In Italia non girano granché. Sì, i GoGo Penguin, i Portico, il duo Yussef Kamaal qualche data l’han fatta, anche in rassegne di un certo peso. Ma non è che se ne parli. Non è materia per jazzofili seri — è musica un po’ facilina, no? Sembra dance, roba da rave. Manca di spessore, di continuità coi grandi del passato… e poi che è sta storia che non sempre improvvisano? — né un suono che possa interessare a chi, proveniente da ascolti pop, rock, elettronici in sintonia coi dettami indie, consideri di avvicinarsi al jazz come prosecuzione del suo cammino verso una sempre maggiore apertura di orizzonti. Kamasi Washington, lui sì. Metti su il disco e lo senti proprio: caspita, sto ascoltando il gezz. Quello vero, senza compromessi. E poi piace anche a Kendrick Lamar…
Eppure, il 20 ottobre 2018 alla "birthday celebration" per il decennale di Gondwana Records, la Roundhouse di Londra era strapiena. I più sgamati osserveranno: la Roundhouse è sempre piena. Sì, ma quella sera del grande locale in zona Camden erano affollatissimi anche i corridoi. Sotto la splendida volta in legno e metallo che fino a qualche decennio fa ospitava una piattaforma ferroviaria, si esibivano tra gli altri Portico, Mammal Hands, STUFF. I primi due, da tempo accasati presso Gondwana, erano il piatto forte della serata. I terzi, una band belga, avevano da poco fatto uscire il secondo album su Sdban — essendo assai meno noti, chi ha voluto ha potuto ascoltarli davvero da vicino, mentre la gioventù cosmopolita con t-shirt hipster di ordinanza si recava a procurarsi un drink.
Nel Regno Unito, il nu jazz è una cosa grossa. Beh, sì, sarà anche che lì un po’ tutto, in fatto musicale, ha più visibilità e più seguito che da noi. Ma di mezzo c’è anche l’assenza di quegli steccati di pubblico che rendono difficile, a casa nostra, costruire i cartelloni attorno a formazioni che non sono né carne né pesce: troppo giovanili per gli appassionati storici di jazz, troppo precisine per chi si avvicina al settore alla ricerca di una presunta autenticità espressiva (e tutti gli altri, comunque, a un concerto jazz che non suona jazz mica ci vanno).
Non che tra i frequentatori della Londra musicale le ripartizioni manchino, ma la situazione è più fluida. L’offerta è ampia, la circolazione semplice, ed è più naturale mantenere una certa apertura anche verso ciò che potrebbe non essere la propria cup of tea. Tra musicisti, poi, il fenomeno è amplificato: ci si conosce magari in una delle tante scuole musicali universitarie della città, si fanno percorsi diversi, per caso ci si ribecca, e da cosa nasce cosa.
Terre di confine
Il nu jazz è in fin dei conti questo, una terra di mezzo, di sovrapposizioni e incroci. Tracciarne una cartografia è impresa che comporta rischi e approssimazioni, e richiede l’accettazione di sostanziali aree di incertezza. Perché il territorio è, come ogni confine, di per sé poco compatto; avendo a che fare con marche ai confini dell’impero, poi, le zone esplorate sono potenzialmente meno di quelle ancora da scoprire. Abbozzare una mappa è allora, in qualche modo, fare una somma di storie: le linee finora percorse — o almeno quelle da cui, magari frammentariamente e per caso, qualche dispaccio è giunto con sufficiente chiarezza agli improvvisati geografi.
Nessun atlante è però tale senza uno sforzo di sintesi, la ricerca di una chiave di lettura unificante che permetta a chi lo consulta di ricavare dai tanti dettagli un’idea, un’impressione generale che guidi esplorazioni e analisi future. Dunque proviamoci. Partiamo da qui, dal tentativo di individuare se non i tratti comuni almeno gli elementi ricorrenti dell’orizzonte da mappare. Che cos’è, ‘sto nu jazz?
È quello che succede quando una generazione di musicisti cresciuta studiando jazz e ascoltando elettronica non sa scegliere da che parte stare, e decide di mettersi a cavallo di entrambe. Non di prendere a prestito le frasi del jazz e utilizzarle per costruire tracce elettroniche (intuizione che fu, grossolanamente parlando, caratteristica dell’acid jazz); e nemmeno, come fece il future jazz, dilatando il linguaggio improvvisativo post-bop o avant-jazz in basi e ritmi figli di techno, house, ambient, downtempo, drum’n’bass. Col nu jazz viene meno la ripartizione tra i due ambiti: non ci sono due fasi o due livelli diversi del processo — tutto quanto è al tempo stesso il prodotto della compenetrazione tra due linguaggi. La batteria è drum’n’bass e terzinata; i bassi sono al tempo stesso liberi, eleganti e consapevoli dell’effetto di un bel subwoofer; le scelte melodiche sanno bilanciare immediatezza e fattore sorpresa, ricchezza armonica e ripetitività.
Jazz ed elettronica, dunque. Ma quale jazz, e quale elettronica? A costo di rinunciare all’appropriatezza assoluta per ogni singolo artista, si possono cercare caratterizzazioni più specifiche. L’Idm: questo è il primo pilastro del nu jazz. L’elettronica “da ascolto”, nelle sue molteplici declinazioni: la techno astratta degli Autechre, i ritmi iper-segmentati di Squarepusher, i claudicamenti wonky di FlyLo e accoliti, il cut’n’paste soffice e certosino di Four Tet. Il jazz, poi, è beneducato. Può essere fusion, funky, third stream, o un avant- light in odore di Ecm: dall’ottavo dritto magari, ma senza troppi radicalismi timbrico-espressivi.
E poi c’è la faccenda del minimalismo. A ben pensarci, è abbastanza ovvio andare a parare lì, nel costruire un ponte che delle opposte sponde raccordi cerebralità, disciplina e (diciamolo, su) paraculaggine easy listening. Reich, Glass, certo, ma anche Nyman, Mertens e nomi assai pop come Ludovico Einaudi. Si sarà capito: a buona parte dei musicisti nu jazz, di cosa sia cool e cosa no, importa assai poco. Ostinati, tempi dispari, stratificazioni in fase o fuori fase; oppure melodie cristalline, riverberi, atmosfere soffuse di facile presa: ogni spunto è ben accetto, per dar forma a musica piacevole, evocativa, vitale, sfidante, a tratti inebriante.
