C'era una rivolta in corso in America nel 1971, una rivolta musicale e sociale, una rivolta che lasciava i segni della lotta (un'evidente bruciatura) e i semi della speranza (le stelle tramutate in fiori) sulla bandiera americana raffigurata sulla copertina di "There's A Riot Goin' On". No, non era il feroce attacco politico delle Black Panthers, non era il canto di guerra dei sassofonisti free jazz, né tantomeno il pugno nero alzato in cielo, nel 1968, dal podio olimpico di Città del Messico, da Tommie Smith e John Carlos. No, la rivolta di Sly & The Family Stone non era la stessa, poetica e leggendaria, di Muhammad Alì. Era qualcosa, però, ugualmente importante, anche se meno eclatante.
Nel 1971, in un'America ancora scossa dalle tensioni razziali e sociali, conquistare le vette delle classifiche musicali con una band formata da bianchi e neri, da uomini e donne, che invece di dividersi sulle proprie differenze si univano nelle loro passioni, sembrava una cosa impossibile. Era questa la rivolta di Sly & The Family Stone: la dimostrazione che persone di estrazione etnica e sociale diverse potessero cooperare e ottenere grandi risultati, come il successo raggiunto con l'album "Stand!" del 1969. Sembra una cosa da poco, oggi, ma all'epoca non era affatto un'inezia far capire ai bianchi che i neri non erano degli animali e, nel contempo, ai neri che i bianchi non erano tutti dei razzisti. Non c'era bisogno di una rivolta sanguinosa, ma di un atto di vero coraggio: il coraggio di porsi individuo a individuo in modo ecumenico. Sly Stone con la sua stramba famiglia riuscì a fare tutto questo.
Poi c'era la rivolta squisitamente musicale: Ray Charles, Otis Redding e Aretha Franklin avevano portato il soul oltre i banchi delle chiese; James Brown, Marvin Gaye e Stevie Wonder gli avevano donato il groove; Sly Stone lo fece diventare psichedelico. La band di Sylvester Stewart, vero nome di Sly, infatti, partì dal soul-funk e ne inacidì le chitarre, rendendone, inoltre, il ritmo più ebbro e ipnotico, secondo una tendenza stilistica che, all'inizio degli anni Settanta, vedeva impegnati nella stessa direzione, con esiti più o meno diversi, anche gruppi come Last Poets e Funkadelic.
In realtà "There's A Riot Goin' On" ha un sound abbastanza diverso da quello proposto dai due gruppi sopra citati: ne condivide certamente la congerie di musiche e stili, ma gli irresistibili ammiccamenti al pop di brani come "Family Affair" e "Runnin' Away" erano anni luce distanti dal rap d'assalto ante litteram dei Last Poets e dalle orge funk-psichedeliche della band di George Clinton.
La musica di Sly And The Family Stone flirtava pericolosamente con il rock psichedelico di Hendrix, con il country (la musica degli americani bianchi), e ovviamente con iljazz e la musica caraibica. Un caleidoscopio stilistico immane che, oltre a essere il manifesto musicale di un'epoca, resta un disco la cui influenza sulla musica ventura sarà enorme, e si farà sentire indiscriminatamente sia sui musicisti neri che sui bianchi (lo celebreranno in molti, da Miles Davis ai Red Hot Chili Peppers passando per Prince, Talking Heads, Gang Of Four). E dire che un capolavoro del genere nacque in un periodo non certo semplice per Sly: il vizietto delle droghe e il suo carattere mitomane fecero incrinare i suoi rapporti con il resto della band, che lo lasciò solo in studio per gran parte della realizzazione del disco: i brani furono scritti e arrangiati intermente da Stewart, ma l'apporto strumentale del resto della Family risultò comunque fondamentale.
Il singolo "spaccaclassifiche" "Family Affair" è il fiore all'occhiello di "There's A Riot Goin' On": si tratta di uno dei primi brani nella storia della popular music a fare uso di una drum machine, ma al di là di queste questioni storiche, furono il contrappunto lascivo delle voci e gli orgasmi pianistici a conquistare il cuore di tantissimi americani.
La vocalità di Sly allora aveva un doppia anima: una dal timbro caldo e conturbante, l'altra dal timbro istrionico e malato; ciò faceva di lui un cantante molto duttile. Sly Stone sapeva essere senz'altro sensuale nel suo modo di cantare, e la sua band lo accompagnava con un tocco di dissolutezza patinata che rappresenta una delle peculiarità stilistiche del loro sound.
Nell’iniziale "Luv N' Haight" un soul erotico e vibrante si lascia cospargere il capo di fiotti di funky lussurioso; "Poet" rincara la dose con groove incandescenti bagnati da cristallini fremiti d'organo.
I capolavori del disco sono le due jam soul-funk "Africa Talk To You (The Asphalt Jungle)" e "Thank You For Talkin' To Me Africa": le chitarre invasate si inoltrano in foreste psichedeliche prima sconosciute, il basso eiacula groove pazzeschi e le tastiere in sottofondo godono dei loro accordi jazzati. È sesso in musica e bisogna abbandonare ogni pudica inibizione dell'ascolto per apprezzare al meglio questi due lunghi brani.
Sesso in musica si diceva, e i gemiti "fiatistici" di "Brave & Strong", così come le atmosfere scabrose e languide di "Just Like Baby" e "Time", lo ribadiscono. Tre canzoni ideali come colonna sonora di notti passate tra il fumo di localini osé e camere d'albergo occasionali.
Il colpo ad effetto si chiama "Spaced Cowboy", nella quale Sly si produce in una sorta di yodel clownesco, mentre il soul si lascia leccare le sue carnose gambe dalla lingua di un country per niente restio.
C'era una rivolta in corso in America nel 1971 una rivolta i cui postumi oggi riecheggiano tra i solchi di molti dischi attuali (Shape Of Broad Minds, Tv On The Radio, Dusk + Blackdown), assurti a simbolo della contaminazione musicale ed etnica degli anni Duemila: quella rivolta non è stata vana, quella rivolta è ancora in corso.
23/11/2008