In Flames

In Flames

La fuga dei giullari metal

Inizialmente tra i padri della scena metal di Gothenburg, gli In Flames hanno dato vita a forti controversie per via delle loro svolte sonore e della loro "americanizzazione". Ripercorriamo le tappe attraversate da una delle formazioni più discusse e di successo di Svezia

di Alessandro Mattedi

Gli svedesi In Flames sono una delle formazioni metal più controverse, per via della loro propensione trasformista. Inizialmente compresi tra le figure di riferimento del cosiddetto melodic-death-metal, hanno poi abbandonato il genere dando vita a svolte radicali nella musica e nell'immagine. Avvicinatisi all'alternative-metal, si sono poi discostati anche da questo, virando verso un suono più melodico e schematico. Negli ultimi anni sono stati identificati soprattutto con la figura preminente del vocalist Anders Fridén, ma la loro carriera è lunga e costellata di vari momenti salienti, oltre che di musicisti talentuosi che hanno fatto parte del loro organico.

Tra i tre "grandi" di Gothenburg, insieme a At The Gates e Dark Tranquillity, gli In Flames in realtà sono in realtà gli ultimi in ordine cronologico ad apparire e a contribuire allo sviluppo del melodic-death-metal. Sono saliti alla ribalta quando la corrente era già avviata e molti dei suoi elementi caratteristici già istituzionalizzati. Ciò nonostante ne sono stati tra i più efficaci e influenti interpreti: tra la fine degli anni 90 e l'inizio dei 2000, numerosi gruppi in Europa e America hanno attinto al loro repertorio.
Non sono stati neanche i primi a sperimentare l'uso sistematico della voce pulita e a volersi distanziare in maniera plateale dal melodic-death per adottare nuovi suoni: concettualmente i Dark Tranquillity li hanno anticipati anche in questo, pur muovendo da stilemi differenti da quelli che influenzeranno gli In Flames. Ma se i Dark Tranquillity hanno poi recuperato gli elementi basilari del genere, pur in una forma personalizzata e "di confine", gli In Flames sono andati ben oltre gli intenti iniziali, abbandonando del tutto le loro origini per trovare punti di contatto tra la sensibilità del metal scandinavo e le contaminazioni del metal alternativo americano. La volontà di cercare di costruire un ponte tra le due scene porterà loro un'accresciuta fanbase e un enorme riscontro commerciale, rendendoli uno dei gruppi metal più famosi di Svezia; per contro, tutto ciò alienerà loro le simpatie dei fan della prim'ora, alimentando una delle controversie più celebri in ambito metal.
Ascoltare due album o canzoni a caso degli In Flames può far pensare a un errore, tanto diversi, se non addirittura antitetici possono risultare i loro stili. Effettivamente, considerando i vari cambiamenti di line-up, gli In Flames del primo album non c'entrano nulla con quelli del secondo, perché non condividono nemmeno un membro; ma si tratta di due estremi ai confini di una carriera discografica che in realtà ha visto i principali cambiamenti ad opera di una stessa stabile formazione.

Ma partiamo dagli inizi. La nascita della band è frutto della volontà del polistrumentista Jesper Strömblad, che nel 1991 entra come bassista nei Ceremonial Oath, che per certi versi anticipano il sound dei primi In Flames e sono tra i fondatori del melodic-death-metal. Il gruppo è mosso dall'intento di trovare un equilibrio tra il death-metal, il thrash-metal tedesco (Kreator, Distructor) e l'heavy-metal classico (Iron Maiden, Judas Priest, Mercyful Fate). Strömblad vorrebbe dare un'impronta ancora più melodica e maideniana alla sua musica, ma non trova l'approvazione dei colleghi che vorrebbero invece mantenere un approccio più rude e underground. Dopo la pubblicazione di "The Book Of Truth" nel 1993, a tutti gli effetti un tassello storicamente importante nella nascita del melodic-death-metal (seppur dimenticato dai più per i risultati appena sufficienti a livello qualitativo), Strömblad lascia il gruppo per formare quello che inizialmente considera uno dei suoi tanti side-project ma che poi diverrà la sua principale creatura: gli In Flames, per l'appunto. Nel frattempo, nel Regno Unito i Carcass pubblicano "Heartwork", in tutto e per tutto un disco pioniere del death-metal melodico che attinge da heavy-metal e hard-rock e ispira numerosi musicisti a prenderne spunto, tra cui il nostro svedese.
Con una formazione improvvisata in cui entrano Glenn Ljungström alla chitarra e Johan Larsson al basso, mentre Jesper Strömblad si occupa della batteria, il temporaneo trio registra una demo di sole tre canzoni che viene presentata all'etichetta indipendente Wrong Again Records. A dispetto dei timori iniziali per un lavoro molto affrettato e acerbo, la demo piace. Al momento di firmare il nuovo contratto, Strömblad mente affermando di avere già tredici canzoni pronte e incise, mentre in realtà ha solo le tre presentate. La label acconsente con entusiasmo.

Leggenda vuole che il promoter della label avesse chiesto di ascoltare subito il resto del materiale e che Strömblad avesse passato l’intera serata a scorrere l’agenda telefonica in cerca di amici disposti a registrare dieci canzoni in meno di due giorni. In realtà ci volle ancora qualche mese prima di entrare in studio, nella fattispecie gli Studio Fredman di Fredrik Nordström, che aveva appena finito di lavorare proprio a “The Book Of Truth” dei Ceremonial Oath e che avrebbe di lì a poco ospitato gli At The Gates per “Terminal Spirit Disease”, iniziando a definire un sound per il metal di Gothenburg.
Il risultato è Lunar Strain e anch'esso, pur ancora acerbo, ottiene buoni riscontri nell'underground svedese. Per le parti al microfono viene chiesto a Mikael Stanne dei Dark Tranquillity di offrire la sua voce. La sua prima prova in growl/scream è terribile, ma in futuro con la sua band principale migliorerà nettamente. Per il momento serve unicamente allo scopo di confezionare dei brani da presentare all'etichetta. I due colleghi invitati nella demo vengono confermati, ma accanto a Glenn Ljungström (con cui Strömblad divide a metà il songwriting) come chitarrista c'è Carl Näslund. Le sessioni d’archi vengono invece affidate a Ylva Wåhlstedt.
Lunar Strain è complessivamente ancora fedele ai canoni del death-metal, ma con un piglio più melodico nei riff e negli arrangiamenti. In questi elementi si riscontra il retaggio dei Ceremonial Oath portato con sé da Strömblad. Nonostante la pessima produzione, che rende le distorsioni confuse, il disco influenza la scena estrema svedese consolidando il melodic-death-metal. È anche uno degli album melodeath più ispirati dal folk: ne troviamo traccia negli inserti di chitarra acustica in “Behind Space” e “In Flames”, di viola in “Starforsaken”, ma soprattutto nella malinconica ballata acustica “Everlost, Part II” (con voce femminile di Jennica Johansson) e nella divertente “Hårgalåten” (con duello di violino e chitarra elettrica).
Dopo la pubblicazione del disco, Strömblad decide di abbandonare la batteria per diventare il chitarrista principale (è un polistrumentista ma il suo strumento primario è la chitarra). Accanto a lui, come secondo chitarrista conferma Glenn Ljungström e come bassista Johann Larsson. Per le parti vocali, invece, invita Henke Forss, mentre rimane vacante il posto di batterista, inizialmente affidato a Daniel Erlandsson, che però non può dedicarsi 100% al gruppo (in futuro diverrà famoso con gli Arch Enemy e i Brujeria).

Nel giugno 1995 esce Subterranean, ufficialmente un Ep, anche se l’anno prima gli At The Gates avevano pubblicato “Terminal Spirit Disease” di lunghezza quasi identica, considerandolo un Lp. I Dark Tranquillity, invece, a inizio anno avevano pubblicato “Of Chaos And Ethernal Light”. Gli In Flames si mostrano relativamente più melodici dei loro concittadini, certamente meno tragici dei primi e meno imponenti dei secondi, ma più diretti e orecchiabili, proiettando già il loro melodic-death-metal a una iniziale contaminazione con l’heavy-metal di stampo britannico (lo stile si differenzia dai Carcass, facendo molto più affidamento a chitarre vibranti e veloci). Questa caratteristica piace molto nel settore: l'Ep sbanca in patria e gli In Flames vengono ormai considerati gli astri nascenti di Gothenburg.
L’inizio è affidato a “Stand Ablaze”, esplosiva e trascinante, che mette già in mostra il talento chitarristico di Strömblad, creativo e con molte idee in serbo. “Everdying” reintroduce gli spunti folk a spezzare il furore metallico, soprattutto nella malinconica, lunga coda. “Timeless” è invece una breve parentesi interamente acustica. Strömblad si rivela uno dei più sinceri appassionati di folk svedese nel campo metal: cerca di innestarlo quando possibile, dando ulteriore personalità alle proprie composizioni. “Biosphere”, invece, inizia come un tranquillo brano hard & heavy, per poi sfociare in un furioso e granitico death-metal, coniugando con disinvoltura dolce e salato. Le parti di batteria sono alternate tra Erlandsson e l’ospite Anders Jivarp dei Dark Tranquillity. Il disco è nuovamente registrato agli Studio Fredman, la produzione è migliore che su Lunar Strain ma ancora low-budget.
Nelle ristampe successive sono presenti alcune bonus track con quattro vocalist differenti e alcune cover (si segnala in particolare una dei Metallica, “Eye Of The Beholder”), ma il principale è Anders Fridén in una rilettura degli Iron Maiden.