Deviazione e standard
Fin qui l’abbiamo fatta semplice. Ma il nu jazz, come ogni genere in corso d’opera, è, più che un raggruppamento dentro-o-fuori, una categoria sfumata: pochissimi artisti, in qualche modo centrali, possiedono tutti i tratti definitori; moltissimi invece, non per questo meno significativi, rappresentano patchwork di elementi caratteristici, ingredienti anomali, riadattamenti del tutto propri.
La storiella dei jazzisti cresciuti col pallino della club music funziona per qualcuno, non certo per tutti. C’è chi alla formula nu arriva da una filogenesi math- (vedi i nostrani Satelliti), e ci sono alcune formazioni che al jazz giungono dai lati, con ricette che non sarebbero affatto fuori luogo in listoni post-rock: le due giapponesi, alcuni polacchi, i già citati STUFF, i Tangents. Per qualcuno (Jaga Jazzist, John Ghost) si potrebbe addirittura parlare di avant-prog; gente come il ceco Floex è talmente eclettica che richiederebbe un (o più di un) genere a sé. E poi tutti quei britannici di estrazione black… è chiaro che le loro istanze, non solo musicali ma anche culturali, sono altra cosa rispetto agli astrattismi bianchi e pure un po’ fighetti di altri artisti nu-jazzer loro connazionali (salvo non farsi problemi poi suonare in combutta gli uni cogli altri).
Solo negli ultimi anni un drappello di nuove band, nel prendere come punto di partenza non influenze esterne ma la babele linguistica elaborata dagli altri, è andato in qualche modo definendo un canone, trasformando il pidgin preesistente in grammatica riconoscibile. Siamo agli inizi del processo, ma non è difficile scorgere segnali in questo senso nei decostruzionismi post-STUFF. di Anton Eger e Otis Sandsjö o nell’estremizzazione baroccheggiante dello stile GoGo Penguin a opera dei Glass Museum. Qualcuno ravviserà nel fenomeno l’inizio della fase calante di un genere già di per sé d’appendice. Noialtri, più ottimisti o forse semplicemente dotati di gusti peggiori, speriamo che questa creolizzazione segni invece per il settore un ulteriore step in direzione prog, che rielabori i tanti spunti stilistici sparpagliati sulla mappa in un strutture magari più manieristiche, ma anche più ardimentose, immaginifiche e magistrali nell’arte del mindfuck ritmico-melodico.
Tracciare una linea
Giungiamo dunque alla selezione. Già, perché i trenta album non si sono scelti da soli. È stato necessario darsi un orizzonte estetico (“solo dischi belli”, ovviamente a giudizio nostro), e soprattutto risolversi a compiere quell’atto che va contro a tutto quanto scritto finora: delimitare il campo d’azione. La prima e più radicale linea di demarcazione è stata temporale: via tutto ciò che precede il 2010. Il che evita di dover discernere dove finiscano l’acid-, il future-, il broken beat e inizi il nu come lo intendiamo noi, ma inevitabilmente significa anche tagliare i ponti coi precursori, rinunciare a raccontare le storie di filoni interi. Le scorribande ambient-techno del trombettista Nils Petter Molvær e di Eivind Aarset, poi riarticolatesi in veste mediorientale sotto la guida di Dhafer Youssef. La strada che dalla drum’n’bass trascendentale dei 4 Hero porta alla fusion fratturata del neozelandese Mark De Clive-Lowe. La scuola cubista di Amon Tobin e dei suoi svariati (e talvolta abili) emulatori; il ruolo di JoJo Mayer e dei suoi Nerve nel trasporre in chiave jazz le costruzioni ritmiche drum’n’bass; la downtempo paradisiaca della Cinematic Orchestra, antesignana della poetica di tanto nu jazz a venire… No, non c’era spazio per tutto. Ci limitiamo a citare questi nomi, un po’ alla rinfusa, nella speranza che chi desideri approfondire possa sfruttarli come punto di partenza per le proprie, autonome esplorazioni.
Abbiamo così ristretto le nostre attenzioni su dieci anni (undici, a dire il vero). Ma è a questo punto che il gioco si è fatto davvero difficile. I cero li mettiamo o no? Thundercat? I Melt Yourself Down? I Caravan Palace? Non c’erano comodi spartiacque precostruiti che potessero aiutarci a decidere. Abbiamo optato, consci dell’arbitrarietà della scelta, per una visione tutto sommato restrittiva del panorama: ci siamo basati sulle caratteristiche chiave individuate sopra e abbiamo "fatto fuori" scene intere. Via il dark jazz (evabbe', tanto ci annoia a morte). Via l’electroswing, via tutto ciò che deve più al soul/urban che all’Idm — Alfa Mist ci sta simpatico ma includerlo ci pareva una forzatura. Fuori dai giochi anche, e stavolta sì con dolore, tutto il ramo afrobeat della scena londinese, anche se legatissimo a cose qui trattate: niente Melt Yourself Down insomma, e neppure The Comet is Coming, Ezra Collective, Sons of Kemet. Estromessi perfino gli Heliocentrics (ma fate i bravi e ascoltateli lo stesso!). Tutto sommato - ci siamo detti - di questi artisti si scrive già abbastanza. E di almeno qualcuno dei tanti "esclusi" di cui si legge in giro meno del dovuto, su tutti il "giro" mediorientale di Avishai Cohen, Tigran Hamasyan, Daniel Herskedal, Yazz Ahmed, cercheremo di occuparci in futuro.
Che cosa resta, dunque? Una ragnatela di artisti, parzialmente disconnessa, con al centro due gruppi disomogenei di formazioni britanniche. Da una parte la ciurma Gondwana o-giù-di-lì, ovvero quella più minimalista, bizantina e bianca; dall’altra, la fazione più black e vicina ai riflettori di cui godono oggi gli ideologi afro-londinesi Tom Skinner e Shabaka Hutchings. Alla periferia, tante piccole o grandi scene nazionali, a volte abbastanza sviluppate da possedere tratti stilistici proprie (si vedano le scuole giapponese e polacca, o quella recentemente condensatasi attorno alla label belga Sdban), altre niente più che un’accozzaglia di proposte slegate fra loro, forse transitanti solo per caso dalla composita galassia qui delineata.
