"Incontri ravvicinati del terzo tipo", "Inside Out", "L'uomo che fissava le capre", "Zookeeper", "The Heat", "Madagascar 2". Che cos'hanno in comune questi film? Una canzone. La canzone. Quella perfetta per le scene liberatorie, da all in finale: il suono che è una cosa sola col successo nelle imprese più disperate, ottenuto senza guardare in faccia a rischi e pregiudizi. "More Than A Feeling" compare in dozzine di lungometraggi, trailer, serie tv: è uno di quei pezzi, come "Gimme Shelter", che l'immaginario collettivo ha legato a una specifica sensazione. Quella così grandiosa e dirompente da essere - come da titolo - di più di una sensazione.
Merito del ritornello, impetuoso, trascinante, costruito su uno dei giri di accordi più robusti e orecchiabili della terra: sol maggiore - do maggiore - mi minore - re maggiore (I - IV - vi - V, lo stesso di "Mr. Brightside", "Shut Up And Dance", "Call Your Girlfriend", e - in ordine solo poco differente - "Summer Of '69", "Stitches" e "Die Young"). Con una ritmica di chitarra così grintosa da avere ispirato quel pezzo spacca-tutto che è "Smells Like Teen Spirit". E reso ancora più smargiasso da un florilegio di handclap, controcanti, controtempi. È un momento esaltante e catartico. Per quanto ormai cliché, la scelta dei cineasti è pienamente comprensibile: in termini di efficacia comunicativa, è irresistibile.
Divenuta leggenda come inno alla sfrontatezza, "More Than A Feeling" è in realtà una canzone nostalgica e sfaccettata. Non arriva dritta al ritornello (nonostante molti utilizzi cinematografici facciano convenientemente finta che sì), né d'altra parte lo chiude in maniera limpida e lineare - tranne che all'ultima riproposizione, non per nulla quella più impiegata dai filmmaker.
La sensazione che supera se stessa è costruita accuratamente, uno strato alla volta, a partire da un'intro acustica tra le più iconiche di sempre. Lasciamo i dettagli da nerd alla nota che chiude l'articolo e guardiamo i mattoni essenziali: un arpeggio alla dodici corde che entra in sfumato, coi bassi a saliscendi che chiudono un circolo potenzialmente ripetibile all'infinito. La strofa pacata che si sorregge su un drumming diradato, decisamente West Coast, paraculo il giusto per non rendere troppo affettata la coloritura da alba HDR. Quattro versi bastano per alzare il tono, complice il salto d'ottava con cui il cantante Brad Delp accompagna il passaggio chiave: "I closed my eyes and I slipped away" ("chiusi gli occhi e presi il volo"). Tutto prelude al ritornello, e invece: pausa della batteria. Riprende, e dal niente sbuca il sound di elettrica più sgargiante che si sia mai sentito. Giusto due battute, quel che basta perché la linea indimenticabile di Tom Scholz conduca dritta nei quattro chiassosissimi accordi che tutti ricordano. Sono passati quasi venti secondi dalla fine della strofa, ma in fatto di grandeur l'atmosfera è esplosa. Ora sì, è davvero il momento di lasciarsi andare. BAA-ba-ba-BA-BA/BA-ba-ba-BA-BA!
Cotanto dispiego di energia non può che lasciare inebriati, ma già arriva la nuova sorpresa: il ritornello non finisce come dovrebbe. Anziché chiudere il giro, piazzare lì un bel sol e chi si è visto si è visto... Che succede? Perché il clima si è fatto sospeso? Un attimo prima si era all'apice della carica, il testo citava questa "old song" e riportava in vita tutte le sensazioni al loro massimo grado... E adesso invece si sente di questa "Marianne walkin' away"? Chi diamine sarebbe Marianne, e com'è che si è portata via tutto lo slancio della canzone?
Il fatto è che "More Than A Feeling" è una canzone sul gusto agrodolce dei ricordi. Tom Scholz l'ha creata (e dice di averci messo cinque anni!) con in mente "Walk Away Renée" dei Left Banke, pezzo baroque pop che fa della doppiezza gioia/malinconia la sua essenza. È quella la "old song"? Chissà. Certo è però che di tracce nella composizione ne ha lasciate, visto che un paio di progressioni armoniche sono riprese tali e quali. E Marianne? Una vecchia fiamma - ma non di Scholz, del suo cugino più anziano. Una memoria vaga, allontanatasi molto tempo prima, e che però in pochi istanti torna più presente che mai... Solo per scomparire poco dopo, con la stessa rapidità con cui si è presentata. Ma non per sempre. Il potere di far sgorgare immacolate le sensazioni è ancora lì, nella musica: basta farla squillare e riecco ogni momento ed emozione, "as clear as the sun in the summer sky".