Proprio Fridén è ora la chiave di volta del gruppo: nel 1993 lo troviamo nei Dark Tranquillity con i quali registra "Skydancer", mentre nel 1995 incide il poco incisivo “Carpet” con i Ceremonial Oath, l’ex-gruppo di Strömblad, che stringe un sodalizio con lui e lo convince a entrare in pianta stabile negli In Flames. Per la batteria, invece, viene trovato finalmente un membro fisso in Björn Gelotte, famoso meccanico musicista e polistrumentista a Gothenburg.
Completata così una formazione fissa, Strömblad può finalmente dare libertà creativa a quegli intenti che nel suo precedente gruppo vedeva limitati da paletti troppo rigidi, e gli In Flames possono dedicarsi anima e corpo a quello che per molti è il loro unico capolavoro: The Jester Race, pubblicato il 20 febbraio 1996. L’album va ben oltre le coordinate impostate dai Ceremonial Oath e segna un intrigante e coinvolgente punto d’incontro tra l’aggressività del melodic-death-metal, le armonizzazioni melodiche dell’heavy-metal e l’ormai marchio di fabbrica folk che influenza sia alcune distensioni melodiche sia gli inserti acustici. Soprattutto, il successo di critica e di pubblico fa sì che l’album componga la triade dei classici di Gothenburg assieme a “The Gallery” dei Dark Tranquillity e “Slaughter Of The Soul” degli At The Gates, usciti pochi mesi prima. Rispetto al primo, è sicuramente un album molto meno intricato e imponente, ma non per questo non capace di una certa raffinatezza nelle soluzioni melodiche adottate; rispetto al secondo, manca totalmente di atmosfere oscure, opprimenti ed esistenziali, ma a modo suo sa essere aggressivo e trascinante. 
“Moonshield”, introdotta da doppi attacchi acustici, lascia ben presto spazio a tripli attacchi di energica chitarra rockeggiante, su cui si staglia il canto-ruggito di Fridén. “The Jester's Dance” è una ballata metal, scandita dai bassi e dagli arpeggi puliti. “Artifacts Of The Black Rain”, “Lord Hypnos” e “Dead Eternity” sono tra i classici del melodic-death-metal, con riff veloci e aggressivi intrecciati con giri melodici accattivanti e power-chords di sostegno. “December Flower” e “Dead God In Me” mostrano il lato più furioso, estremo e deathster dell'album, mentre “Graveland” è più thrashy e l'assolo e i sintetizzatori di “Wayfaerer” sono un tributo all'heavy anni 80. 

The Jester Race si rivelerà negli anni seguenti molto influente per numerose formazioni melodic-death-metal, europee e non, che vi attingeranno in maniera massiccia, al limite del plagio. A trascinare il disco è soprattutto il duo Strömblad/Ljungström, a cui si aggiunge occasionalmente il batterista Gelotte, che è anche un virtuoso chitarrista, impegnandosi in doppi attacchi distorti e duelli di chitarra reminiscenti del metal britannico classico, strizzando l’occhio ogni tanto a “Heartwork” dei Carcass ma con un'identità sonora distinta. Da segnalare la maturazione e la crescita personale di Fridén, che prima di questa pubblicazione aveva lasciato molto a desiderare come vocalist, ma che ora si mostra più capace e solido, impegnandosi in un growl basso e rauco molto migliore delle sue precedenti performance. I testi sono scritti a due mani in svedese con Niklas Sundin dei cugini Dark Tranquillity, che poi li traduce in inglese perché Fridén non conosce bene la lingua (i due ideano anche la mascotte del gruppo, un giullare che ghigna stilizzato).

Il 1997 è l'anno d'esordio ufficiale degli HammerFall, gruppo power-metal che vede Jesper Strömblad come batterista (ma non nelle registrazioni in cui è rimpiazzato da Patrik Räfling) e principale compositore, affiancato proprio da Glenn Ljungström alla chitarra e a Johann Larsson al basso. Nessuno di loro tre rimarrà negli HammerFall per il secondo disco dell'anno successivo il gruppo rimarrà appannaggio invece di Oscar Dronjaks e Joacim Cans. Negli anni precedenti invece erano membri del gruppo anche Mikael Stanne e Niklas Sundin per i concerti, prima di concentrarsi sui loro Dark Tranquillity. A Gothenburg gli intrecci nelle collaborazioni sono un po' una telenovela, e una che esce fuori dalla porta rientra poi dalla finestra, spesso cambiando strumento e genere, altre volte mantenendoli. 

Nel 1998 gli In Flames ritornano con il loro terzo album in studio, Whoracle, smussando e rifinendo le loro sonorità. Il maggior pregio del gruppo svedese a questo punto è la disinvoltura nell'unire anime contrapposte senza far risultare il tutto forzato o sconnesso: continuano a convivere durezze ritmiche di stampo thrash/death e tocchi di classe nelle combo tra chitarra principale melodica e chitarra ritmica di sostegno, per creare riff intriganti e accattivanti. Il lato più death si personalizza ulteriormente, mentre quello più heavy e melodico mostra maggiore confidenza, soprattutto nell’elemento chitarristico che diviene più lineare e diretto, purtroppo perdendo una piccola parte dell’identità estrosa acquisita in The Jester Race (la struttura dei brani risulta un po' più schematica). Whoracle stilisticamente si può considerare un ottimo esempio di fusione tra melodic-death-metal, heavy-metal e influenze folk. Meno spiazzante del predecessore, si mostra comunque coerente ed efficace, divenendo un classico influente nella scena di Gothenburg. Il lato negativo sta nella produzione, un po' troppo secca e squadrata nei suoni.
Il trittico iniziale sintetizza schiettamente la capacità degli In Flames di giocare con melodia, grinta e aggressività: “Jotun” è un manifesto che abbina un appassionante impianto iniziale heavy-metal a sfuriate più estreme, guidate dal growl  bruciante; “Food For The Gods” è un imponente death melodico dalle atmosfere più frenetiche e inquietanti; “Gyroscope” ritorna sul lato più melodico, mescolandolo a elementi acustici in un intrigante heavy/folk che ha l'apice nel ritornello catchy (nonostante la ferocia di Fridén nel growling, ma è un merito il coniugarla all'orecchiabilità senza stonare) e nell'assolo morbido e sfumato. “Dialogue With The Stars” è uno strumentale metal vispo e accattivante, impreziosito da elementi folk. Ma è ancora poco rispetto a “Jester Script Transfigured”, vertice dell'anima folk malinconica del gruppo e capolavoro del disco assieme alla monumentale “Episode 666”, quest'ultima con alcuni dei riff più ispirati e coinvolgenti mai sentiti in ambito melodic-death: una progressione grandiosa delle melodie tra oscurità e radiofonicità. “Morphing Into Primal” è invece il pezzo meno riuscito: un thrash/death-metal banalotto e troppo ricalcato sugli At The Gates.
Vocalmente, il growl di Fridén si mantiene sui livelli del precedente album, forse facendosi opiù acuto, ma non di tanto. Il problema principale è che il growling non è una forma espressiva immediata e bisogna abituarcisi, e paradossalmente ciò risalta di più in sottogeneri melodici che per questo possono raggiungere una fetta di pubblico più ampia e meno avvezza a certi suoni. In alcuni frangenti compare anche, di sfuggita, la voce pulita di Fridén, ma si tratta giusto di un paio brevi contorni, cantati con una voce bassa e acidula. 
I testi sono ancora curati da Niklas Sundin sotto le direttive di Fridén. Il titolo, che nasce dalla fusione di whore e oracle, descrive un concept-album che parte dalla mitologia scandinava per tracciare delle premonizioni inquietanti e si sviluppa fino a descrivere una distopia in cui persino catastrofi apocalittiche sono spettacolarizzate dai media. Il filo narrativo è concluso all'improvviso con una cover dei Depeche Mode, “Everything Counts”, il cui intento è indicare che l'umanità ha causato la sua stessa rovina ma se ne è resa conto troppo tardi.
Tracciando un parallelo con i Dark Tranquillity, che lo stesso anno pubblicano "The Mind's I", gli In Flames suonano molto meno malinconici e passionali, ma più diretti e trascinanti. In entrambi i casi gli album sono chiusi da una title track strumentale acustica che ripete un motivo suggestivo. I due gruppi in questa fase si scambiano spesso idee, propositi, intuizioni e pareri, ed è normale, se non prevedibile, trovare alcune analogie. Stante ciò, è possibile anche che i piccoli interventi in voce pulita di Fridén abbiano contribuito a far decidere a Mikael Stanne dei Dark Tranquillity di sfruttare appieno lo stesso espediente in "Projector" l'anno seguente, ma il risultato sarà molto diverso, non solo quantitativamente, ma anche come timbro, atmosfere e qualità canore. E il primato a Gothenburg sull'uso sistematico della voce pulita andrà a questi ultimi.