È davvero tutto. Vi lasciamo con tre ore e spicci di playlist, un pugno di videoregistrazioni live davvero fenomenali, e ovviamente i trenta dischi. Li abbiamo organizzati in tre gruppi, non per una questione di valore ma secondo un blando criterio di rappresentatività. All'inizio della stesura della lista, eravamo implicitamente persuasi che per il genere il grosso dei giochi fosse ormai fatto: le band principali erano chiare, i loro dischi migliori usciti da tempo… Durante la scrittura questa idea è però mutata. Abbiamo incontrato nuove formazioni, conosciuto etichette promettenti, connesso puntini verso direzioni che appaiono ancora da sondare. Alcune di queste scoperte hanno trovato spazio nella selezione che segue; altre invece sono arrivate quando eravamo ormai troppo avanti nell’elaborazione, e ci siamo accontentati di inserire una citazione di straforo nello spazio dedicato a qualche artista connesso.
Restiamo in impaziente attesa di nuovi aggiornamenti, ma per intanto qui finisce il nostro viaggio e inizia il vostro. Buon ascolto!
Cinque dischi
Hidden Orchestra - Archipelago (Tru Thoughts, 2012)
La Hidden Orchestra è un enigma. L’identità del progetto, innanzitutto, cui fa capo il solo Joe Acheson (compositore, polistrumentista, sound designer), che pure cela dietro il suo nome una quantità di collaboratori e membri più o meno fissi: Poppy Ackroyd (violino e pianoforte), Tim Lane (trombone, percussioni e batteria), Jamie Graham (batteria e percussioni). E poi l’aspetto puramente musicale fatto di tassellature di ritmi jazz, hip-hop e field recordings, melodie folkeggianti e trasognanti atmosfere trip-hop. Archipelago è il secondo album della Hidden Orchestra. La strumentazione si arricchisce di arpe, clarinetti e cornamuse, in una tessitura di arrangiamenti più complessa rispetto al disco precedente, ma non meno omogenea né meno immediata. "Reminder" racconta l’incontro onirico tra Moondog e Amon Tobin, dove il minimalismo sgangherato del vichingo si incammina claudicante in un intrico di legni e corde pizzicate, che aprono la strada al tripudio finale di ottoni e breakbeat pesanti come incudini. In "Seven Hunters", l’arpa celtica di Mary Macmaster evoca l’incanto di un paesaggio folk fatto di scogliere immerse nella foschia e sentieri di giganti che emergono dal mare. C’è anche spazio per un cameo di un vecchio amico: "Hushed", scritta da Tomáš Dvořák (altrimenti noto come Floex), che suona anche il clarinetto. Ospitata che si ripeterà in "Dawn Chorus" e nella colonna sonora del videogioco "Creaks" (Amanita design, 2020), dove si assiste a curioso scambio di testimoni. Dvořák, storico compositore di colonne sonore per Amanita Design, ha infatti lasciato il posto ad Acheson in occasione dell’ultima fatica dalla compagnia ceca. Acheson, che non aveva mai scritto musica per un videogame, ha affrontato la sfida con coraggio e una buona dose di ambizione. Probabilmente, sarebbe stato più facile giocare in difesa e limitarsi a mettere insieme qualche scarto delle precedenti pubblicazioni. Eppure, rifiutando ogni forma di linearità, il polistrumentista scozzese ha avuto la brillante idea di riprodurre la casualità delle interazioni tra il giocatore e il mondo di gioco. Ecco dunque che premere un interruttore, oltre che accendere una lampadina, evoca un particolare incastro melodico, una porta che sbatte risveglia una nidiata di cordofoni. Tasselli musicali che formano un mosaico sempre diverso a seconda delle azioni del giocatore, di cui il disco non può che rappresentarne una semplificazione, una possibilità su un milione. Un progetto che si colloca dalle parti della musica generativa di Brian Eno e della OST di "No Man’s Sky" (Hello Games, 2016) realizzata dai 65daysofstatic. Il risultato, neanche a dirlo, è l’ennesimo gioiello. (F. Del Prete)
GoGo Penguin - Man Made Object (Blue Note, 2016)
Leggerezza, ritmo, spiritualità. Sembrerebbe la réclame di un qualche terrificante villaggio vacanze ayurvedico, e invece è la chiave stilistica fondamentale della band più nota ed entusiasmante del panorama nu jazz. Tre le componenti strumentali che danno vita alla loro riconoscibilissima formula: il pianismo luminoso di Chris Illingworth, il contrabbassista Nick Blacka, anima materica della formula, e i funambolici ritmi drum’n’bass di Rob Turner — senz’altro tra i batteristi più dotati della sua generazione.
Proprio le costruzioni ritmiche sono il primo aspetto che colpisce l’ascoltatore e l’elemento che da subito (o quantomeno dal secondo album, "v2.0") ha reso così strutturalmente diversa la proposta del trio di Manchester da quella di qualunque altra formazione sulla piazza — incluse quelle a cui spesso è un po’ improvvidamente accostato: Bad Plus, Brad Mehldau, Esbjörn Svensson Trio. Ben lungi dall’essere, come qualcuno ama presentarli, una sorta di versione annacquata di questi nomi blasonati, i GoGo Penguin sono infatti una creatura che ha come basi del suo Dna i ritmi mutanti di Squarepusher e Aphex Twin, ingegnerizzati in Ableton Live e infusi di spirito vitale (e tocco jazzistico) grazie alle eccezionali virtù interpretative di Turner. Alle cerebrali segmentazioni di Turner fa da contraltare il melodismo limpido di Illingworth, che giocando di ripetizioni e sustain fa suoi gli schemi più efficaci del minimalismo easy listening di Ludovico Einaudi. Il contrabbasso di Nick Blacka, versatile e sempre tridimensionale, è l’insostituibile elemento stabilizzante.
"Man Made Object" è ad oggi, per qualità della produzione ed estro compositivo, lo zenit espressivo di questa band cruciale. I giochi di rallentamenti e accelerazioni gioiose, già fulcro dell’abbagliante "One Percent", sull’album precedente, sono il tema centrale di "Unspeakable World". In "Smarra" e in "Protest" predomina invece l’anima tumultuosa dei nu jazzer mancuniani: i vertiginosi giri di basso di Blacka, i guizzi melodici di Illingworth e gli intricatissimi pattern di Rob Turner si fondono tra loro con incredibile fluidità — quel che ne risulta è, musicalmente parlando, niente meno che un maelstrom. Ma è nei quattro minuti di "Surrender To The Mountain" che l’arte dei GoGo Penguin trova la sua sublimazione: un soft/loud riletto con i codici del nu jazz, una lunga impennata emotiva fatta di contorsioni ritmiche e un piano che cresce come una marea, fino a conquistarsi il centro della scena.
