Van Halen

Van Halen

1978 (Warner Bros)
hard-rock

Figlio…
Sì pa'?
Siedi. Dividiamoci una sigaretta. E beviamoci anche una bella Heineken.
Ok pa'!
Edward… Figlio, ce l’hai!

Come un virus, una sindrome, un peso, una responsabilità, un destino. Edward ce l’ha. Quindici anni, una chitarra, tanta musica in testa e nessuna ansia. Anche se tuo padre, artista jazz, esempio, guida, modello da rimirare e seguire ti ha fatto notare che sì, sei un predestinato, ce l’hai, lo swing, come lo chiama lui mentre trascorre i pomeriggi tenendo una nota all’infinito, cercando la perfetta intonazione. Qualcosa di caratteristico che ti distingue dalla massa, volente o nolente. Lo sai tu, lo sa tuo padre e tanto basta. Per tutto il resto c’è la birra, le sigarette, le strade assolate di Pasadena, il fratello Alex con cui rivaleggiare e crescere, mamma Eugenia sospettosa ma comprensiva. La casa madre Olanda è lontana, così come le ore passate a solfeggiare di fronte a un pianoforte; lui è sempre lì, con i suoi tasti d’avorio e le infinite possibilità orchestrali, ma ora c’è la California, strani ragazzi che sfrecciano su tavole chiamate skate, veloci, pericolosi, aggressivi, disinvolti, irrispettosi. Ma che eleganza?! Che sfrontatezza?! Perché non tentare simili evoluzioni sulla tastiera della propria, splendida, Tesko da quattro soldi?! Lì fuori c’è tutto un mondo rock da cui attingere. Ci sono i Cream, c’è Clapton, musica avventurosa, blues e rock che sfociano nell’improvvisazione jazz, che si lanciano nel vuoto senza mai perdere il controllo. C’è il suono, quello che viene fuori dai Marshall, grosso, dilatato, tremendamente simile a quello di un sassofono. Un frastuono da controllare, domare e, chissà, ridefinire.

Ed eccoli gli anni della rincorsa, le stagioni della passione, dell’ambizione, della follia giovane. Per Edward, divenuto Eddie, c’è solo la musica, tanta. Ore passate a suonare, non a fare pratica, mero esercizio. E’ proprio un abbandono dal sapore mistico, mentre sul piatto si susseguono misteriosi vati della sei corde, britannici e semisconosciuti, Ollie Halsall (Patto, Kevin Ayers), Allan Holdsworth (Tempest, Soft Machine, UK, Bruford), la fluidità del legato, il jazz-rock che irrompe e rimescola gli accenti, e Alex che dà man forte dietro le pelli, creando una strana commistione ritmica nella quale i fratelli si inseguono, si sorpassano, paiono cavalcare onde che raddoppiano, triplicano la loro portata, sembrano non incontrarsi mai alla perfezione, quasi si intralciano, costruendo sincopi mai concluse e forse per questo ancora più gustose e, alla fine, sorprendentemente lineari. Eddie come Hendrix, Beck, l’idolo Clapton, Brian May è un perenne insoddisfatto nei riguardi delle sue armi, allora decide di costruirsele da solo, diventa un liutaio: acquista pezzi di Gibson, Fender e chissà cos’altro e li mette insieme, le rattoppa con lo scotch. Si ingegna per controllare il feedback, fa amicizia con un ragazzo che sa il fatto suo, Wayne Charvel, e da lui apprende l’arte del pickup immerso nella paraffina, la stessa sostanza usata, ma guarda un po’, su skate e tavole da surf. E poi, giunge l’intuizione che cambia tutto, la scoperta del suono che muta definitivamente le coordinate della distorsione chitarristica, l’ultima frontiera raggiunta e mai più superata fino a oggi: il Variac, una sorta di scatola che, collegata a un amplificatore valvolare, ne regola il livello di voltaggio, aumentandone non di poco sia la potenza sia l’escursione dinamica. L'amplificatore diventa così più ricettivo all'azione del plettro, consentendo una maggiore personalizzazione della tecnica, dell’attacco sulla singola nota, dell’espressività. Ne esce fuori un suono enorme, ricco di armoniche, mai udito prima. Eddie lo cattura, lo imbriglia, lo sfrutta grazie ad armi tecniche apprese, inglobate, espanse: hammering (legato), whammy-bar (leva del vibrato), tapping (utilizzo contemporaneo delle due mani sulla tastiera).