Purtroppo, appena dopo la conclusione della registrazione del disco, Ljungström e Larsson lasciano il gruppo all'improvviso per divergenze artistiche che non verranno mai chiarite. La formazione si ritrova spezzata con un tour pressante e per l'occasione vengono reclutati Niclas Engelin e Peter Iwers per ricoprire i posti mancanti. Finito il tour, Engelin in maniera amichevole sceglie di non proseguire con il gruppo ma di concentrarsi sul proprio progetto melodic-death-metal personale, i Gardenian, con cui inciderà alcuni discreti dischi rimasti nell'underground. Teniamo a mente il nome Engelin perché lo reincontreremo più volte in futuro. Per il momento, comunque, il suo posto viene definitivamente preso da Gelotte, che decide di passare dalla batteria alla chitarra, mentre come nuovo batterista viene reclutato il portentoso Daniel Svensson, che si era fatto un nome nell'underground perché con i suoi Sacrilege aveva per breve tempo cercato di tenere in vita il suono degli At The Gates.

Nel 1999 in Colony il suono degli In Flames pone maggiore enfasi sull'impatto, sui virtuosismi (Gelotte vuole mostrare la sua tecnica) e sulla potenza. A risaltare è soprattutto la produzione pulita e curata, che esalta al massimo la dose massiccia di riff taglienti, assoli al cardiopalma, power-chords strepitosi, che gli svedesi con consapevolezza e grande ispirazione sfornano a iosa, quasi come un fan-service. Chi ne trae maggior giovamento è soprattutto Fridén, che sfodera un growl straziante e potentissimo come mai si era mai sentito e come mai più riuscirà a replicare. Una soluzione che deve molto anche alla produzione, come in “Ordinary Story”, dove il suo canto suona tanto delicato quanto ritoccato. Ma a essere valorizzato è anche l'assalto della batteria di Svensson: potente, veloce, precisa e ricca di combinazioni intriganti, rende alla perfezione con l'azzeccatissima scelta di produzione degli Studio Fredman. Le atmosfere sono leggermente oscure, merito anche degli inserti di hammond. Non è un album disperato o angosciante, se non in alcuni frangenti; piuttosto è tendenzialmente drammatico, sempre aggressivo, ma melodico.
“Embody The Invisible” è un'apertura esuberante, con chitarre brucianti, graffianti e orecchiabilissime che riescono a essere anthemiche come mai mostrato finora dal gruppo. Lo stesso effetto ottiene la fenomenale “Zombie Inc.”, con una delle migliori prove heavy del duo Strömblad/Gelotte, capace di urlare il feedback delle chitarre ad alto volume come se fossero loro la vera voce degli In Flames. 
La title track è travolgente e devastante ed è forse la prova migliore di Svensson, anche se tende a ripetere un po' troppo lo stesso riff portante. Il remake di “Behind Space” è il punto più estremo, viscerale e death del disco, mentre il ritornello di “Insipid 2000” è monumentale, trascinante ed epico. 
Viene quasi del tutto abbandonato l'elemento acustico, tranne nell'intermezzo strumentale “Pallar Anders Visa”, che tutto sommato funge solo da breve relax prima del ritorno alle esplosioni distorte. Nella conclusiva “The New Word” si condensa anche il lato negativo del disco, cioè la tendenza all'eccesso e all'esuberanza un po' fine a sé stessa, nella fattispecie in un assolo che sembra essere solo uno sfoggio di velocità.
Colony colpisce in modo micidiale senza più mollare, anche se non possiede la carica innovativa di The Jester Race. Rispetto ai Dark Tranquillity, che pubblicano lo stesso anno "Projector", gli In Flames suonano più impulsivi, energici e immediati, con atmosfere meno malinconiche e un ruolo della tastiera molto meno pronunciato, arrangiamenti più incisivi ma anche più formali e, forse, prevedibili. 

Clayman nel 2000 sembra porre rimedio a quest'ultimo difetto, mantenendo la base strutturale di Colony ma sviluppando le canzoni in maniera più anomala e atmosferica, e con maggiore ricorso ad alcuni effetti elettronici in post-produzione. Sono presenti più spesso digressioni melodiche corrosive, mentre Fridén ha abbandonato il growl (che probabilmente non riesce più a sostenere) in favore di uno screaming viscerale e potente, alternato a passaggi più frequenti di voce pulita. Anche il riffing cerca di suonare meno lineare e più sfaccettato, inoltre sono completamente rimossi gli interventi acustici, rimpiazzati da inserti di chitarra non distorta che a volte danno un tocco bluesy, mentre in altre occasioni suonano più oscure e rarefatte. Chitarristicamente parlando, il mix di melodic-death e heavy-metal del gruppo è ormai diventato molto originale, con suoni in equilibrio tra anni 80 e 90 e una produzione nuovamente curatissima.
Il disco si avvicina di più al primo lavoro della band nell'oscura, eccezionale “...As The Future Repeats Today” e - seppur in una forma più schematica e tradizionale - in “Another Day In Quicksand”; mentre si avvicina di più al secondo nell'energica e anthemica “Swim” e nella grandiosa “Suburban Me”; quest'ultima vede anche la partecipazione di Chriss Amott (Carcass, Spiritual Beggars, Arch Enemy) in un memorabile assolo. Nel singolo “Only For The Weak” compaiono influenze da heavy-rock 80's, il tutto guidato da un power-chord divertente e graffiante, nonché da un giro di tastiera melodicissimo. Per contro “Satellites And Astronauts” è una ballata malinconica, desolata e oscura. 
Tra gli apici ci sono anche l'apertura bruciante di “Bullet Ride” e la spedita e feroce title track. Per il resto Clayman è un lavoro originale e con pochi paragoni a livello di unicità del suono, con alcuni degli assoli migliori mai sfoderati dal gruppo, riff trascinanti e un Fridén in forma smagliante. Sarà preso a modello dalla cosiddetta scena melodic-metalcore americana, che ne attingerà così tanto che a volte sembra quasi saccheggiare gli svedesi: l'imitazione è la più sincera forma di lusinga. A livello di testi, è anche il primo disco degli In Flames in cui Fridén si occupa di tutte le parti liriche, senza contare sull'aiuto di Niklas Sundin, e si inizia a intravedere un cambiamento nelle tematiche, che si fanno sempre più intimiste e meno elaborate. Nell'edizione limitata è presente anche una cover del gruppo glam-metal svedese Treat, “World Of Promises”, a mantenere un contatto con gli anni 80, come già era accaduto tre anni prima con i Depeche Mode; e “Strong And Smart”, rilettura di un brano del gruppo punk-rock svedese No Fun At All.
Se la presenza di voce pulita e arpeggi non distorti in Clayman può forse essere stata ispirata da "Projector" dei Dark Tranquillity, per il resto le atmosfere dei due gruppi si dimostrano diverse, certamente meno gotiche nel caso degli In Flames. I colleghi inoltre nel 2000 pubblicano "Haven", che si distingue ancora di più con riff più morbidi e orecchiabili, atmosfere più elettroniche e guidate dalle tastiere e lato vocale impostato unicamente su di un growl basso. Entrambi i gruppi hanno sviluppato il proprio stile in maniera molto diversa dagli esordi, divergendo tangibilmente per forma sia rispetto a sé stessi che fra di loro, ma con in comune la volontà di superare i canoni e offrire una visione personale del metal di Gothenbug del quale rappresentano ora gli alfieri, dopo lo scioglimento degli At The Gates. Non tutto il pubblico degli In Flames è però soddisfatto degli ultimi album: i puristi del death-metal, infatti, li giudicano eccessivamente melodici, puliti e iperprodotti, rispetto alle sonorità degli esordi. Sono troppo diversi e hanno ormai un pubblico diverso.

