Il giorno in cui Andrew Weatherall è morto è stato automatico per me - come per buona parte di noi millennial appassionati - rimettere sul piatto "Screamadelica", il disco grazie al quale ho incontrato per la prima volta il suo nome quando avevo diciott'anni. Non è questo il luogo giusto per parlare della fitta al petto che una perdita simile ha generato in tantissimi: limitiamoci a dire che ognuno ha avuto un Weatherall preferito e non si è perso tempo a farne materiale da social; e che è stato bello, per una volta, registrare un cordoglio così unanime e diffuso per una figura tanto limpida. È invece l'occasione perfetta per ricordare perché l'ascolto di quel particolare album dei Primal Scream sia tuttora un'esperienza esaltante.
Nessuno direbbe oggi che quel lavoro suoni ancora davvero contemporaneo: nonostante sia uno dei migliori incontri di sempre tra musica suonata-con-le-mani e dancefloor, è un'opera chiaramente figlia di un frammento di Novecento precisissimo e irripetibile; ma quella pietra miliare è tale anche perché porta ancora con sé l'elettricità di una scoperta in corso che non si vede l'ora di far conoscere al mondo, di una visione che sta prendendo forma. L'idea di un "adesso" che sta accadendo al momento della registrazione. È alla ricerca di quell'emozione, credo, che oggi pare un obbligo morale buttarsi a capofitto nel songwriting di visionari freaks and geeks come Archy Marshall, Camae Ayewa, Black Midi o Adrianne Lenker; è per la capacità d'indurre quella stessa sensazione che "Dark Matter" di Moses Boyd si presenta come uscita cardinale di questo primo scorcio di 2020.
Metà ritmica del duo strumentale Binker & Moses - tre release fra il 2015 e il 2018, con menzione d'onore per il notevole doppio "Journey To The Mountain Of Forever" - Boyd si è qualificato sin da giovanissimo come gran batterista, producer e figura centrale della vulcanica scena jazz londinese, fotografata alla perfezione dalla compilation "We Out Here" di un paio d'anni fa che, oltre al Nostro, poteva sfoggiare altre contributi di spessore da Shabaka Hutchings, Theon Cross (la tuba dei Sons Of Kemet), Maisha e Jon Armon-Jones. Il suo regalo a quella selezione, "The Balance", e, in particolare, la sua prima produzione solista, il 12" "Rye Lane Shuffle" (ripresa poi per il progetto collettivo "Displaced Diaspora"), rappresentano senza dubbio il modo migliore per avvicinare "Dark Matter": un saltellare pazzescamente divertente, puntellato su una batteria di favolosa agilità e sottigliezza e capace da sola di portare il jazz direttamente su una pista da ballo afrobeat.
Ad aggiungere altra benzina al fuoco di Boyd contribuisce poi una voracità d'ascoltatore compulsivo tipica di un venti-e-qualcosa che cresce nell'era di Spotify - l'accesso a tutto, tutto insieme. Intervistato qualche giorno fa da The Quietus, il nostro ha sfoderato una sarabanda d'influenze diverse: N*E*R*D, Miles Davis e Bjork; Sly & The Family Stone e Buju Banton; Jeff Buckley e Dizzee Rascal. Districarsi in quella selva e venirne fuori con un lavoro solido, eclettico ed eccitante è poi questione di puro talento.
Che avremmo avuto a che fare con un solo debut di grande forza comunicativa, l'aveva anticipato a inizio gennaio il singolo "Shades Of You": la delicata, aerea vocalità soul di Poppy Ajudha - pure lei londinese, pure lei poco più che ventenne - è la rampa di lancio ideale per far decollare i quasi cinque minuti di un'ipnotica base broken beat. Piazzato a metà scaletta, il feat. precede quello con Obongjayar, per converso timbro rauco saldamente ancorato al suolo. Sorprendentemente, materiali tanto distanti fluiscono l'uno nell’altro senza mostrare strappi o cuciture di sorta, ma anzi con impressionante naturalezza e palese coinvolgimento emotivo - altra qualità non scontata per una proposta tanto cool.
Ci si arriva in scioltezza giusto dopo i due numeri più strettamente afrobeat di "Dark Matter", "BTB" e "Y.O.Y.O.", dieci minuti di solarità sovraeccitata con i musicisti preda di una bella trance impro; al capo opposto dello spettro sonico si collocano invece "Only You" e "2 Far Gone", le tracce più massicce e club-oriented in programma - grime e dubstep, se proprio volessi circoscriverne il raggio d'azione; ma non è facile dire dove finisca un genere e inizi l'altro se poi, nel mezzo del Burial umanizzato della seconda, si va a inserire un'improvvisazione al pianoforte.
Come a voler offrire riposo dopo tanto scuotersi, gli otto minuti di "What Now?" forniscono un quieto commiato al disco; nel cammino, però, ne consolidano pure un substrato filosofico che prende vita nella voce di Gary Crosby, contrabbassista e mentore di Boyd: "Puoi sentirlo in due tracce, intento a parlare di quegli aspetti della vita che ci uniscono. Il suo mantra each one, teach one mi ha sempre incoraggiato a condividere le mie capacità: ora mi porto in tour diciottenni appena usciti da scuola. Puoi cambiare la loro vita, ed è una posizione davvero privilegiata in cui trovarsi". Parole che dicono di una filosofia condivisiva e partecipativa che si percepisce distintamente nel dipanarsi della scaletta e nella gestione degli ospiti, ed è qui che si nota la mano di un ottimo produttore oltre che di un eccellente strumentista.
In una recensione a quattro stelle di "Dark Matter", il Guardian ha parlato del disco come di un riuscito primo tentativo di incanalare in studio la furia dell'improvvisazione live. Ascoltatelo, mentre il quotidiano britannico aspetta l'ipotetico capolavoro futuro: Moses Boyd è già grande. Moses Boyd sta succedendo adesso.
25/02/2020