I tre torneranno con "A Hundrum Star" — album che segue le orme del precedente, ma forse in maniera meno ispirata — e con l’impeccabile Ep "Ocean In A Drop", dove si trovano i momenti più groovy della loro carriera. L’ultima uscita è di quest’anno, si intitola "GoGo Penguin" e segna una svolta verso uno stile più minimalista. (F. Del Prete, M. Sgrignoli)
Portico Quartet - Art In The Age Of Automation (Gondwana Records, 2017)
Gli anni che separano "Portico Quartet" da "Art In The Age Of Automation" sono il racconto di un abbandono, quello di Nick Mulvey (fondatore e hang drummer); di una doppia mutazione, da quartetto a trio per "Living Fields", e quindi di nuovo "Quartet", con l’arrivo di Keir Vine (hang e piano), la sua partenza e il suo definitivo ritorno; infine, di una palingenesi musicale certificata con l’approdo in Gondwana.
Il suono dell’hang — uno strumento a percussione a metà strada tra uno steel drum e un tegame — è un filo in grado di intrecciarsi delicatamente all'interno delle tessiture degli arrangiamenti. È anche attraverso l’hang che ritmi sbilenchi mutano fluidamente in beat ciclici, ossessivi, minimalisti e i brani virano dal jazz rarefatto verso traiettorie assai più concitate e pressoché hebdeniane. "Art" è un ritratto retrofuturista dipinto con una tavolozza che va dall’impressionismo di Erik Satie alla minimalità policroma di Terry Riley. Le partiture chamber jazz si liquefano sotto l'influsso di trucchi di produzione e chincaglieria glitch, che filtrano il sax di Jack Wyllie e trasformano le note in gocce di pioggia.
Dalla descrizione, almeno fin qui, si potrebbe pensare di essersi imbattuti in una recensione di "Kid A". Non si andrebbe, in effetti, più di tanto fuori strada (d’altra parte, l’incipit di "Objects To Place In A Tomb" è o non è "Pyramid Song"?). Il punto di partenza qui è però speculare a quello dei Radiohead: dal jazz, nella sua versione più atmosferica e easy listening, ci si avvicina a una musica del post-umano, che riesce comunque a svelare scorci di malinconica bellezza persino tra gli ingranaggi della macchina. Volendo, il gioco delle similitudini con i Radiohead potrebbe continuare con "Untitled (AITAOA #2)", il loro "Amnesiac". Trattasi di un Lp cucito insieme con alcuni offcut del disco precedente, ma non vi ingannino i facili pregiudizi. Sarà pure un album di "avanzi", tuttavia "Untitled" può vantare una varietà persino superiore ad "Art", con momenti quasi dubstep ("Ruins"), brani di commistione tra modern classical e riverberi di ambient music di scuola Harold Budd.
Quasi come a tenere fede al titolo di "Art In The Age Of Automation", la rinascita dei Portico Quartet ha coinciso con una rinnovata prolificità, come testimoniato dall’uscita di un album e due Ep nei due anni successivi, lavori che hanno consacrato i quattro ragazzi londinesi come i portabandiera del nu jazz. (F. Del Prete, M. Sgrignoli)
Toshio Matsuura Group - LOVEPLAYDANCE - 8 Scenes from the Floor (Brownswood Recordings, 2018)
In un ipotetico ordine di ascolto preferenziale dei dischi di questa lista, quello del Toshio Matsuura Group dovrebbe occupare il primo posto, oppure l’ultimo. Il primo, perché per formazione e selezione dei brani (cover di pezzi che hanno ispirato e ispirano il leader della United Future Organization, storico trio acid jazz giapponese) rappresenta la migliore introduzione possibile alle contaminazioni jazz/elettronica/hip-hop. L’ultimo, perché scorrerne la tracklist e ascoltarne la resa sonora è, per l’appassionato che abbia speso qualche tempo a cercare di "collegare i puntini" per farsi un quadro della scena, un continuo "Sì, diamine, avevo ragione!" — una soddisfazione, insomma.
La storia di "Loveplaydance" è quella di due produttori nati a diecimila chilometri di distanza, che si incontrano grazie alle loro passioni comuni per l’acid jazz e declinazioni latin-cuban di sorta. Uno è il suddetto Toshio Matsuura, l’altro è Gilles Peterson che con la sua etichetta Talkin’ Loud si ritrova a pubblicare nel Regno Unito il primo disco dei giapponesi U.F.O. È il 1993 e un ponte che collega Londra a Tokyo è stato creato, ma ci sarebbero voluti venticinque anni affinché qualcosa di grosso tornasse a transitarvi. I due riuniscono una truppa di musicisti che comprende il batterista dei Sons of Kemet Tom Skinner, Tom Herbert, bassista di The Invisible, Yussuf Dayes e la trombettista Yazz Ahmed: un raggruppamento one-shot di talenti, che pubblica nel 2018 il suo unico album.
Il menu dell’oretta scarsa di musica (che si allunga però nella versione cd, grazie all’inserimento di due ulteriori brani) copre episodi chiave della strada che porta al nu jazz: la drum’n’bass jazzata di Roni Size, il lirismo techno di Carl Craig, l’immancabile Flying Lotus, le esplorazioni jazztroniche del pianista norvegese Bugge Wesseltoft. Se in qualche caso si può parlare di rispettosa rivisitazione, in altri abbiamo a che fare con scombussolamenti veri e propri: da questi pezzi di stile disomogeneo esce infatti un suono compatto, futurista ed estremamente a fuoco, che va a collocarsi in un crocevia tra i groove appiccicosi e psichedelici degli Heliocentrics, lo strano ibrido acid-danzereccio di Kamaal Williams e la colonna sonora di Cowboy Bebop. (F. Del Prete, M. Sgrignoli)
Makaya McCraven - Where We Come From (Chicago × London Mixtape) (International Anthem Recording Company, 2018)
Con una formazione che è quasi speculare al Toshio Matsuura Group (dentro Kamaal Williams e fuori Yussef Dayes, la tuba di Theon Cross anziché la tromba di Yazz Ahmed, Nubya Garcia in comune, e ovviamente McCraven al posto di Skinner alla batteria), uno dei nomi più celebrati della scena statunitense ricollega le due sponde dell'oceano per un originale progetto jazz/hop. A Londra per la registrazione dell'Lp "Universal Beings", nel 2017, McCraven condivide due serate sul palco del Total Refreshment Center con la crème giovanile della scena locale. Come parte di "Fresh Roasted", una rassegna promossa dal locale, tre giorni dopo cinque producer sono chiamati a remixare dal vivo le registrazioni di McCraven e soci, qua e là sovraincidendo il loro MCing. Estasiato dal sound spettacolarmente nu del risultato, si fa mandare il materiale — inizialmente pensato al massimo come "bonus" da accludere a "Universal Beings" — e, aggiunti due remix di raccordo, lo tramuta in due suite contigue nel suo studio di Chicago.