Nel 2001 il pessimo live The Tokyo Showdown mostra un brutto comparto sonoro e un ancor peggiore Fridén che non riesce a sostenere né la voce pulita né il canto urlato. È evidente che fuori dallo studio di registrazione i suoi limiti canori siano notevoli e non è azzardato ipotizzare che ciò sia dovuto a una tecnica scorretta nel growl, che può danneggiare le corde vocali.

Se fino ad ora c'era stato qualche malcontento fisiologico con i fan della prima ora, nel 2002 arriva il vero e proprio fulmine a ciel sereno, che segna una reale spaccatura tra gli In Flames e parte del pubblico metal europeo più tradizionalista: Reroute To Remain. Già dal titolo si intuisce che gli svedesi vogliono dare una svolta al proprio stile. Si notano il ruolo ridotto degli assoli, melodie più essenziali e incentrate sui ritornelli, ritmiche più accentuate e linee vocali più variegate ed emotive. Fridén qui alterna spesso voce pulita e screaming nasale: per certi versi, ricorda quanto mostrato da giovani gruppi post-hardcore come Thrice o Glassjaw, ma in alcuni momenti sembra quasi imitare la flessibilità di Chino Moreno dei Deftones, pur reinterpretando il tutto in maniera personale.
I testi di Fridén ormai hanno poco a che fare col passato e hanno anche abbandonato molti temi fantastici o fantascientifici che li avevano caratterizzati, privilegiando invece argomenti più intimisti e autobiografici. Dal punto di vista chitarristico, vengono abbandonati molti tratti distintivi di Colony e Clayman, in particolare la combinazione di power-chords a sostegno di una melodia tagliente, mentre rimangono attacchi più thrashy che paradossalmente appaiono più vicini ai dischi precedenti. Si tratta però di un'illusione, perché Reroute To Remain non può semplicemente essere definito melodic-death-metal (se non in maniera incidentale per riff come quelli citati, ma giusto perché sono fedeli al filo conduttore dello stile del gruppo, poiché sono comunque impiantati su una matrice inedita che nulla ha a che vedere col genere). Si può dire invece che gli In Flames si avvicinano a un campionario di influenze che attinge anche dal calderone alternative-metal americano per forgiare uno stile ibrido. Il tentativo di coniugare l'aggressività e la sensibilità musicale scandinave con influenze più moderne, provenienti soprattutto dal Nord America (ma non solo), è coraggioso, ma aliena le simpatie dei vecchi fan. La stampa musicale arriverà a considerare Reroute To Remain un po' come il "black album" degli svedesi, tante saranno le polemiche. C'è chi accusa il gruppo di essersi svenduto al nu-metal, ma è una critica approssimativa e insensata, poiché se non in minima parte non sono presenti i tratti caratteristici del genere, a partire dal peculiare riffing sincopato o le influenze hip-hop (queste ultime del tutto assenti). In alcuni casi si punta il dito verso i ritornelli melodici, confondendoli grossolanamente con quanto fatto dai Linkin Park, il che dimostra la confusione nella stampa e nel pubblico metal. Piuttosto gli In Flames nelle melodie trovano maggiori punti di contatto con il post-hardcore, il metalcore, il groove-metal, la new wave.
Reroute To Remain è un album di transizione, in cui sperimentare suoni nuovi, spaziando dai riff simil-industriali à-la Rammstein di “Cloud Connected” alle sfuriate quasi slipknotiane di “Transparent”, da pezzi abrasivi e melodrammatici come la fantastica “Minus” ad altri più radiofonici, come il singolo “Trigger” o il bizzarro power-pop metallico di “Free Fall”.
I momenti più vicini al death-melodico si svelano nei riff e nella batteria schizzati di “Egonomic” (comunque con un ritornello molto melodico e pop), in parte in “Drifter” (contaminata da riff punk-rock melodici e da un ritornello di stampo europop) e nell'heavy/death di “Dismiss The Cynic”. Fa il suo gradito ritorno anche la chitarra acustica nella bellissima ballata “Metaphor” e nella sagace e alienante “Dawn Of A New Day”, ma questa volta il gruppo più che al folk svedese sembra ispirarsi all'indie-rock d'oltreoceano. Potenzialmente un album sensazionale, originale nell'approccio, Reroute To Remain non riesce appieno nel suo intento. Ciò è dovuto principalmente all'eccessiva semplificazione di alcuni pezzi, che non vanno al di là dello schema strofa/verso/ritornello, perdendo molte delle armonizzazioni e delle sinergie che costituivano un trademark del gruppo. Inoltre, svariati riff si rivelano molto meno ispirati del solito, e la prova al microfono di Fridén è altalenante (per non parlare di quei ritornelli in cui compaiono coretti per nulla riusciti che tolgono incisività alla melodia, a cominciare dalla title track iniziale). Questa situazione sfocia nell'eccessiva lunghezza dell'album che con 14 canzoni, alcune dal sapore del filler, risulta alla lunga pesante da digerire. Non convince neanche la produzione, realizzata non più presso gli Studio Fredman ma presso i Dug Out Studios di Daniel Bergstrand. La svolta rende i suoni pastosi, deboli, appiattendo le chitarre e rovinando il suono della batteria di Svensson. Negli Ep pubblicati assieme al disco si segnalano anche un avvolgente remix industrial-rock di “Cloud Connected” e una cover mediocre di “Land Of Confusion” dei Genesis.

Le presunte influenze nu-metal fanno capolino invece in maniera esplicita e chiara nel riffing cupo e ribassato del progetto Passenger (da non confondere con l'omonimo cantautore inglese) del 2003, nato dalla collaborazione tra Anders Fridén e Niclas Engelin. Completano la formazione Håkan Skoger del gruppo crossover Headplate al basso e l'ingegnere del suono Patrick J. Sten alla batteria. In realtà, il gruppo era già nato col nome Cliff nel 1995 con l'intento di suonare alternative-rock, ma è stato rapidamente messo in stand-by. Fridén ha pensato di riesumarlo dopo avere lavorato con Engelin nel tour del 1997, e il gruppo ha cambiato il nome ispirandosi all'omonima celebre canzone dei Deftones con ospite Maynard dei Tool e pubblicata su "White Pony" nel 2000.
Tra un impegno e l'altro, i Passenger giungono finalmente all'esordio omonimo tre anni dopo. Il lavoro è molto creativo, arricchito da influenze darkwave, europop, emocore, alternative-rock (A Perfect Circle) e alternative-metal (evidenti proprio i Deftones) che dopo essere state metabolizzate e miscelate rendono il risultato finale molto personale. Fridén si concentra sul suo canto pulito dal peculiare timbro nasale, dando il meglio di sé quanto a malinconia, espressività e versatilità. Non saprà mai più ripetersi a questi livelli. Engelin si mostra un chitarrista talentuoso, dipingendo arabeschi melodici mai scontati e contribuendo alle atmosfere dolci-amare del disco.
Se il nu-metal in questi primi anni 2000 si è trasformato in un trend pop imploso sotto il suo stesso peso - come testimonia lo schema preconfezionato dei Linkin Park che lo abbandoneranno poco dopo per gettarsi su altri trend - i Passenger ne rappresentano il lato opposto, quello ancora intriso di creatività e fantasia. Dell'annunciato secondo capitolo del progetto si perdono presto le tracce, poiché Fridén si concentra totalmente sugli In Flames, mentre Engelin si dedicherà agli Engel. Ed è un peccato, perché in nessuno dei due casi sapranno riproporre il gusto melodico dei Passenger.

