Era il 20 maggio del 1972 quando "Argus" degli Wishbone Ash entrava al terzo posto della classifica britannica, senza alcun singolo a fare da lancio né brani particolarmente radiofonici al suo interno. Il risultato fu probabilmente una somma dell'attesa generata dalla loro crescente fama come live act, dalle vendite lente ma solide del precedente "Pilgrimage", e ultimo ma non meno importante, dall'epica copertina a firma Hipgnosis, una delle più iconiche della storia del rock.
È difficile trovare un posizionamento preciso per gli Wishbone Ash, e ancor più difficile per questo specifico album, che si piazza in una terra di nessuno al confine fra più generi e contesti.
Inizialmente si trattava di un quartetto hard rock con influenze blues, ma già capace con la sola ricetta di base di impressionare Ritchie Blackmore dei Deep Purple, che gli rimedierà un contratto discografico con la Mca. Presto divenne però evidente come la loro ambizione guardasse ben oltre.
La peculiarità della band consisteva nella coppia di chitarre soliste formata da Andy Powell e Ted Turner, ispirandosi secondo alcuni al brevissimo ma sconvolgente periodo in cui gli Yardbirds ospitarono Jeff Beck e Jimmy Page. L'ipotesi Allman Brothers non regge, dato che il loro debutto uscì nel novembre del '69, quando gli Wishbone Ash erano già una realtà.
Molti parlano di "chitarre gemelle" riferendosi alla formazione, ma la definizione è felice fino a un certo punto, dato che si sovrapponevano solo saltuariamente e miravano piuttosto alla creazione di complesse armonie. A completare il quartetto Martin Turner, bassista e autore dei testi, e Steve Upton alla batteria.
Rispetto ai dischi precedenti, "Argus" mostra un'impressionante evoluzione dello stile canoro. Dalle rochezze blues del debutto, in appena un paio di anni si è passati a cristallini intrecci a due o tre voci (Upton è il solo a non cantare), con timbriche limpide che riescono a disegnare tranquillità e pacatezza nei tratti più lenti, epicità in quelli più marziali, e senso di libertà durante le cavalcate. Se il sottofondo strumentale non fosse profondamente distante, ci si potrebbe quasi confondere con gli Yes.
L'apertura è affidata a "Time Was", suite che si apre con tre minuti di ballata acustica intimista e scatta poi in una cavalcata al passo di uno dei riff standard del rock (quello che molti fanno risalire a "Sweet Jane" dei Velvet Underground, ma che in realtà è in giro da sempre, basti pensare a "Crimson And Clover" di Tommy James & The Shondells). Ai tratti cantati, lamentazioni su un amore perduto, si alternano i lunghi e dinamici assoli di Powell.
Il sound è scintillante, incredibilmente ben registrato, grazie al lavoro dietro le quinte del produttore Derek Lawrence e soprattutto dello storico tecnico del suono Martin Birch, che di lì a breve avrebbe lavorato con metà delle band hard-rock britanniche. Era del resto necessaria una regia impeccabile per dare lustro ad arrangiamenti tanto rigogliosi.
Folk celtico e brezze westcoastiane, boogie rock e hard rock, merletti barocchi e calibrati virtuosismi si intersecano a generare strutture mutanti, che guardano dritto in direzione del rock progressivo. È in effetti quest'ultima l'etichetta più spesso avvicinata all'album, a dispetto del fatto che non ci siano tastiere (unica eccezione l'organo in "Throw Down The Sword", suonato da John Stout dei Renaissance) e del fatto che alle chitarre non dispiaccia incontrare scale e ritrovati blues, pur mostrandone una versione "espansa" e senza costrizioni compositive di sorta.
"Sometime World" inizia come una muscolosa ballata elettrica e si trasforma quindi in una corsa corale, guidata da taglienti chitarre ritmiche e armonie di basso. Al termine si sfoga in un fulminante, godurioso assolo. Come in molti fanno notare, sembra di ascoltare la versione britannica di "Free Bird" dei Lynyrd Skynyrd, se non che "Free Bird" venne registrata più di un anno dopo.
In chiusura del primo lato del vinile, "Blowin' Free" è un altro gagliardo boogie rock, tutto poggiato sul contrasto fra la base, galoppante e po' ubriaca, e il canto, terso e leggiadro.
La seconda parte è forse ancora più pregiata della prima. Tre dei quattro brani affrontano temi specifici, a differenza dei precedenti, che riflettono sulla condizione umana da un punto di vista più astratto.
"The King Will Come" contiene il più celebre momento nella carriera della band, quell'introduzione militaresca con rullante e chitarre intrise di wah wah. L'ideale per immergersi nell'atmosfera del testo a seguire, una libera elaborazione dell'Apocalisse biblica, con tanto di cielo che cade sulla terra e profeta che separa i buoni dai cattivi. Un granitico midtempo sostiene le armonie vocali, mentre il basso emana rigogliose, creative linee che rimandano a John Entwistle degli Who.
Upton è l'autore principale di "Leaf And Stream", a dispetto del fatto che il suo contributo in fase di registrazione si risolva in un sonaglio. Cantata da Martin Turner, questa volta senza il supporto degli altri, è uno splendido quadretto etereo che torna a interrogarsi sul senso dell'esistenza ("Lontano oltre le colline, dove la terra e il cielo si rincontrano, ci sono ombre simili a una mano che si apre. Controllano i segreti che ancora devo scoprire, e si meravigliano della luce che le illumina").
La chiusura è affidata a una sorta di mini-concept in due canzoni, "Warrior" e "Throw Down The Sword". La prima racconta la fierezza di un guerriero pronto per la battaglia, i suoi ideali di gloria e libertà, lo sguardo verso il futuro; la seconda mostra il cambio di prospettiva una volta che lo scontro si è concluso, e rimane da contemplare soltanto la miseria che ha generato, tanto che "La battaglia è terminata, né persa né vinta". Il disco si chiude con i versi "Ci sono stati momenti in cui mi sono trovato sulla porta della Morte stessa, con la sola speranza di una risposta". La musica riflette le due differenti visioni: pur essendo entrambe delle power ballad, una è cadenzata e aggressiva, l'altra più distesa e riflessiva. Tutte e due terminano, questo sì, con gloriosi assoli a più linee. Sono di fatto i brani che immergono il disco intero in un'atmosfera medievale e meglio ne spiegano la copertina.
Magari non dotati della tecnica monstre di altri gruppi prog e hard rock, gli Wishbone Ash avevano però al loro arco un gusto sopraffino, la capacità di donare ai brani strutture e narrazioni elaborate, e un'invidiabile abilità nell'assemblare i suoni, che li rese di fatto l'unicum di cui si accennava all'inizio.
La loro influenza, mai particolarmente rimarcata, è in realtà più estesa di quanto si pensi: molte band con due chitarristi, soprattutto sul versante più duro del rock, li hanno in seguito indicati come punto di riferimento. Anche nomi di enorme peso come i Thin Lizzy, i Judas Priest e gli Iron Maiden.
Certo, il successivo "Wishbone Four" avrebbe visto la formula regredire, le evocazioni dei secoli passati svanire, le canzoni semplificarsi e il mercato americano aprire le porte, anche se solo per un attimo. "Argus" però rimane lì imponente e perfetto, non c'è declino creativo che possa scalfire l'aura magica e il senso di compiutezza che circondano le sue trame.
21/05/2017