L'entusiasmo di McCraven è ben comprensibile. L'eclettico processo descritto sopra ha prodotto materia viva e pulsante, con tutto l'ardore improvvisativo della presa diretta ma con la struttura e la direzionalità consentite da selezioni, loop, taglia e cuci. È davvero un incontro di mondi: non solo (ovviamente) improvvisazione jazz e remix culture, ma soprattutto il panorama della nuova blackness musicale londinese, in piena riscoperta funk e afrobeat, e gli universi ritmici sghembi e unquantized di J Dilla e FlyLo, numi tutelari di McCraven. Galvanizzante e imperdibile. (M. Sgrignoli)
Altri dieci
Dawn Of Midi - Dysnomia (Thirsty Ear, 2013)
In un video di "Atlas" reperibile su YouTube, Amino Belyamani suona un accordo al pianoforte con la mano destra, mentre con la sinistra manipola direttamente le corde dello strumento. Dopo 17 secondi, Aakaash Israni subentra suonando la stessa nota al contrabbasso. Infine tocca alla batteria di Qasim Naqvi innestarsi nella linea ritmica, che cresce in complessità fino a rivelarsi per quello che è: un trattato di musica sperimentale che, tra le tante cose, è anche un piacere sentire. A tratti sembra una sorta di gamelan camuffata da jazz con moduli poliritmici che partono, procedono e si incastrano dopo un certo numero di battute per poi sfasare di nuovo, come fossero eventi astronomici. In "Nix" si può persino ballare su un pezzo techno a tutti gli effetti, anche se suonato con strumenti analogici. Di che musica si tratti effettivamente lo sanno solo loro, perché è chiaro che il jazz è uno strumento per scombinare riferimenti e coordinate. (F. Del Prete)
Satelliti - Transister (Cuckundoo Records, 2013)
Sbucano dal nulla, pubblicano due dischi spettacolari e poi svaniscono. Ma, intanto, gli altoatesini Satelliti hanno aggiunto un altro tassello nel processo di significazione di questo genere variopinto. Perché è chiaro ormai che il nu jazz non è solo tempi dispari e piano super polished stile Einaudi, ma anche una batteria che flirta con le tastiere in impennate soft/loud in salsa krauta ("Voltage"), momenti di serena distensione ("Brother Green" ed "Espirit de Corps") e squarci improvvisi di pura energia, come in "Bright Tunnel", che proietta l’ascoltatore nell’iperspazio come un’iperguida impazzita. Nel 2016 pubblicano un nuovo singolo intitolato "Techna", per poi ritornare nell’oblio. È chiaro che la loro esistenza sarà tutta così, ai confini della realtà, tra dissolvenze misteriose e apparizioni imprevedibili. Ma, in attesa della prossima congiunzione astrale, almeno un capolavoro già ce lo hanno regalato. Tanta grazia. (F. Del Prete)
Ambiq - Ambiq 2 (Arjunamusic, 2015)
Max Loderbauer, Samuel Rohrer, Claudio Puntin (un tedesco e due svizzeri) hanno una certa fama individuale nei territori di confine tra elettroacustica, jazz, ambient e improvvisata. Tra il 2014 e il 2018, le loro esperienze convergono nel progetto Ambiq, col cui nome percorrono le rassegne europee e pubblicano due album. È l'occasione, per i due svizzeri, di mettere a frutto il proprio pedigree jazz (Rohrer è batterista, Puntin clarinettista — entrambi hanno pubblicato per ECM), e per Loderbauer di riprendere le manipolazioni studiate coi resampling di "Re:ECM" (2011). Dei due Lp, il secondo è il più riuscito: i suoi brani sono astratti giochi di costruzione e decostruzione, sempre intriganti sul piano ritmico e magistralmente fluttuanti tra concretezza acustica e liquidità elettroniche. (M. Sgrignoli)
Jaga Jazzist - Starfire (Ninja Tune, 2015)
Con Flat Earth Society e Andromeda Mega Express Orchestra, i norvegesi Jaga Jazzist sono la più significativa big band progressive degli ultimi decenni. Del lotto sono oltre che la più longeva anche la più incline alle contaminazioni e ai voltafaccia stilistici. Negli oltre vent'anni di attività, si sono sommati nella sua musica post-rock, Idm, jazz-rock di scuola zappiana, fino a giungere col capolavoro "Starfire" a una formula che in mancanza di altre etichette non può che definirsi nu jazz sui generis. Energici e trascinanti, i cinque brani del disco innestano un'elettronica al neon sulla ricchezza timbrico/dinamica offerta dalla formazione allargata, alimentando una macchina space-jazz-rock che macina i minuti e incanta l'ascoltatore senza indugiare in alcun eccesso psichedelico. (M. Sgrignoli)
Pink Freud - Pink Freud Plays Autechre (Mystic Production, 2016)
Fari, con i connazionali Skalpel e Jazzpospolita, della fiorente scena nu jazz polacca, i Pink Freud sono artefici fin dai primissimi anni Zero di un percorso del tutto personale, che sposa l’eredità della scena "yass" (avant-jazz sghembo, dissonante ma dalle plateali rimembranze bandistiche e popolari, sviluppatosi in Polonia negli anni Novanta) con dosi crescenti di post-rock e una vasta gamma di stili elettronici. La continua evoluzione musicale si accompagna ai frequenti cambi di line-up, con unica costante il bassista Wojtek Mazolewski. La fase clou in senso nu jazz inizia nel 2010 col caleidoscopico "Monsters Of Jazz" e procede con questo riuscito esperimento di rilettura, che rappresenta sia un tributo alle radici Idm della scena che un'efficace vetrina della personalità della band. (M. Sgrignoli)
STUFF. - Old Dreams New Planets (Sdban, 2016)
Con il loro primo album nel 2015, i belgi STUFF. furono un fulmine a ciel sereno. Cinque millennial diplomati al conservatorio che, dopo le loro brave gavette solistiche nel circuito jazz di Anversa, esordiscono sulla neonata etichetta Buteo Buteo con una mistura mai sentita prima di wonky, funk sghembo, fusion pachidermica. Un anno dopo rieccoli, questa volta su Sdban: "Old Dreams New Planets" è, come da titolo, l'espansione centrifuga dello stesso nucleo stilistico che aveva reso il debutto così entusiasmante e difficile da classificare. Slap bass frantumato, zigzag di clarinetto elettronico EWI, guizzi sintetici che si inseguono in perenne bilico tra easy listening e cervellotici stop'n'go, in un mindfuck astratto che piacerà ai (pochi ma buoni) ammiratori dei Tortoise di "Standards". (M. Sgrignoli)