Invece il side-project Dimension Zero, fondato da Jesper Strömblad (che si occupa sia della chitarra che del basso) e Glenn Ljungström già nel 1995, è totalmente votato a un melodic-death-metal tradizionale, thrasheggiante e in stile At The Gates. 
Il gruppo pubblica l'Ep Penetrations From The Lost World nel 1997, l'esordio ufficiale su Lp Silent Night Fever nel 2001 e This Is Hell nel 2003, prima che Ljungström lasci per impegni personali. Strömblad poi pubblicherà He Who Shall Not Bleed nel 2008 e metterà in pausa il gruppo, che fra i suoi membri annovererà anche nomi come Fredrik Johansson (omonimo dell'ex-chitarrista dei Dark Tranquillity), Daniel Antonsson e Hans Nilsson, a testimonianza del clima collaborativo tipico della scena di Gothenburg.
I Dimension Zero hanno un approccio molto più derivativo del sound "Slaughter Of The Soul", e le loro pubblicazioni coincidono con i cambiamenti di rotta effettuati più volte dagli In Flames, seppur con esiti finali piuttosto distanti quanto a genere.
Fridén con i Passenger può dar sfogo alle sue passioni più melodiche e pop senza compromettere il suono più metallico degli In Flames, mentre Strömblad con i Dimension Zero può divertirsi a suonare thrash o death melodico in modo convenzionale e senza pretese. Nel mentre, Strömblad e Gelotte danno vita anche agli All Ends, assieme alla sorella di quest'ultimo: progetto heavy-rock a voce femminile, il gruppo però, dopo una demo, viene rapidamente messo da parte e tornerà solo dopo qualche anno con line-up rinnovata.

Le speranze di chi pensava che il cambiamento degli In Flames fosse solo un passo falso e che il gruppo sarebbe tornato sui suoi passi vengono spente nel 2004 con Soundtrack To Your Escape. Il titolo sembra essere ironico: vuole forse suggerire la consapevolezza che farà allontanare i vecchi fan? Già l'immagine del gruppo è molto diversa che in passato: Fridén si presenta per le foto promozionali con barba e dreadlock, venendo per questo accostato dalla stampa a diversi artisti nu-metal. Lui per tutta risposta ironicamente si fa stampare delle magliette con su scritto "[Link]In Flames" che indossa in alcuni concerti, e nelle interviste ribadisce che chi non apprezza il nuovo corso del gruppo può ignorarlo e ascoltare i vecchi dischi. 
Soundtrack To Your Escape porta alle estreme conseguenze la svolta operata con il precedente album, perdendo quasi completamente ogni contatto con il suono di Gothenburg che non è più l'aspetto portante (tranne che in “In Search Of I”, la più vicina al melodic-death-metal come base, comunque molto trasfigurato) tanto che sembra che il gruppo non sia più sé stesso. Ciò però indispone anche quei fan che comunque avevano spezzato una lancia a favore di Reroute To Remain.
Il nuovo suono viene ricoperto con atmosfere oscure e industriali, guidate dalla melodia. L'album alterna canzoni in teoria aggressive e violente (l'industrial/death di “F(r)iend”, replicato poi in “Touch Of Red” ma con un ritornello irritante tra Fridén e coretto di sostegno), momenti di melodia totale con riff magnetici e ampio uso dell'elettronica (lo stupendo singolo “The Quiet Place”, la vigorosa “Borders And Shading”), digressioni emotive (l'anomala ballata “Evil In A Closet”, con un ritornello orripilante in cui Fridén sembra la caricatura di sé stesso, oppure la più riuscita “Discover Me Like Emptiness” dove al contrario sfoggia una delle prove più vissute e suggestive dell'album) e climax ad alto pathos melodrammatico (il misto di industrial-metal e alternative-rock di “My Sweet Shadow”, uno degli apici dell'album).
La produzione calda e sporca è contrastante, perché da un lato cattura appieno le atmosfere che i brani vogliono ricreare, ma dall'altro nuovamente smorza la potenza di riff e batteria. Il gruppo questa volta sembra avere le idee più chiare su cosa fare, e il disco suona più compatto e curato del predecessore, ma l'impressione è anche che, fatta eccezione per Fridén, gli In Flames non si trovino a loro agio con questo calderone di influenze. Accanto a un formato essenziale, con atmosfere evocative e melodie trascinanti, rimangono momenti più thrashy che stonano con il resto e ritornelli orecchiabili a volte privi di mordente, rivelando una discontinuità tra le canzoni che impedisce di raggiungere lo status di capolavoro alternative-metal. Ci sono, insomma, tanto piccoli gioiellini che luccicano in maniera brillante, quanto materiale molto più opaco: e probabilmente la ragione è nel fatto che il gruppo sta ancora cercando di fare del tutto proprie queste influenze, sperimentando soluzioni varie, modulando i tratti stilistici, è in fase di "rodaggio" o addirittura "apprendimento", se così si può dire. L'album comunque andrebbe ascoltato almeno una volta anche se non si apprezzano queste sonorità, per osservare il cambiamento effettuato e le differenze con il passato. È infatti interessante nel bene e nel male analizzare quanto diversa sia la proposta musicale targata In Flames rispetto ai primi album.

Nel 2006 il gruppo sembra rispondere alle critiche, francamente spesso eccessive, che gli sono state rivolte negli ultimi anni e pubblica quello che presenta come il trait d'union tra i vecchi e i nuovi In Flames: Come Clarity. Effettivamente di primo acchito si ritrovano spunti duri e rabbiosi più vicini al melodic-death, un senso di potenza e imponenza che ricorda un po' di più Colony (grazie anche alla produzione più pulita e curata), riffing che più spesso spazia tra Whoracle e Reroute To Remain, nonché una predisposizione naturale per le aperture melodiche e vocali degli ultimi due album. Proprio sul fronte canoro, Fridén è più diretto nella sua prestazione e spesso canta adottando linee generalmente più rifinite e limate, azzeccando più spesso le melodie ed evitando certi coretti malriusciti. A livello di testi si è fatto anche più ottimista, probabilmente influenzato dalla nascita due anni prima di una figlia, alla quale dedica la title track. Le tessiture elettroniche di sottofondo sono state in larga parte tagliate o relegate a contorno, attenuando la componente atmosferica. È però un passaggio necessario per preservare l’impatto e il groove delle canzoni. Da un punto di vista tecnico, inoltre, si mettono in luce ritmiche dure e ben marcate, che mostrano uno Svensson in grande spolvero. Tuttavia, il songwriting lineare e incentrato sui ritornelli, più il maggior uso di breakdown, suggeriscono anche una certa ispirazione dal melodic-metalcore, nuovo trend emerso in Nord America dopo la morte del nu-metal, che paradossalmente si rifà anche a gruppi come gli In Flames. Non a caso, il disco è stato in realtà registrato a inizio 2004, ma pubblicato un anno dopo dalla Nuclear Blast per evitare sovrapposizioni con le uscite della rivale Roadrunner, specializzata in quel filone. Sostanzialmente i "maestri" prendono spunto dagli "allievi" assimilandoli nel proprio stile, e non mancano passaggi occasionali che ricordano gruppi come Shadows Fall, Killswitch Engage o Caliban; in altre occasioni, invece, gli In Flames sembrano guardare a Gothenburg, quasi rispondendo ai Dark Tranquillity che un anno prima avevano pubblicato "Character", più pesante dei suoi predecessori. I paragoni però possono finire qui, perché ormai da tempo i due gruppi "cugini" suonano cose diverse come base, come contorno e come approccio.
Il disco è al solito altalenante, tra momenti in cui emerge con vigore la personalità stilistica del gruppo tramite grandi canzoni in cui sembra raggiunto un equilibrio tra sound svedese e americano, e altri in cui invece pare perdere di personalità. Inoltre è certamente meno coraggioso e fuori dagli schemi dei suoi due predecessori. C'è un po' di discontinuità tr hit trascinanti (la furiosa “Take This Life”, la magmatica e corrosiva “Leeches”, la folgorante “Scream”) mescolate a materiale più piatto e trascurabile, oppure brani che sarebbero entusiasmanti ma rovinati in alcuni momenti (“Reflect The Storm”, emozionante ma con un ritornello debolissimo).
Tra i pezzi più originali, “Dead End”, con duetto tra Fridén e la cantante pop svedese Lisa Miskovsky dalla voce melodica ma decisa; “Vanishing Light”, che mescola riff industrialoidi in stile STYE con attacco melodico su power-chord di marca Colony; la title track, una power ballad introdotta da arpeggi acustici che poi lascia posto a muri sonori chitarristici su melodia vocale emo.
Nell'ambiente europeo il disco non riscuote un grande successo, ma negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono tantissimi i gruppi inclusi proprio nella scena melodic-metalcore che nelle interviste rivelano profonda reverenza e amore per questo lavoro, a volte considerandolo addirittura un caposaldo per la loro formazione sonora, assieme a punti di riferimento come "Alive Or Just Breathing" dei Killswitch Engage. In tal senso gli In Flames si rivelano nuovamente seminali. All'unanimità, in ogni caso, viene apprezzato il fatto che, pur con le dovute differenze rispetto al passato, Come Clarity suoni tipicamente "In Flames".