Assolo. Uno dice: vabbe', nelle canzoni di quegli anni c'era sempre un assolo. Vero. Ma questo non è un assolo. È la cosa più colossalmente raggiante che sia mai uscita da una chitarra. Tant'è che, a dire il vero, le chitarre sono almeno due (più la ritmica, si intende): una, sdoppiata sui due canali stereo creando un effetto corale, domina il centro della scena; l'altra saltella da un lato all'altro raddoppiando la linea melodica prima una terza, e poi un'ottava sopra. Enfasi pura, condensata in venti secondi o poco più. Oltre a così non si può fare. Ritornello. Fade out.
È inutile girarci attorno: tutte le frecce che i Boston avevano al loro arco, se le sono giocate in "More Than A Feeling". Le altre tracce non aggiungono nulla: rileggono gli stessi spunti, andando in cerca di altre possibili declinazioni di quel mirabolante sound. Almeno le due successive, "Peace Of Mind" e "Foreplay/Long Time", sono comunque pezzi imperdibili, e il resto dell'album rappresenta un contorno del tutto appagante alla formidabile tripletta di apertura.
"Peace Of Mind" mostra al meglio che cosa debba intendersi per "rilettura degli stessi spunti". Gli accordi su cui è fondata sono quelli del ritornello di "More Than A Feeling", cambiati di ordine e alzati di due toni. Il pezzo, galvanizzante dall'inizio alla fine, alterna lo shuffle rock'n'roll della strofa con un chorus tutto armonie vocali prese in prestito da un decennio buono di folk-pop e barocchismi post-Beach Boys. Tutto procede secondo il copione già sperimentato: c'è lo stacco sorprendente ("Take a look ahead"), ci sono gli stop 'n' go e i riffoni megagalattici, c'è l'assolazzo larger than life... Alt, un attimo: questo non lo si può davvero liquidare così. Il doppio/triplo solo di Scholz, che parte poco dopo il terzo minuto, è qualcosa di fuori dal mondo, un rimpallo stereofonico di schitarrate hard che dopo un paio di botta-e-risposta convergono in un'entità totalmente anacronistica: un frammento di death melodico anni Novanta trapiantato nel bel mezzo dei Seventies americani. In venti secondi scarsi qui, e in altri quindici e poco nell'intro di "Something About You", la sovrapposizione di più linee solistiche armonizzate viene portata a un livello di magniloquenza che sarà superato solo nella Svezia di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity - non per nulla, la terra che negli anni Ottanta sarà patria di una florida corrente tardo-Adult oriented rock direttamente debitrice dello stile di Boston e accoliti.
Scholz, compositore pressoché unico, principale musicista e indiscusso leader della band, ha intuito una dottrina semplice: con una chitarra, il rock è bello; con due è meglio; con tre è il meglio del meglio... E così ad aumentare. Per la coda strumentale di "Peace Of Mind", arriva a sovrapporre una dopo l'altra almeno sei diverse parti chitarristiche. Come sempre nel disco, non la tira in lungo più di tanto, ma la breve durata non impedisce di riconoscere il passaggio come uno degli apici di grandiosità raggiunti dalla musica rock di ogni epoca.
Bordate hard, arpeggi folk, armonie vocali di stampo West Coast, progressioni baroque pop miste a giri di accordi buoni per dozzine di tormentoni da spiaggia: questi gli ingredienti fin qui, per i Boston e per il nascente filone heavy Aor di cui sono pionieri. A volerla raccontare giusta, però, manca una componente fondamentale, che arriva da oltreoceano: il prog. Già elemento chiave della formula di Kansas e Styx, nei Boston la lezione progressiva è riproposta in modo meno vistoso, ma se possibile anche più roboante. In fin dei conti, è dal connubio rock/classica (di cui è grande appassionato) che vengono tutti gli orpelli neoclassici con cui Scholz infarcisce i suoi fraseggi, ed è ai cambi di atmosfera in cui i britannici sono maestri che guarda quando segmenta le sue canzoni (finendo poi un po' sempre per prediligere le tinte più enfatiche).
"Foreplay/Longtime" è la traccia in cui tali influenze si mostrano in maniera più plateale, da un lato con lunga intro a base di organo Hammond ("Foreplay"), dall'altro nei giochi di addensamento e rarefazione che alimentano "Longtime", secondo singolo estratto dall'album subito dopo "More Than A Feeling". I riferimenti di Scholz sono tutti diretti all'ala più rockeggiante del filone: i Deep Purple e gli Uriah Heep con la loro furia organistica, i Wishbone Ash che furono fra i primi a scommettere sull'armonizzazione delle linee chitarristiche, gli Yes il cui Steve Howe ha sempre mostrato di non disdegnare affatto gli strumming più classicamente rock'n'roll.
