Emancipazione sessuale e musica rock: un legame che ha contrassegnato momenti salienti della cultura giovanile. Era dunque prevedibile che anche l’attitudine
gender producesse i suoi effetti, modificando gli approcci creativi e progettuali della moderna produzione musicale. I Black Midi (Midi è un protocollo d’interazione tra strumenti elettronici, a volte effettuato tramite computer) sono i paladini della musica “senza genere”, musicisti attenti più a catturare sfumature e dettagli di una massa sonora in continuo movimento piuttosto che a definire lo stile portante della loro proposta.
Nasce così un album destinato a sconvolgere prima l’
underground musicale, per poi passare alla conquista delle scene future, grazie a un potente mix di tradizione (
progressive, hard-rock, jazz) e modernariato (post-industrial, math-rock, minimal, post-punk). “Schlagenheim” è un disco assassino che ritorna sul luogo del delitto:
Pere Ubu,
This Heat,
Talking Heads,
Jesus Lizard sono solo alcuni dei probabili punti di riferimento di questa eccitante, e non del tutto convenzionale, esternazione di perizia tecnica ed estemporaneità.
Catturare l’energia delle esibizioni live, in un contesto che sia comunque quello di una sala d’incisione, è il punto fermo di questo esordio. Geordie Greep, come moderno
Robert Fripp, detta le coordinate di un album che qualcuno forse giudicherà come stritolato da involontari manierismi creativi.
In verità i Black Midi non si curano di apparire impeccabili né disarmonici. Anche il cantato scivola dal virtuoso all’asettico (
Robert Plant vs
David Thomas) e a scandire i tempi è l'energia catalizzante dell'immaginazione. La band londinese riesce nel difficile compito di calibrare una marea di suggestioni (ascoltando l’album si scorgono decine e decine di riferimenti plausibili) senza mai smarrire personalità e coerenza.
Il pop alla
Sonic Youth/
Talking Heads di “Speedway” e il pulsante brio ritmico stile
Gang Of Four di “Reggae” soddisfano l’esigenza dell’ascoltatore di avere un appiglio sicuro e “pop”, per poi addentrarsi nelle sonorità industrial/avant-rock di ”bmbmbm”, o nella visionaria rilettura post-rock dell’articolato avvicendamento di calma e caos di “Western”: un brano che sembra uscire dalle pagine di “Fear Of Music” (la band è talmente consapevole dei rimandi a Byrne e soci da aver intitolato un singolo “Talking Heads”).
Esordio è spesso sinonimo di spontaneità e di concentrato di idee, ma anche di ingenuità, queste ultime stranamente collocate in punti focali come la festa di
riff e aborti armonici che aprono l’album, “953”, o nel turbinio alla
King Crimson era “Discipline”, “Years Ago”: due brani che non riescono a concretizzare del tutto le pur buone intuizioni. Sono piccoli nei di un disco destinato a essere amato nella sua complessità, più che nei vari episodi, anche se l’art-funk-noir di “Of Schlagenheim” e l’orgiastico punk-pop di “Near DT,MI” scavano sotto pelle, lasciando un segno indelebile nel canzoniere dell’anno in corso.
L’instabilità che turba le nove canzoni di “Schlagenheim” non è un vezzo ma una necessità per i Black Midi, una metodologia che oltretutto mette a dura prova la notevole preparazione tecnica dei musicisti, evitando quell’autocompiacimento che a volte filtra nelle reminescenze
kraut e
prog che fanno capolino in alcuni episodi dell’album. Ed è questa la chiave che apre le porte alle digressioni liriche e armoniche della conclusiva “Ducter”, una canzone per molti versi affabile, orecchiabile, eppure lunatica e irriverente ("faccia la sua diagnosi ma tolga prima la mano dal cazzo": canta Greep rivolto a un impaziente terapeuta), un brano che racchiude tutte le probabili dicotomie di questo stimolante esordio, lasciandole piacevolmente irrisolte e alimentando l’amletico dubbio: genio o mistificazione?
Propendo per la prima opzione, ma nel caso in cui la verità risieda nella seconda ipotesi, sarei comunque felice di essere stato buggerato con tale maestria.