Gli svedesi sembrano avere trovato finalmente delle coordinate su cui assestarsi. Due anni dopo, infatti, A Sense Of Purpose approfondisce il discorso di Come Clarity e ne rifinisce lo stile, enfatizzandone il senso per l'impatto e la melodia, e rendendolo più curato e immediato. Anche in questo caso troviamo spunti che rimandano sia ad alcune sonorità più congeniali all'epoca di Reroute To Remain, sia a un piglio heavy-oriented che, ora nei riff, ora in un assolo, può far riecheggiare il verso della triade Whoracle-Colony-Clayman, ma con una produzione più moderna e una forte presenza vocale di Fridén, che alterna urla e melodismi. Il riffing dà in effetti maggiore spazio a Fridén, che inizia a ritagliarsi un ruolo centrale nel condurre l'identità melodica dei brani.
Si può dire che con A Sense Of Purpose gli In Flames abbiamo trovato le loro coordinate definitive e fuso stili dalla scena scandinava e da quella anglosassone con padronanza di questi linguaggi. Ma non si può ancora parlare di capolavoro perché a livello di composizioni e arrangiamenti l'album per certi versi è prevedibile, con i soliti riff potenti ma orecchiabili, i ritornelli easy-listening e le atmosfere energiche ma permeate di una sensibilità intimista ed emotiva. Ci sono meno picchi rispetto agli album precedenti, tuttavia il disco si rivela nel complesso più equilibrato, con canzoni più compatte. Le atmosfere sono relativamente briose e, anche se non vi è conferma ufficiale, probabilmente il titolo del disco allude all'orgoglio che Fridén prova nell'essere padre di una figlia di 4 anni e di un altro bambino nato di recente.
A volte il gruppo appare un po' derivativo, anche verso sé stesso, e annacqua troppo le canzoni ricorrendo a melodie facili. Ma gli intrecci chitarristici di Strömblad e Gelotte suonano per la maggior parte ispirati, e Svensson si conferma un onesto e competente batterista - anche se suona un po' limitato, come se non potesse sfogare liberamente tutte le sue soluzioni più dinamiche e impetuose per non compromettere l'accessibilità dei pezzi. Questa sintesi tra aggressività e radiofonicità potrebbe essere a questo punto sviluppata perfezionandone gli ingredienti. Francamente se c'è un anello debole nel gruppo, a questo punto potrebbe, per certi versi, essere Fridén: come cantante ha sicuramente un timbro molto personale, e con un particolare carisma emotivo, ma tecnicamente mostra diverse lacune (soprattutto dal vivo risulta carente) e ormai necessita di molta produzione per esprimersi al meglio. Fridén ha uno stile vocale tutto suo, versatile e riconoscibile, epperò le parti più pulite oscillano tra l'evocativo e il lamentoso, mentre il suo screaming ha ormai perso di potenza. Addirittura, nei momenti peggiori sembra scimmiottare Chino Moreno, Jeffrey Moreira o Jonathan Davis.
Anche stavolta l'accoglienza è contrastante, tra elogi e stroncature, seppur senza gli eccessi di altre occasioni.

Nel 2007 esce anche l'omonimo esordio All Ends del side-project lasciato in sospeso qualche anno prima. Strömblad e Gelotte non figurano più come musicisti ufficiali della formazione, ma contribuiscono al songwriting. L'album mostra qualche similitudine con gruppi come Chevelle, Alter Bridge ed Evanescence mescolati a occasionali giri melodici dal sapore gothenburghese, o meglio vicini allo stile proprio dei due chitarristi degli In Flames; complessivamente il disco mescola riffing a tratti hard-rock, a tratti alternative-metal/post-grunge, guidato dall'eccezionale duo vocale Emma Gelotte e Tinna Karlsdotter, ispiratissime nel proporre melodie pop dal sapore trascinante, in contrasto con i riff più aggressivi, che rendono le canzoni potenziali hit. Al di là di questo, però, l'album è un pizzico ripetitivo dal punto di vista chitarristico e non offre molto di eccezionale oltre alla parte vocale. Una buona parentesi, ma non rivoluzionaria.

Tra il 2009 e il 2010 gli In Flames affrontano un periodo critico: oltre al cambio di label, dalla storica Nuclear Blast alla Century Media, la band deve fare i conti con la decisione di Jesper Strömblad, che annuncia l'intenzione di lasciare (all'inizio temporaneamente, poi in via definitiva), ufficialmente per problemi legati all'alcol e alla depressione (che lo affliggono almeno da inizio decennio, con momenti molto duri sul piano psicologico), ma dietro le quinte anche per i crescenti attriti interni con gli altri membri del gruppo e i dissensi sulla direzione da dare al progetto. Una bella tegola per gli svedesi, che si trovano a comporre un disco senza una delle loro principali menti creative. Al suo posto subentra comunque un vecchio amico: è Niclas Engelin, lo stesso dei tour del 1997 e dei Passenger nel 2003, che oltre tutto negli ultimi anni ha dato vita a un altro progetto alternative-metal di nome Engel con cui cerca di rimescolare a varie dosi alternative-rock ispirato dagli A Perfect Circle, emocore, spunti tra punk-rock e industrial-rock, negli ultimi album maggiori aperture pop-metal e melodic-death-metal (l'esordio Absolute Design rimane forse il disco migliore di un gruppo che presto non ha più avuto molto da dire).

Con queste premesse, viene pubblicato nel 2011 Sounds Of A Playground Fading, ed è curioso che con la dipartita di Jesper non ci sia un solo membro che non sia anche su Lunar Strain, il primo album a firma In Flames (è un esempio musicale del paradosso di Teseo). Il titolo già di per sé è emblematico: i suoni di un parco-giochi che svanisce possono essere i ricordi del passato del gruppo, la sua "infanzia", come a voler intendere che ormai, dopo molti anni e tante esperienze, il periodo degli esordi è solo un ricordo che va affievolendosi. Fridén, ormai uomo-immagine del gruppo, cambia nuovamente look, con capelli corti e un camice che gli conferiscono un aspetto più adulto e meno post-adolescenziale, e nelle interviste continua a ribadire che non vuole riproporre sonorità del passato e che coloro ai quali questi In Flames non piacciono se ne dovranno fare una ragione.
Stilisticamente, l'album si mantiene per le grandi linee sui binari percorsi negli ultimi due dischi, il che potrebbe sembrare una "novità", anche se a dire il vero un po' tutti ormai si aspettavano che gli In Flames sarebbero divenuti più "statici" che in passato. Tuttavia viene ancor di più enfatizzato il lato più orecchiabile del suono, soprattutto nei ritornelli, mentre le chitarre semplificano il loro apporto.
La sensazione è che il gruppo si stia evolvendo progressivamente in una formazione pop-metal, ma purtroppo lo fa nel modo peggiore, insistendo su cliché, ripetizione di poche idee e annacquamento generale del songwriting per coprire la povertà compositiva con un blando senso di catchiness. C'è un maggior uso di muri sonori chitarristici, ma che suonano più che altro come riempitivi su cui far adagiare le melodie vocali di Fridén, attorno al quale è costruito l'album.
Il disco risulta così più monotono e povero di spunti del suo predecessore, con davvero pochi riff in grado di catturare l'attenzione e arrangiamenti diluiti, probabilmente anche a causa dell'assenza di Strömblad. Ciò su cui punta il gruppo sono, in sostanza, pochi refrain d'impatto per dare l'idea di "movimento", seguiti da ritornelli melodici che sono ciò che cattura veramente l'attenzione, ma permane un senso di incompiutezza.

Sounds Of A Playground Fading è fino a questo punto il disco meno creativo e ispirato degli svedesi. Peccato, perché con A Sense Of Purpose sembrava potesse esser stato trovato l'equilibrio giusto tra melodia radiofonica e piglio chitarristico, su cui rifondare la musica del gruppo dopo la partenza di Strömblad, ma gli svedesi hanno evidentemente scelto di viaggiare sul sicuro, diluendo la propria musica al punto da renderla innocua. Non mancano momenti divertenti e accattivanti, ma si tratta di un'evasione effimera, prima che tutto inizi a suonare addirittura come una raccolta di B-side del precedente album.