E arriva il momento dei balli scolastici, di nickname giunti in ritardo, Genesis, animaleschi, Mammoth, quasi a denotare la pesantezza della proposta: un hard-rock aggressivo ma sinuoso, corale, malizioso, truccato, grazie anche a due nuovi compagni di viaggio, Michael Anthony al basso e ai controcanti, David Lee Roth, reclutato perché possiede un impianto di amplificazione tutto suo. Diventano Van Halen, da Pasadena a Hollywood, Whiskey A Go Go, Gazzari’s, serate infuocate a bordo di un repertorio di 400 brani, molte le cover stravolte. Nel 1976 non ce n’è già per nessuno, ma nessuno lo sa. A parte Gene Simmons che li vede, rimane a bocca aperta e li presenta alle case discografiche. Respinti. E’ capitato anche ai Beatles.
Poi la Warner li blocca, li affida alle cure di Ted Templeman, il produttore dei Montrose, uno che se intende. Li scaraventa in studio, dieci giorni, non c’è bisogno di prove, giusto di qualche centinaio di birre e di sigarette. Qui succede il finimondo. Il quartetto sceglie undici brani da un repertorio provato e riprovato sui palchi fino allo sfinimento, nove originali, due le cover, e decide di registrarli in presa diretta, un paio le sovraincisioni concesse a quella che sembra quasi una scelta ideologica. Lo start sembra provenire dal clacson di un camion pronto a investirti, fregandosene delle strisce pedonali sulla Sunset Strip; il basso distorto di Anthony, una cascata di armonici e si parte con la saga del testosterone modulata in salsa neo-hard-rock, classica ma invece inedita. Un susseguirsi di riff ritmicamente ultra-incalzanti, con Eddie che abbandona gli abusati power chord e approccia l’arte della triade.
Tutto diventa più agile, svelto, animalesco eppure più raffinato, elegante. “Running With The Devil”, “Ain’t Talking About Love”, “Feel Your Love Tonight”, “I’m On Fire”, tematiche decotte che improvvisamente rinvigoriscono, anche grazie al carisma di un cantante che prova a fare il verso ai mitici screamer del rock duro, non ce la fa, la butta sull’ironia, sulla spaccata, su corde vocali che sembrano appartenere a un bluesman alla frutta ma che ben si adatterebbero a qualche serata in quel di Broadway; Frank Sinatra meets Cab Calloway, tutine aderenti e chili di guasconate.

Ritornelli perfetti e precisi al millimetro, immediatamente cantabili alla Beach Boys, così come gli interventi solistici del trapezista Eddie, invasati, velocissimi, lontani dal consueto utilizzo di accorgimenti bluesistici, ricchi di richiami bachiani, ma senza mai risultare accademici, pesanti. D’un tratto ti accorgi che un assolo te lo puoi pure cantare sotto la doccia, soprattutto uno di questi: “Eruption”, una scossa tellurica, poco più di un minuto e mezzo di scorrazzamenti lungo la tastiera della Frankenstrat, non più una chitarra, ma un mostro mutante, un’icona quasi istantanea. Un’eruzione, appunto, di note, di rumori, un campionario di sussulti, di fischi, senza nessuna sporcatura però, fino alla coda che atterrisce e affascina, stupisce e spaventa, con quella sequenza quasi sospesa nell’aria, fluidissima, intensa, classicheggiante, la mano destra che si appoggia sulla tastiera e allarga gli intervalli. Sembra uno strumento a fiato, no è un synth?! Invece è il Manifesto, del nuovo rock aerobico, di un’imminente era votata a un’inedita spettacolarità. Eddie raggiunge e supera i maestri della stratificazione dei suoni, dell’orchestrazione senza stratificare e orchestrare: sei corde, un controllo del volume, una leva, dieci dita e una testa così.

Dopo un simile biglietto da visita, tutto sembra concesso, anche la rilettura di uno dei dieci classici del rock di sempre: “You Really Got Me” è una lettera affettuosa alle proprie radici, la British Invasion che anticipava il rock virile. Qualcuno se la prende, quasi si offende, ma si tratta di una celebrazione, di un’enfatizzazione della già chiassosa idea originaria. Ray Davies se ne accorge, ringrazia e segnala, se ce ne fosse bisogno, il consueto break strumentale dell’olandese volante, un solo conciso ma incandescente, un piccolo riassunto della storia della chitarra, Chuck Berry, Scotty Moore, Cliff Gallup, rock’n’roll e rockabilly, Beck, Page, Hendrix, incastri bachiani, la leva tirata e rilasciata per dare lustro ai dive bomb, sorta di esplosioni ricreate.
Poi tocca pure a John Brim, il blues di Chicago, “Ice Cream Man”, l’intro acustico, chissà quanto volutamente parodistico, un ponte per l’ennesimo decollo di Eddie: una sventagliata da far rizzare i peli che si trasforma in una scorribanda ritmicamente avvincente.
Sembra di essere sulle montagne russe. Accade anche in “I’m The One”, giocattolo talmente coordinato da non soffrire la velocità smodata, tra incastri vocali degni di un musical e un portamento ritmico esagitato. Una bomba atomica, anzi un “Atomic Punk”, che con creste, spille da balia e sputi nulla ha a che fare, se non fosse per il tiro che la sbalza fuori dagli altoparlanti. Clima rovente e tante risate, professionalità e un sacco di vizi. Febbraio 1978, Los Angeles, California, surf, skateboard e un party infinito. Ma se vi siete fatti male, non cercate i cerotti, perché non li troverete, servono per rattoppare/decorare le chitarre di Eddie e dei milioni di suoi discepoli.

03/02/2013

Tracklist

1. Runnin' With The Devil
2. Eruption
3. You Really Got Me
4. Ain't Talkin' 'Bout Love
5. I'm The One
6. Jamie's Cryin'
7. Atomic Punk
8. Feel Your Love Tonight
9. Little Dreamer
10. Ice Cream Man
11. I’m On Fire