venire voglia di ballare), mentre Q le riteneva esagerate (e Svensk iniziava a preoccuparsi in generale della durata eccessiva di quasi tutti i brani).

L'ultimo brano a essere registrato fu "Beat It", il corrispettivo (in stile Jackson) di "My Sharona", fortemente voluto da Jones. Per conferire adeguata aggressività al sound, Q mise nuovamente in campo il marchio di fabbrica Toto, nella fattispecie Steve Lukather (che suonò il riff portante di chitarra e di basso), ma per l'assolo ritenne necessario chiedere il coinvolgimento di qualcuno in grado di dare il famoso brivido al pubblico bianco.
E il brivido lo ebbe in primis lui quando telefonò a Van Halen, ricevendo in cambio una sequenza di insulti. Eddie era convinto che si trattasse di uno scherzo telefonico e sul momento non ricordava nemmeno che ci fosse un Quincy tra le sue conoscenze. Dopo aver realizzato con chi stava parlando, valutò che i suoi compagni di band non erano in città e riflettè "Perché no? Chi lo verrà mai a sapere?" (la policy interna del gruppo vietava espressamente il featuring in altri progetti).
Il chitarrista arrivò in studio e trovò ad attenderlo un paio di grossi amplificatori Gibson. Chiese cosa doveva fare e Quincy rispose "Fai quello che vuoi".
Eddie, ridendo: "Occhio a quando dici una cosa del genere, se sai un minimo di cose su di me dovresti essere più cauto a lasciarmi carta bianca!".
L'assolo fu improvvisato e completato in un paio di take, dopo che lo stesso Van Halen chiese e ottenne il permesso di cambiare l'arrangiamento del pezzo nella sezione in cui doveva suonare. In totale, neanche mezz'ora di lavoro, per un compenso che la leggenda vuole stimato in due confezioni di lattine di birra (e che con tutta probabilità Eddie si portò invece da casa). D'altronde, non si era mai parlato di un accordo economico vero e proprio, perché Van Halen considerava la collaborazione un semplice favore fatto a Q.
Erano i momenti conclusivi della produzione. Swedien fece appena in tempo a mixare la versione definitiva di "Beat It" sulla sua console Harrison 4032 e consegnare il master del disco a Bernie Grundman per la stampa nei termini stabiliti dalla Epic. Completare il lavoro entro la deadline aveva reso necessario utilizzare in contemporanea ben tre studi del Westlake, con ritmi di lavoro altissimi.
Le aspettative erano nel frattempo cresciute a dismisura.

Arrivò il momento di ascoltare il primo test pressing vinilico, alla presenza di tutti, guru della Epic compresi.
E fu un disastro.
Il vinile restituì ben poco dello splendore dinamico dell'album (determinante per suonare potente in radio) poiché, nell'enfasi generale del groove, l'intero team non si era accorto (a parte Svensk) che era stato prodotto troppo materiale.
Ventotto minuti di musica su ogni lato erano un'immensità per un supporto la cui profondità dei solchi (e la conseguente resa dinamica) era sacrificata in favore della quantità.
Nella stanza scese il gelo, e tutti si defilarono in sequenza come se fosse morto qualcuno.
Seguirono, nell'ordine, silenzio, disperazione e fitti conciliaboli per cercare di portare a casa il risultato.
Alla fine, dopo aver comunicato alla Epic che il disco in quella condizione non era distribuibile, Quincy decise per due giorni di pausa meditativa, alla quale fece seguito la revisione del materiale (una canzone al giorno), per un totale di otto ulteriori giorni di lavoro ("The Girl Is Mine" era già numero due in classifica e non poteva essere toccata).
Rod eliminò una strofa da "The Lady In My Life", Q ebbe la meglio su Smelly a proposito del lunghissimo intro di "Billie Jean". Ogni canzone venne re-editata e re-mixata fino ad arrivare ai fatidici ventuno minuti per lato dell'edizione che vide finalmente la luce sugli scaffali dei negozi.
Il resto divenne storia, anche al di sopra delle attese.

Il pubblico si trovò tra le mani qualcosa di nuovo per l'epoca, qualcosa da masticare come un chewing-gum e amare come una reliquia, un oggetto fatto di groove e paillettes, ma anche di brividi e calci negli stinchi. Un disco i cui singoli occuparono la programmazione di Mtv per mesi, e che arrivò a tutti, indistintamente, uomini e donne, adulti e bambini, bianchi e neri (dicotomie di cui in pratica Michael sembrò far parte per tutto il resto della sua vita). Fu il primo vero ritratto a tutto tondo di Jackson, e fu Quincy Jones a metterci la cornice.