Nel frattempo, Jesper Strömblad fonda assieme a Glenn Ljungström, il vecchio collega negli In Flames, e al cantante Marco Aro, già negli Haunted, il progetto The Resistance, in un'operazione del tutto analoga a quella tentata oltre un decennio prima con i Dimension Zero. Le sonorità proposte stavolta sono a cavallo tra il death-metal svedese vecchia scuola e il filone derivato del death'n'roll (che lo mescola a generi come il groove-metal, l'hard-rock, il blues-rock). In entrambi i casi il riferimento è ai connazionali Entombed, di cui vengono ricalcate le sonorità in maniera abbastanza schematica; le uniche eccezioni sono fraseggi relativamente melodici che rimandano ai primi At the Gates, sempre in modo volutamente palese. L'esordio "Scars" del 2013 è un disco di genere fatto per divertirsi e divertire senza pretese, ma manca di idee compositive valide per spiccare nella scena ed è fin troppo ripetitivo. È interessante però paragonarlo ai Dimension Zero per studiare le differenze tra stili diversi di death-metal avendo gli stessi compositori principali dietro. Nel 2016 "Coup de grâce" vede Glenn Ljungström cedere lo strumento al redivivo Daniel Antonsson, ma non cambia nulla a livello di risultati e il gruppo si scioglie subito dopo a seguito di litigi interni.

Non va meglio agli In Flames con Siren Charms nel 2014, grosso modo una riproposizione di tutti gli stilemi e gli stereotipi visti nel 2011, nel solco della semplificazione e banalizzazione. Si avverte tangibilmente come negli In Flames manchi l'apporto creativo di Strömblad, mente dinamica dietro i riff e i motivi portanti più trascinanti dei precedenti album. Il disco, uscito stavolta per Sony, è pressoché la fotocopia del precedente e riceve molti responsi negativi dalla critica, ma un certo successo di vendite presso il pubblico più mainstream. Pochi i riff degni di nota, abbastanza orecchiabili i ritornelli ma più spesso simili tra loro, e i testi si sono fatti ormai innocui e privi di guizzi.
Dopo la pubblicazione dell'album, un'altra tegola: a lasciare è Daniel Svensson, deciso a dedicare più tempo alla sua famiglia e al suo birrificio. Il sostituto scelto dal gruppo suscita scalpore: anziché uno dei tanti colleghi di Gothenbug e dintorni, o comunque della scena metal svedese, viene assunto il giovane Joe Rickard, proveniente dalla scena christian-rock americana. La scelta è indicativa del fatto che i rapporti tra gli In Flames e la scena da cui provengono si sono raffreddati negli ultimi anni (tanto che nelle interviste ci sono scambi di velate frecciate reciproche con Strömblad, mentre Fridén inizia a parlare dei primi album del gruppo come imperfetti, suscitando disapprovazione nei fan); ma lascia anche la sensazione che gli svedesi guardino consapevolmente a un determinato mercato e a una determinata tipologia di pubblico, e che le più recenti scelte musicali non siano più genuine.

Il punto più basso della carriera del gruppo viene segnato nel 2016 con BattlesGli In Flames con quest'album, con cui rientrano sotto l'egida della Nuclear Blast, si mostrano semplicemente un gruppo che non trova più idee nuove e ricicla quelle poche più riuscite degli ultimi album per mantenere appeal radiofonico, nel migliore dei casi. E sono ormai tre i dischi di fila minati da momenti effimeri, stucchevoli o riempitivi. Le chitarre di Gelotte ed Engelin dipingono ogni tanto melodie riuscite, ma per la maggior parte del tempo faticano a produrre riff originali. Lo stesso Fridén non riesce più a sostenere efficacemente né le linee vocali più melodiche né quelle più aggressive senza far ricorso al ritocco digitale. I suoi testi sono tra i meno profondi e ricercati da lui scritti: ripulite della tensione emotiva di un tempo, le sue composizioni divengono canzoncine innocue per un pubblico adolescenziale.
La batteria di Joe Rikard si rivela piatta e banale. Ci sono passaggi dove si avvertono taglia e cuci in fase di digitalizzazione del suono per ovviare a dei fuori tempo. È evidente la mancanza di affiatamento col resto del gruppo, ma non si può inserire così come se nulla fosse un 28enne proveniente da tutt'altra scena musicale in un gruppo di over-40 che suonano assieme dall'adolescenza e hanno avuto un percorso musicale e formativo diverso. Forse Rikard farà presa su di un pubblico giovanile anglofono, ma la classe di Svensson rimane su un altro livello. Ciò non impedisce di scovare canzoni orecchiabili al punto giusto, ma il gruppo non le confeziona introducendo idee pop che suonino fresche e genuine, bensì nella maniera più facile e banale, cioè ritrasponendo i ritornelli dei più stereotipati gruppi post-hardcore/melodic-metalcore d'oltreoceano e indugiando in trend da classifica vecchi di anni. A riprova, i crediti dell'album citano numerosi produttori fra i co-autori delle canzoni assieme ai componenti del gruppo, evidenziando la loro interferenza nel songwriting e l'esigenza di rispondere a precise scelte di mercato. Tutto ciò contribuisce ad alimentare lo sconforto anche nei fan che difesero i cambiamenti di inizio anni 2000, che nel bene e nel male hanno dato vita a opere molto più personali, sincere e creative di quanto pubblicato dagli In Flames negli ultimi anni. 
L'unica nota positiva della produzione è che si torna a udire, dopo tanto tempo, il basso di Peter Iwers, ma la sensazione è che sia sprecato.

Nel 2017, l'Ep Down, Wicked & No Good è composto interamente da cover di pezzi di vari gruppi che in un modo o nell'altro hanno influenzato la crescita musicale dei membri del gruppo. Quella dei Depeche Mode è la più riuscita, con riff e atmosfere che ricordano i momenti migliori di Passenger e Soundtrack To Your Escape. Quella di Chris Isaak è meno intensa e profonda, più timida e intimista, apprezzabilmente diversa dall'originale ma penalizzata dal ritornello banalotto e dalla voce troppo nasale di Fridén. Purtroppo, invece, le cover di Alice In Chains e Nine Inch Nails perdono tutto il pathos degli originali e a livello vocale si rivelano imbarazzanti.

Nel 2017 Jesper Strömblad forma assieme a Jake E, ex-cantante degli Amaranthe, il progetto Cyhra, che mescola quanto fatto dai due gruppi negli ultimi anni: metal melodico all'insegna dei ritornelli pop e degli inserti elettronici trancecore. Il disco Letters To Myself non fa gridare al miracolo, ma riesce a suonare più ispirato e genuino delle ultime uscite dei due gruppi-genitori, nonostante un uso forse eccessivo del triggering per la batteria. Il progetto ha il suo seguito nel 2019 con No Halos In Hell, un pop-metal non certo rivoluzionario ma godibile.

Nel 2018 il bassista Peter Iwers lascia il gruppo dopo 20 anni dal suo ingresso (e per un breve periodo suona proprio nei Cyhra): il suo ruolo viene temporaneamente affidato anche in questo caso a un americano, Bryce Paul Newman, all'inizio turnista nei concerti in Nord Aemrica. Anche il giovane batterista Joe Rickard cede il posto a un altro turnista, Andrew Tanner Wayne, proveniente dalla scena post-hardcore/screamo californiana. Ma nell'economia del gruppo tutto ciò è irrilevante, perché il songwriting è ormai appannaggio solo di Björn Gelotte, di Anders Fridén e, in parte, del produttore Howard Benson. 

Nel 2019 esce I, the Mask, che convince più dei suoi predecessori ed è probabilmente il miglior album del gruppo degli ultimi otto anni, per quel che può valere. Convivono due tendenze contrapposte, una che insiste sul lato radiofonico (purtroppo continuando a mancare di personalità e facendo ricorso a stilemi pre-confezionati) e un'altra che vuole rinverdire il riffing più genuinamente svedese del gruppo (ma senza troppa convinzione). Se la speranza è che ciò offra varietà nonché spunti godibili, in realtà a lungo andare manca l'equilibrio tra i due aspetti. Stilisticamente potrebbe essere posto a metà strada fra il più concreto A Sense Of Purpose e il più blando Sounds Of A Playground Fading, ma l'esito finale rimane molto discontinuo. Permane di fondo la formula ripetitiva ormai consolidata, che attinge da una versione annacquata delle tendenze più mainstream del melodic-metalcore americano, enfatizzandone le melodie vocali con risultati altalenanti ed evitando di infondere maggiore originalità nel songwriting o anche un minimo di sperimentazione sonora. Ciò dipende anche dalla direzione ottenuta assieme al produttore Howard Benson, che nuovamente partecipa (interferisce?) nella scrittura dei brani, assecondando le idee di Fridén, forgiando un'impronta pop-metal al solito orecchiabile ma eccessivamente autoindulgente e datata. Non ci sono altri interventi esterni, tranne che in un brano, e per fortuna ciò limita l'ampollosità in cui sfociava Battles
Il lato chitarristico, in ogni caso, risulta complessivamente più consistente e meno "plasticoso" che nel precedente disco. Anche il cantante Fridén sembra essere più ispirato e (autotune a parte) meno ritoccato in fase di produzione, con una prestazione più vissuta e dinamica. Rimane però il lato più debole del gruppo, alternando linee vocali emozionanti e trascinanti ad altre più insipide, e scrivendo testi scarsamente caratterizzati.