Yussef Kamaal - Black Focus (Brownswood Recordings, 2016)
Per quanto abbia avuto vita assai breve come duo, il combo Kamaal Williams + Yussef Dayes è stata la formazione più iconica del versante "black" del nu jazz londinese. Il loro primo e unico album, intriso di funk e jazz urbano, è tanto retrò nell'aura complessiva (a produrre d'altra parte è Malcolm Catto degli Heliocentrics, alfieri del revival psych-jazz-funk) quanto contemporaneo nei dettagli. Il drumming di Dayes fonda la sua espressività sulle segmentazioni broken beat, mentre Williams — pur abilissimo al Rhodes — dà il meglio di sé con tappeti ambientali in pieno stile post-dnb. Quando poi il basso ingrana, pare di assistere a un'evoluzione posh dei Jamiroquai. Se l'esordio non bastasse, entrambe le carriere solistiche hanno prodotto risultati brillanti, su una linea simile. (M. Sgrignoli)
Tangents - New Bodies (Temporary Residence, 2018)
In Australia succedono cose strane. Tipo ritrovarsi un quintetto di musicisti dai background più disparati suonare una musica che è la diretta continuazione delle stramberie jazz/post-rock dei Tortoise. Be', in effetti non è così strano. E suona ancor meno strano se consideriamo l’intervento di Casey Rice, già produttore dei Tortoise, a dare coerenza al tutto. "New Bodies" fa registrare una virata verso suoni più orecchiabili, ma senza perdere l’inclinazione per l’improvvisazione già apprezzata nel precedente "Stateless". Si prendano a titolo d’esempio i 17 minuti di "Gone To Ground", dove un piano preparato e le percussioni vivide di una marimba aprono la strada a un minimal folk elettronico à-la Floex. Il brano evolve in un crescendo ansiogeno di suoni elettronici che fluisce in un finale dominato dal gioco di interconnessioni tra gli archi, un basso iperpompato e la batteria di Evan Dorrian che ricorda quella di Jaki Liebezeit in "Bel Air". (F. Del Prete)
Anton Eger - Æ [Edition Records, 2019]
Æ è il primo album solista di Anton Eger. Segni particolari: astratto, stratificato, storto. Come se non bastassero le peripezie ritmiche messe in opera coi Phronesis, il batterista norvegese raduna un gruppo di musicisti tra Scandinavia e Regno Unito già orbitanti ai limiti della galassia nu jazz, tra cui figurano Petter Eldh, bassista svedese tirato su a hip-hop e Charlie Parker, e Matt Calvert, spigoli e distorsioni chitarristiche dei Three Trapped Tigers. Non deve sorprendere se l'ascolto rimanda tanto al caos geometrico e glitchy dei TTT quanto all’algido decostruzionismo dei Tortoise.
Paiono gli STUFF. 2.0: un wonky-jazz multisfaccettato, sghembo e imprevedibile, che sarà una chiara ispirazione per quanto il sassofonista Otis Sandsjö, qui presente, darà alle stampe nel 2020. (F. Del Prete, M. Sgrignoli)
Mark Guiliana - Beat Music! Beat Music! Beat Music! (Motéma, 2019)
Il batterista Mark Guiliana è un colosso della scena jazz contemporanea. Noto al pubblico rock per la sua presenza nell'ultimo Lp di David Bowie, negli anni è stato al fianco di Avishai Cohen, Donny McCaslin, Dhafer Youssef, Brad Mehldau. Versatile, energico e maestro dei sottili giochi di anticipo e ritardo, è stato tra i primi a sperimentare la ri-trasposizione degli schemi ritmici drum'n'bass in campo jazzistico. La sua più recente creazione in veste di leader è il suo indubbio capolavoro nu jazz: tavolozza timbrica dal netto predominio sintetico, ritmi jazz-rock incalzanti e disarticolati, derive wonky, continue incursioni in territorio videogame music. Un ribollire magmatico di stili, con composizioni che in pochi minuti virano dalla fusion alla techno, dal dub al math fantascientifico. (M. Sgrignoli)
Altri quindici
Igor Boxx - Breslau (Ninja Tune, 2010)
Così come i primi due Lp degli Skalpel (i due dj Igor Pudło e Marcin Cichy), anche l'esordio solistico di Pudło avviene sulla rinomata etichetta londinese Ninja Tune. Sorta di concept sull'assedio sovietico della sua città natale (Breslavia, oggi Wrocław, fino al 1945 parte della Germania), il disco applica il cut&paste alla materia jazz un po' come Amon Tobin fece a fine anni Novanta. Anziché su entità proteiformi e tridimensionali, la ricerca di Igor Boxx è incentrata sulla costruzione di paesaggi sonori, evocativi e illusoriamente "live" — solo in rari passaggi le suture tra sample sono poste in evidenza. Nel 2014 gli Skalpel si riuniscono, e a conferma di questa inclinazione pubblicano nel 2018 un Ep live acustico. Nel 2020 esce invece "Highlight", probabilmente il loro vertice. (M. Sgrignoli)
Floex - Zorya (Minority Records, 2011)
Quando i confini del nu jazz erano ancora indefiniti, Floex era già lì, impegnato nella terraformazione di quei territori ancora vergini. Le colonne sonore dei videogiochi "Samarost" 1 e 2 prima, e di "Machinarium" poi - tutte firmate Tomáš Dvořák, suo nome di battesimo - hanno dato forma all’humus brulicante di microsound e beat elettronici. Quindi è arrivato "Zorya", secondo album pubblicato con lo pseudonimo Floex, a plasmare una morfologia più definita del genere in questione. Qui le iterazioni minimaliste si mescolano a una Idm classicheggiante che riverbera di un’atmosfera fiabesca, come nella crepuscolare "Veronika’s Dream", o come in "Casanova", dove un jazz dai colori tenui fluisce in una coda di pulse reichiani e culmina in un finale rumoristico che inghiotte ogni altro suono. Degna di nota, sempre a proposito di bordi e confini da delineare, la sua collaborazione con la Hidden Orchestra negli album "Archipelago" e "Dawn Chorus". (F. Del Prete)
