Un'attesa lunga dodici anni, un intervallo di tempo che le grazie di “To Believe” ricompensano con una creatura sonora di estatica bellezza, a tratti imperscrutabile. Il nuovo album dei Cinematic Orchestra è una delle opere più enigmatiche di questo sonnacchioso 2019, ma è anche uno dei pochi dischi che ti induce a rimettere in discussione convinzioni e certezze.
Ai proclami ideologici e filo-sperimentali di progetti stilisticamente affini, la band di Jason Swinscoe e Dominic Smith contrappone un rigore e una cura del dettaglio più attinenti alla cinematografia che alla musica.
Dopo le glorie di “Ma Fleur”, la band inglese ha messo la propria arte al servizio di cinema e tv, prima con una colonna sonora di un documentario della Disney sui fenicotteri, poi con incursioni nel mondo dei serial tv, in quello dei videogiochi e della pubblicità: dodici anni che hanno permesso a Swinscoe e Smith di lavorare con calma al nuovo progetto dei Cinematic Orchestra.
Aver nobilitato la fusione tra jazz, elettronica e pop non aveva del tutto appagato le aspirazioni del gruppo; quello che mancava era un briciolo di imperfezione e malleabilità. Le architetture sontuose e accurate di “To Believe” sono infatti pronte a disfarsi al fine di accogliere un flusso di emozioni più dolorose e poco accomodanti. Ad innestarle sono le voci di Moses Sumney, Roots Manuva, Heidi Vogel, Grey Reverend e Tawiah, nonché gli archi di Miguel Atwood-Ferguson, o le tastiere di Dennis Hamm, quest’ultimi due musicisti già alla corte di Flying Lotus e Thundercat.
Anche se i Cinematic Orchestra restano dentro l'ambito jazz, ci sono elementi prevalenti, come gli archi e le performance vocali, che prendono il posto di sax, batteria, synth e contrabbasso nel corpo lirico delle canzoni, alterando non poco la rotta artistica. La musicalità è più contenuta e semplice, le canzoni hanno bisogno di tempo per essere sviscerate, l’energia scaturisce dalla riflessione più che da elementi ritmici. Spesso è la voce a condurre in porto la spiritualità dei testi, come nella title track, affidata alla voce di Moses Sumney, che accenna i temi portanti dell’album: fede, speranza e redenzione.
Meno incisivo, ma parimenti elegante, il matrimonio tra la voce di Grey Reverend e le tessiture alla Radiohead di “Zero One/This Fantasy”, anche se spetta a “The Workers Of Art” il titolo di brano più controverso e difficile da assimilare per i vecchi fan del gruppo: una digressione orchestral-cinematica che sembra uscire da una colonna sonora di Craig Armstrong.
Deluderà non poco le aspettative del pubblico l’aver sacrificato le istanze new-jazz, e certamente non basterà l’eccellente downbeat ricco di luci e ombre di “A Caged Bird/ Imitations Of Life” ad attenuare dubbi e perplessità.
Ad ogni modo è nella sobrietà che risiede il fascino di “To Believe”, e lo si scopre nelle pieghe del morbido uptempo di “Lessons” o nella raffinata performance vocale di Beverley Tawiah in “Wait For Now/ Leave The World”.
Dodici anni di assenza hanno reso tenue l’inquietudine oscura dei primi album. “To Believe” è come la calma dopo la tempesta, una sensazione che nella conclusiva “A Promise” i Cinematic Orchestra catturano in pieno con un dosaggio delle emozioni al limite dell’evanescenza, quell’evanescenza che è croce e delizia di un progetto che più che al corpo mira all’anima.
08/04/2019