Dopo l'uscita del disco Niclas Engelin lascia il gruppo in circostanze non precisate. Verrà rimpiazzato da Chris Broderick dei Megadeth.

Nel 2020 viene prima rilasciata una versione chiptune (uno stile di musica a 8-bit) dell'intero I, the Mask, fondamentalmente un divertissement senza pretese sulla falsariga di quanto venne già fatto nel 2003 con "Moonshield" sull'Ep Trigger; dopodiché il gruppo reincide alcuni brani di Clayman per presentarli sull'Ep digitale Clayman 2020, operazione promozionale in vista dell'imminente ristampa e rimasterizzazione del disco per il suo ventennale. Le nuove registrazioni non convincono, in quanto la potenza delle chitarre viene smorzata, la batteria senza Svensson appare più fredda e di presenza, ma soprattutto Fridén vocalmente non ha il carisma feroce di un tempo (suona però più spontaneo e genuino, ma ciò è relativo, se il risultato finale ha uno spessore creativo ed espressivo inferiore). La nuova produzione è infine decisamente inferiore a quella storica di Nordström per atmosfere ricreate e dinamica dei suoni.

Nel 2021 viene annunciato il progetto The Halo Effect, che debutta su disco l'anno successivo con Days of the Last. Trattasi di ex-membri degli In Flames, su tutti il chitarrista fondatore Jesper Strömblad, ma anche un ritrovato Daniel Svensson, Peter Iwers, e persino Niclas Engelin. Alla voce c'è il cantante-leader dei Dark Tranquillity, l'amico Mikael Stanne. Sono praticamente gli In Flames, ma con qualcun altro al posto di Fridén; ma non uno qualunque, bensì proprio il volto dei colleghi concittadini nonché colui che sul lontano esordio del 1994 aveva prestato la sua voce prima di fare cambio di microfono con Fridén stesso. Sembra quasi uno schiaffo in faccia nei suoi confronti. La prestazione di Stanne è significativa perché mostra una sinergia che si era persa da tempo e la differenza tecnica e di carisma tra i due nel "growl" e anche nelle parentesi di canto pulito.
Il disco recupera i canoni del melodic death metal persi dagli In Flames, pur concedendosi molte aperture melodiche e alcune influenze più moderne.
Si percepiscono l'entusiasmo e la spontaneità nei musicisti, soprattutto lo stile personale di Strömblad è subito riconoscibile, ed è piacevole vederlo ritrovare l'ispirazione e la verve melodica degli anni passati. Il risultato è godibile, ma alla fine è un divertissement senza pretese.

Nel 2023 con il nuovo Foregone gli In Flames odierni riescono a trovare una combinazione azzeccata di melodia e aggressività senza suonare bombastici, alternando con più spontaneità riff melodic-death-metal, attacchi tra metalcore e alt-rock, venature pop, ritornelli melodici ed effettati, radi spunti acustici. L'album parte riduce parte di quelli che erano i difetti di I, The Mask (la ripetitività e superficialità sia nell'elemento leggero che in quello più pestato) per concentrarsi sugli elementi di forza. La sintesi tra le due anime del gruppo suona stavolta più genuina e nei momenti più pestati rimanda a Come Clarity del 2006, pur senza la stessa grinta e ispirazione compositiva. 
Sembra quasi che Anders Fridén e Bjorn Gelotte abbiano voluto rispondere proprio agli Halo Effect, ma senza rinunciare all'elemento americano. Fridén soprattutto si impegna a fondo, convincendo di più che nel passato recente e senza suonare troppo stucchevole, se non in alcuni momenti in cui eccede con i singulti emotivi. I brani si rivelano nel complesso discreti, con poche steccate, principalmente quando il gruppo sembra imitare troppo i Bullet for my Valentine o quando l'alternanza tra riff furiosi e ritornelli emozionali è troppo forzata; si respira in ogni caso maggiore continuità rispetto al precedente disco.
Tra gli epsiodi più efficaci, "Meet Your Maker" inizia violenta e furiosa, per poi cedere spazio a un ritornello emotivo su chitarre radiofoniche. Invece "In The Dark" parte bruciante per poi stemperarsi troppo. "Bleeding Out" non convince appieno sul lato vocale, ma recupera con l'assolo virtuoso. Le power-ballad "Foregone pt. 2" e "Pure Light of Mind" strizzano l'occhio ai Bullet For My Valentine. Le canzoni più intriganti sono in coda: "A Dialogue In B Flat Minor", tra riff industrialoidi e ritornello emozionale; "Cynosure", rockeggiante e avvolgente; "End The Trasmission", con un divertente ritornello melodico.
Foregone non deluderà i fan dell'ultimo corso, susciterà opinioni miste in cui ha apprezzato il gruppo fino al 2010, e difficilmente convincerà chi non ha gradito le svolte del gruppo dal 2002 in poi. Gli In Flames sono così: leggerezza sia in senso buono che cattivo, pesantezza sia in senso buono che cattivo. Un gruppo di contraddizioni che il pubblico ama o odia.

In Flames

Discografia

IN FLAMES
In Flames(demo, 1993)
Lunar Strain(Wrong Again, 1994)
Subterranean(Ep, Wrong Again, 1995)
The Jester Race(Nuclear Blast, 1996)
Black Ash Inheritance(Ep, Nuclear Blast, 1996)
Whoracle(Nuclear Blast, 1997)
Colony(Nuclear Blast, 1999)
Clayman(Nuclear Blast, 2000)
The Tokyo Showdown (live,Nuclear Blast, 2001)
Reroute to Remain (Nuclear Blast, 2002)
Trigger(Ep, Nuclear Blast, 2003)
The Quiet Place (Ep, Nuclear Blast, 2004)
Soundtrack to Your Escape(Nuclear Blast, 2004)
Used & Abused: in Live We Trust (Dvd,Nuclear Blast, 2005)
Come Clarity(Nuclear Blast, 2006)
The Mirror's Truth (Ep, Nuclear Blast, 2007)
A Sense of Purpose (Nuclear Blast, 2008)
8 Songs(Ep,Century Media, 2011)
Sounds Of A Playground Fading(Century Media, 2011)
Siren Charms(Sony, 2014)
Sounds from the Heart of Gothenburg (live,Nuclear Blast, 2016)
Battles (Eleven Seven/Nuclear Blast, 2016)
Down, Wicked & No Good (Ep,Nuclear Blast, 2017)
I, the Mask (Eleven Seven/Nuclear Blast, 2019)
I, The Mask (Arcade version)(IF Music Ekonomiks Förening/Better Noise, 2020)
Clayman 2020 (Ep, Nuclear Blast, 2020)
Foregone (Nuclear Blast, 2023)
Progetti paralleli e gruppi associati:
CEREMONIAL OATH
Lost Name Of God (Ep, Corpse Grinder, 1992)
The Book Of Truth (Modern Primitive, 1993)
Carpet (Black Sun, 1995)
DIMENSION ZERO
Penetrations From The Lost World (Ep, War Music, 1997)
Silent Night Fever (Regain, 2002)
This Is Hell (Regain, 2003)
He Who Shall Not Bleed (Vic, 2007)
PASSENGER
Passenger (Century Media, 2003)
ALL ENDS
Wasting Life (Ep, Sony, 2007)
All Ends (Sony, 2007)
A Road To Depression (Nuclear Blast, 2010)
THE RESISTANCE
Scars (Ear, 2013)
Coup de grâce (Ear, 2016)
CYHRA
Letters To Myself (Universal, 2017)
No Halos In Hell (Nuclear Blast, 2019)
GARDENIAN
Two Feet Stand (Listenable, 1997)
Soulburner (Nuclear Blast, 1999)
Sindustries (Nuclear Blast, 2000)
ENGEL
Absolute Design (Supervalue, 2007)
Threnody (Trooper, 2010)
Blood Of Saints (Seasons of Mist, 2012)
Raven Kings (Sony, 2014)
Abandon All Hope(Sony, 2018)
THE HALO EFFECT
Days Of The Last (Nuclear Blast, 2022)
Pietra miliare
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