Episodio unico nell'album assieme alla conclusiva "Let Me Take You Home Tonight", "Longtime" non vede Scholz protagonista assoluto delle chitarre: in entrambi i pezzi, è il secondo chitarrista Barry Goudreau a occuparsi delle linee principali e degli assoli. Dal vivo, per ovvie esigenze di performance, la responsabilità delle parti chitarristiche è divisa tra Scholz, Goudreau e il cantante Brad Delp. In studio, però, è usualmente Scholz a regnare sovrano: d'altra parte, i Boston nascono e sostanzialmente restano pressoché una one-man band. Ingegnere diplomatosi all'M.I.T., già all'inizio degli anni Settanta Scholz aveva costruito nello scantinato di casa sua uno studio di registrazione, nel quale metteva a punto congegni per rendere unico il suo sound chitarristico. I nuclei dei brani del primo album furono composti da Scholz molto prima di quel 1975 in cui, grazie a un demotape inciso nel suo studio personale, riuscì ad attrarre l'attenzione della Epic/Cbs. L'etichetta desiderava che l'esordio della formazione (che comprendeva, in veste di esecutori, anche Delp, Goudreau e il batterista Sib Hashian) fosse registrato in uno studio professionale, ma Scholz non era dello stesso avviso. Così, in accordo col coproduttore John Boylan, architettò un piano per far star tranquilli i discografici: mentre Boylan sarebbe volato in California con il resto della band per incidere la sola "Let Me Take You Home Tonight", scritta da Delp, Scholz avrebbe completato il lavoro sul grosso del disco. Fu anche trovato un modo per spendere almeno un poco dell'ampio budget a disposizione: Boylan aggiunse alla nota spese la chitarra acustica custom da migliaia di euro acquistata da Delp durante le session californiane. Nel frattempo, in uno scantinato di Boston, Tom Scholz registrava alcune delle più grandi hit della storia della storia del rock con una Yamaha acustica da 100 dollari.
La devozione di Scholz al rock'n'roll è testimoniata da "Rock'n'roll Band" e "Smokin'". Entrambe basate su un'ossatura boogie irrobustita dalla consueta dose di chitarroni, divergono alquanto nello sviluppo. La prima, un mix di ritornelli power-pop e controtempi stile John Bonham, è la celebrazione della carriera di una rock band, dai bar agli stadi. Nonostante l'incipit apparentemente autobiografico ("Well, we were just another band out of Boston"), è falsa negli eventi descritti tanto quanto gli schiamazzi del pubblico aggiunti da Scholz nel suo studio domestico. "Smokin'", B-side di "More Than A Feeling", rispolvera invece l'armamentario pomp-rock fatto di organo, Clavinet e progressioni classicheggianti, e lo incastona in un andazzo un po' ZZ Top. A parte la già citata "Let Me Take You Home Tonight", si tratta dell'unico brano alla cui composizione abbia contribuito anche Brad Delp.
Con la sua partenza quasi bucolica, che in un minuto e mezzo evolve in un'esplosione di organo e effetti chitarristici, "Hitch A Ride" è forse la sintesi più completa del sound Boston, un incontro di opposti che riesce a conciliare in pochi minuti la potenza delle chitarre distorte coi ritmini flemmatici degli Eagles e di Jeff Porcaro, l'immediatezza dei giri da quattro-accordi-quattro con la caleidoscopicità del progressive rock.
Oggi meno ricordate dei tre pezzi di apertura, anche queste canzoni sono state per anni degli standard per le stazioni radio Fm, che proprio in quegli anni andavano consolidando un formato basato su playlist comprendenti anche deep album tracks, ovvero brani che non fossero stati proposti dalle etichette come singoli.
Uscito a fine agosto 1976 e spinto in radio da una tracklist considerata all killer no filler, l'album partorito in uno scantinato scala gradatamente le classifiche e a dicembre 1976 si piazza al terzo posto come album più venduto negli Stati Uniti (sopra ha "Songs In The Key Of Life" di Stevie Wonder e "Night On The Town" di Rod Stewart). Mantiene la posizione per un mese e passa, poi cede ai Wings (nel frattempo, in vetta è arrivato "Hotel California"); ci vorranno altri quattro mesi perché abbandoni la top 10. A oggi, è con oltre 20 milioni di copie e diciassette dischi di platino tra gli album di debutto più venduti della storia.
La band fa fuoco e fiamme nei live e la sua pervasività stupisce i promoter: non solo nel 1977 piazza tre sold out al Madison Square Garden di New York, ma i suoi concerti riempiono le arene in tutto il Midwest. È una circostanza nient'affatto comune per l'epoca, abituata ad artisti dal successo più geograficamente connotato.