Jizue - Novel (bud music, 2012)
Lo stile cangiante, incentrato sul pianoforte ma fortemente legato al soft/loud di marca Mono, Explosions in the Sky ecc. contraddistingue questo quartetto di Kyoto fin dall’Ep di debutto, uscito nel 2009. Ipercinetica, ipermelodica, cogli anni la band ha progressivamente messo in secondo piano gli spigoli math delle prime opere per abbracciare un ventaglio di influenze molto ampio ma sempre riconoscibilmente nipponico: la robustezza fusion dei Casiopea, il funambolismo tecnico di Hiromi, la devozione alla elevator music che accomuna tanti filoni musicali giapponesi. Secondo album in studio, "Novel" è forse il più equilibrato tra il dinamismo degli esordi e la versatilità delle uscite più recenti: quasi prog, si potrebbe dire, con in più la sorpresa glitch di "c-loud". (M. Sgrignoli)
Floating Points - Elaenia (Pluto, 2015)
Come non includere nella lista il disco che più ha contribuito ad avvicinare il nu jazz al pubblico indie? Gran parte dei brani che compongono il debutto musicale del neuroscienziato ed epigenetista mancuniano Sam Shepherd è in realtà Idm assai lontana dai canoni del genere, ma un po' di e-piano qua e là e — soprattutto — la torrenziale suite "Silhouettes" hanno fatto dell'album il simbolo del nuovo spettro jazz/elettronico che andava aggirandosi per la Gran Bretagna (l'altro oggetto totemico è "Black Sands" di Bonobo, ma se possibile c'entra ancora meno, quindi lasciamolo stare). Si diceva invece di "Silhouettes": 10 e spicci di durata, un bel crescendone di archi e tastiere liquide, Tom Skinner alla batteria che non fa mai male. Non varrà una carriera ma è senz'altro un bel sentire. (M. Sgrignoli)
Kneebody + Daedelus - Kneedelus (Brainfeeder, 2015)
Meno compatta di quella britannica, la scena americana ha come punta di diamante un pugno di formazioni incentrate su figure di spicco del panorama jazz. Tra queste, i Kneebody del batterista e ingegnere del suono Nate Wood (Tigran Hamasyan, Donny McCaslin) si distinguono per longevità e qualità delle uscite. Il loro stile, sempre equilibrato tra estro ritmico e tradizione jazzistica, acquisisce ulteriore dimensionalità dall'affiancamento col versatile producer Daedelus, noto per i suoi lavori a cavallo tra glitch, folktronica, hip-hop strumentale. Ne risulta il disco più policromo e riconoscibilmente "nu" per la band di Wood, che senza abbandonare la compostezza che è nel suo pedigree si apre qui a efficaci contaminazioni elettroniche, altrove percepibili solo come influenza ritmica. (M. Sgrignoli)
Mammal Hands - Floa (Gondwana Records, 2016)
Terzetto completamente acustico proveniente da Norwich e accasato presso Gondwana, i Mammal Hands potrebbero sembrare (label a parte) una bizzarra inclusione in questa lista. I punti di contatto tra lo stile arioso del trio e il resto della scena sono però abbastanza vistosi da fugare i dubbi entro il primo minuto di un qualsiasi brano. Su una base ritmica tanto leggiadra quanto vistosamente indebitata verso l'Idm, il piano traccia schemi ciclici di ascendenza minimalista, richiamando sia i connazionali GoGo Penguin che l'ardita spiritualità minimal-jazz dello svizzero Nik Bärtsch. Al sax spetta poi il ruolo di indirizzare melodicamente i pezzi, spesso costruiti su dinamiche soft/loud. Il flusso di sospensione, concitazione, luminosità che ne risulta mostra nuovi dettagli a ogni ascolto. (M. Sgrignoli)
Mouse On The Keys - Live At Red Bull Studios Tokyo (n.a./self-released, 2016)
Inizialmente quasi una versione più fragorosa dei connazionali Jizue, il terzetto di Tokyo (due tastiere e batteria) ha negli anni virato verso territori sempre più ambientali e downtempo. Questo live li cattura proprio un attimo prima del completamento della transizione (definitiva con "Tres", 2017), quando ruvidezza, torrenzialità e cura delle atmosfere si combinano al meglio. Assemblando brani dagli Lp, Ep e split editi precedentemente, e rimuovendo en passant un po' di patina produttiva presente nelle registrazioni in studio, il disco suona come la sintesi più efficace della proposta della band: un incontro di dinamiche soft/loud, frasario jazz-fusion, innesti elettronici e ritmi da qualche parte tra Idm e post-hardcore, sempre sfidanti ed efficacemente al servizio di orecchiabilità e grandeur. (M. Sgrignoli)
Niechęć - Niechęć (Wytwórnia Krajowa, 2016)
Inclusione senz’altro borderline, stilisticamente ma non per qualità, quella dei varsaviani Niechęć ("disgusto") è tra le formazioni internazionalmente più in vista del panorama polacco. La loro è musica tesa, grumosa, con una tavolozza timbrica a tinte fosche spesso dominata dal sax di Maciek Zwierzchowski (che è anche compositore della buona parte dei brani). Molto più che l'elettronica o il minimalismo, è il jazz-rock a costituire il fondamento sonoro del loro secondo album, che come il precedente si costruisce prevalentemente sulle atmosfere, combinandole tuttavia con passaggi di grande intensità ritmica e timbrica. Ne risulta un post-rock/jazz dal carattere fortemente cinematico, in cui qua e là sembrano perfino emergere echi di King Crimson! (M. Sgrignoli)
Nonkeen - The Gamble (R & S Records, 2016)