Lo spopolare del disco crea grande attesa verso le future uscite a nome Boston, ma il seguito si fa attendere. Vincolato dal contratto con Epic a sfornare dieci album in sei anni, Scholz fa passare due anni e pubblica il secondo "Don't Look Back" solo nel 1978 sotto le insistenti pressioni dell'etichetta. Queste avrebbero, a detta dell'artista, compromesso il risultato, ma il pubblico sembra farci poco caso: pur vendendo complessivamente meno del debutto, l'album schizza al primo posto della classifica statunitense e il tour successivo va alla grande. Le impressioni dell'epoca non mancano di osservare come la formula sia sostanzialmente la stessa del debutto, con tanto di autocitazioni e giusto un pizzico di "Don't Fear The Reaper" in più nel singolo di lancio (pure intitolato "Don't Look Back"), ma complessivamente anche la ricezione della critica è positiva. Scholz, però, rimane insoddisfatto.
Deciso a riprendere il pieno controllo del progetto e dei suoi tempi, rompe con Epic e, dopo una lunga battaglia legale, firma per Mca. Nel frattempo, ha rimesso in gioco la sua vocazione ingegneristico/smanettona e ha fondato la Scholz Research & Development, Inc., compagnia che dà vita al processore multieffetto per chitarra Rockman (utilizzato, fra gli altri, anche da David Gilmour). E ha lavorato alle idee per il terzo album. "Third Stage" esce nel 1986 dopo otto anni di gestazione, con una formazione e un clima musicale completamente diversi rispetto ai tardi Settanta dei due dischi precedenti. Questa volta lo stacco stilistico è percepibile, fin dalla ballatona di apertura, "Amanda" che, prima e unica volta nella carriera della band, si guadagna il primo posto come singolo. I toni dell'album (primo posto anch'esso) sono questa volta assai vari, con accenni quasi metal alternati a passaggi più atmosferici, a volte più cupi a volte più trasognati. Il tutto creato da Scholz con un largo impiego del Rockman: sebbene l'orecchio possa far credere il contrario, non sono stati impiegati elementi sintetici o orchestrali. Dieci anni dopo aver sorpeso il mondo, la vena creativa dell'ingegner Scholz è ancora in grado di far domandare: e questo suono da dove diavolo esce?
Nota nerd su "More Than A Feeling"
Si sarà capito: "More Than A Feeling" sembra semplice semplice, ma in realtà è un meccanismo a orologeria. Senza stare a porsi inutili quesiti sulla consapevolezza compositiva degli autori, ecco una piccola disamina di quel che succede nei suoi poco meno di cinque minuti, quantomeno a livello armonico. Innanzitutto, non c'è accordo riguardo alla tonalità. Recita la Wikipedia inglese: "La canzone è scritta in sol maggiore, ma gli spartiti pubblicati indicano erroneamente i versi come in re maggiore". Erroneamente? Tutta l'intro e tutta la strofa sono costruite su un re maggiore arpeggiato, a cui vengono aggiunti vari bassi (fra cui il sol). La linea melodica segue la scala di sol maggiore, ma fa perno sul la e non sul sol - circostanza che identifica il modo dorico. Abbiamo insomma una strofa incentrata sul la, basata su un accordo di re, che percorre una scala di sol. Certo, si può tagliare la testa al toro e dire che è in sol, ma così si nasconde l'aspetto più significativo di questa strofa, l'essere in bilico tra tre centri: la-re-sol, esattamente le tre note che aprono l'arpeggio (la successiva è invece un fa#: teniamolo a mente, tornerà utile dopo). È una strofa serena ma crepuscolare, che attende la venuta di più luce e più energia.
Il ritornello scioglie l'ambiguità, guadagnandone in radiosità: è chiaramente in sol maggiore, e si conclude melodicamente sul sol, in corrispondenza di "'Til I see Marianne walkin' away". Proprio qui però la nitidezza va a incrinarsi. Noncurante della linea melodica, "walkin' away" chiude armonicamente non sul primo grado (sol maggiore) ma sul sesto bemolle (mi bemolle maggiore): una cadenzadi tipo decisamente raro. Che cosa sta succedendo? Osserviamo da vicino il procedere degli accordi (in una delle tante trascrizioni disponibili):
G C E♭Il movimento alla fine del ritornello è I - IV - VI♭. Ci si sarebbe potuti aspettare, invece, I - IV - I. E in effetti un accordo di sesta bemolle è un possibile "sostituto" del primo grado, poiché condivide con questo una nota (proprio la fondamentale: nel nostro caso, il sol). Grazie a questa proprietà, quel mi bemolle può essere "infilato" nella progressione al posto dell'accordo conclusivo, dandole varietà senza però renderla irriconoscibile. Resta tuttavia una scelta anomala: come la si può leggere?
'Til I see Marianne walk away,
Em7 [...]
I see my Marianne walkin' away
24/10/2021