Il berlinese Nils Frahm è assai rinomato in ambito ambient e modern classical, ma non è usualmente associato al nu jazz. Eppure, quando nel 2012 rimette mano ad alcuni tape giovanili coi compari di allora (Fredric Gmeiner e Sepp Singwald), le coordinate su cui decide di muoversi sono decisamente attigue al filone: pattern ciclici, ritmi dagli accenti jazz, ma affini a techno, kraut e post-rock in quanto a svuotamento e regolarità, tavolozza con ampie concessioni elettroniche, dilatazioni ambientali, mood soffuso e piovigginoso. Difficile ricostruire gli esatti dettagli esecutivi del disco, poiché tutto è accreditato indistintamente all'intero trio; si sa tuttavia che il periodo di incisione va dal 2009 al 2015 e che in ben cinque tracce su nove compare Andrea Belfi alla batteria. (M. Sgrignoli)
Richard Spaven - The Self (Soul Has No Tempo, 2017)
Batterista navigato del giro future jazz/broken beat, il londinese Richard Spaven ha collaborato con artisti del calibro di 4Hero, Gang Starr, Guru, Flying Lotus, Mark de Clive-Lowe. Il suo percorso solista lo condurrà nel 2018 a incidere per Real World un disco con Mullarkey e McCallum della Cinematic Orchestra. Proponiamo qui l'uscita precedente, con Mullarkey in veste di produttore: un campionario sorprendentemente compatto del variegato spettro stilistico dell'artista. In brani che spaziano dal soul urbano e raffinato (ospite Jordan Rakei alla voce) al dnb più aristocratico (con tanto di superba cover di Photek), Spaven dà prova non solo di impeccabile classe ritmica, ma anche di grande abilità nel costruire un mood futuribile e peculiare, assieme altero e saturo di emozioni. (M. Sgrignoli)
Hobby Horse - Helm (Auand Records, 2018)
La via italiana al nu jazz passa da un bassista di Chicago, un sassofonista e clarinettista del Wisconsin e un batterista di Firenze: Joe Rehmer, Dan Kinzelman e Stefano Tamborrino. I percorsi dei tre si incrociano nel 2010, anno in cui esce il loro primo e ruspante lavoro, "Trevi". Nel corso dei dischi successivi, la formula si sgrossa e dall'iniziale avant/jazzcore si sposta su coordinate sempre più elettroniche, giungendo con "Helm" a una sintesi ottimale. Gli ingredienti sono pochi — le ritmiche frastagliate di Tamborrino, spesso intrise di schemi drum'n'bass; le sinuose linee fiatistiche di Kinzelman; i bassi di Rehmer, ora morbidi e acustici ora ruvidamente elettronici — ma il risultato è variopinto ed efficace. (M. Sgrignoli)
Slowly Rolling Camera - Juniper (Edition Records, 2018)
Un gruppo che perde la sua cantante ha tre scelte: trovarsene un'altra, sciogliersi, o fare come gli Slowly Rolling Camera e proseguire senza. Il problema però è come ribilanciare la propria formula musicale in assenza della principale linea melodica. I jazzer di Cardiff hanno risolto il quesito ampliando il proprio spettro sonoro reclutando nuovi membri — tra i quali l’ex-chitarrista dei Cinematic Orchestra Stuart McCallum, il bassista Aidan Thorne e il sassofonista Nicolas Kummert - e virando verso territori decisamente nu jazz. Il risultato è "Juniper", un album appassionante e vivace, capace di unire melodie irresistibili al soundscape ieratico della Cinematic Orchestra, senza perdere di vista la predilezione per il caro vecchio groove. Se non è abbastanza per convincervi, vi basti l’ascolto di "Hyperloop", dove il virtuosismo di McCallum trova finalmente sfogo sui breakbeat folli di Elliot Bennett alla batteria. (F. Del Prete)
Tweeedo - We All Think We’re Good People (Callista Records, 2018)
Prendi due impallinati di loop e audio editing (incidentalmente, entrambi chitarristi nella band post-hardcore Fuh), aggiungici un batterista jazz, scuoti forte: ecco serviti i Tweeedo, torinesi, la cui unica uscita si qualifica al top del settore in Italia. La concorrenza, si è capito, non abbonda — ma il disco è notevole per davvero: una tech-house glitcheggiante dall'andamento in crescendo, caratterizzata dall'originale costruzione "a gambe in su" rispetto al canone elettronico. Al posto di ritmi sintetici su cui innestare evoluzioni melodiche, qua a farsi carico del grosso del calore e della vitalità dei pezzi è la batteria di Nicholas Remondino, terreno sempre mutevole per l'avvolgente foresta elettronica eretta da Edoardo Vogrig e Andrea Pisano. Fan dei Port-Royal fatevi avanti. (M. Sgrignoli)
Moses Boyd - Black Matter (Exodus, 2020)
Udite udite, nel 2020 anche il nu jazz è hype. L'inedito interesse per il genere si concentra soprattutto su due nomi: Jeff Parker, chitarrista dei Tortoise da qualche anno in combutta con Makaya McCraven, e Moses Boyd, già da un po' sotto i riflettori della critica come batterista del duo Binker&Moses. Mentre l'improvviso entusiasmo per il — noiosissimo — disco di Parker si giustifica solo con la decennale disattenzione per il settore, l'album di Boyd ha caratteristiche più rimarchevoli. Affiancato da solidi esponenti del giro londinese (ad esempio, Theon Cross alla tuba), Boyd combina in "Dark Matter" le inflessioni soul/afrobeat del precedente "Displaced Diaspora" con sonorità più urbane e notturne, dai chiari echi dubstep. Il risultato è dinamico, originale e assai promettente. (M. Sgrignoli)
Glass Museum - Reykjavik [Sdban, 2020]
"If it exists, there's prog of it": ogni genere sufficientemente duraturo svilupperà in qualche sua frangia tendenze onnivore e barocche. Il maggiore potenziale per le derive enfatiche stava chiaramente sul versante GoGo Penguin dello spettro stilistico: è dunque sul gusto "Ludovico Einaudi on steroids" che questo duo belga costruisce la sua versatile sintesi jazz/electro/modern classical. Ampollosa quanto basta per un fan dei Muse, easy listening il giusto per puntare a una playlist Spotify relax, la musica del primo Lp è il perfetto contraltare all'ortodossia black/radical-chic che spopolerà negli anni a venire. Al lettore la scelta se prendere o lasciare. Se la pacchianeria è eccessiva, provare gli assai più sobri e tortoisiani John Ghost, usciti lo scorso anno sulla stessa etichetta. (M. Sgrignoli)