Il bassista e cantante losangelino Stephen Bruner è in giro da un bel pezzo di tempo. Nel lontano 2002, a soli sedici anni, si unisce al fratello maggiore, il batterista Ronald Jr., ed entra a far parte dei Suicidal Tendencies, celebre band californiana di stampo punk metal attiva fin dai primi anni Ottanta. Del resto, in casa Bruner sono tutti musicisti: suo padre, Ronald Sr., ha suonato la batteria per Diana Ross, The Temptations, Randy Crawford e Gladys Knight; mentre suo fratello minore, Jameel, è tastierista della giovane formazione r'n'b The Internet. Tuttavia, è proprio Stephen, per tutti semplicemente Steve, il più dinamico ed estroverso membro della famiglia.
Bassista dal talento smisurato, questo simpatico trentaduenne ha sempre mostrato una versatilità sonora e una tecnica strumentale decisamente fuori dalla norma. E a dimostrarlo, non è soltanto la lunga permanenza in un gruppo come i Suicidal Tendencies, bensì la presenza in album di tanti nomi eccitanti del firmamento black e dintorni americano (ma non solo), per giunta tutti distanti diversi megaparsec dal metal e dal punk: i vari Sa-Ra, Mac Miller, Kirk Knight, Bilal, Taylor McFerrin, Kimbra, Vic Mensa, Childish Gambino, Terrace Martin; il tutto senza contare la preziosa partecipazione nelle due puntate del progetto New Amerykah della diva assoluta del neo soul a stelle e strisce Erykah Badu.
Ma è soprattutto con i più acclamati e fidati Flying Lotus, Kendrick Lamar e Kamasi Washington che Bruner trova fin dai primissimi istanti un'intensa sinergia artistica. Il suo basso lunare, conturbante, ora birichino e funky, ora inafferrabile nelle sue tante escursioni in modalità fusion, domina la scena in lavori acclamati come "Cosmogramma", "The Epic" e "To Pimp a Butterfly", mettendo in evidenza un carisma dai mille volti e uno stile assolutamente inimitabile.
Ciò che rende Stephen tra i musicisti più importanti per l'evoluzione sonora di un'etichetta come la Brainfeeder, e di tutto il nuovo firmamento black dal profondo piglio jazz, è un background smisurato accresciutosi quotidianamente negli ultimi dieci anni sessione dopo sessione, tournée dopo tournée. Dal 2007 ad oggi, Steve non si è fermato un attimo, nutrendo la propria sete di conoscenza sonora oltre ogni misura. Inoltre, il bassista è diventato gradualmente anche vocalist, spinto dai suggerimenti dell'amico di sempre Steve Ellison, a conti fatti la figura più importante per la sua futura maturazione artistica in veste solista.
Messe quindi da parte le tante escursioni per i vari studio musicali losangelini, dal 2011 Bruner non è più soltanto il formidabile turnista e producer da chiamare e richiamare per calibrare al meglio il proprio sound, ma è innanzitutto Thundercat: un compositore geniale che riesce a unire in un colpo solo Zappa e Madlib, Earth, Wind & Fire e Todd Rundgren, Stevie Wonder e J Rocc.
I suoi primi due album, "The Golden Age of Apocalypse" e "Apocalypse", pur essendo dei lavori ancora acerbi, mostrano già gli elementi cardine del suo stile. In essi c'è la fusione, in apparenza lunatica e incontrollata, di elementi variegati come il jazz e il funky, messi in riga da un approccio sostanzialmente fusion. È da questa singolare commistione di intenti, unita a un'inaspettata voglia di raccontarsi, che nasce "Drunk", terzo album in carriera, preceduto dall'eccellente Ep del 2015 "The Beyond/ Where The Giants Roam" lanciato dal meraviglioso singolo "Them Changes", un'irresistibile sinapsi ritmica di natura wonderiana da tramandare ai posteri.
A spiegare fin dalle prime battute il significato dell'irriverente titolo sono le parole dell'introduttiva "Rabbot Ho", con Bruner nelle vesti del Bill Withers più intimista, per intenderci quello di "+'Justments": "When it rains, it pours/ Open windows and close doors/ All the pretty light and sounds to open up the night/ Friends, they come and go/ That's okay, I'm kind of bored/ Let's go hard, get drunk, and travel down a rabbit hole". Lo stato di ebbrezza è visto dunque come una porta scorrevole tra un mondo e l'altro, tra una determinata percezione emotiva e l'altra. Ma è soltanto l'inizio. Il trittico successivo, composto dalla delicatissima e sarcastica "Captain Stupido", dalla digressione strumentale in piena scia fusion "Uh Uh" con il basso mandato a mille giri, e dalle luci a intermittenza in stile Motown feat. Brian Wilson di "Bus In These Streets", che affronta con il giusto disincanto il decadimento collettivo della società dinanzi al sopravanzare sempre più totalizzante delle nuove tecnologie, espone fin da subito quello che sarà l'andazzo pregnante dell'album: un insieme bizzarro, spericolato, per l'appunto ubriaco, ma al tempo stesso ipnotico e ammaliante, di soluzioni jazzy messe al servizio di un impianto profondamente soul.
Thundercat campiona inoltre di tutto, inserendo sample con la delicatezza di chi sa come apparecchiare al meglio la propria tavola. In "A Fan's Mail (Tron Song Suite II)", ad esempio, inserisce un micro estratto di "Long Red" dei Mountain, mentre nel sensazionale battito synth-funk di "A Friend Zone" prende un pezzo di "Bitch, Don't Kill My Vibe" dell'amico Kendrick Lamar - traccia contenuta nell'album più verace del rapper di Compton, "Good Kid, M.A.A.D City" - e lo inserisce chirurgicamente a metà strada, senza minimamente intaccarne l'essenza.
"Drunk" è oltretutto un album nel quale le collaborazioni eccellenti pesano, eccome. Tra le varie ospitate, spicca, spiazza ed esalta quella con due paladini del pop rock e del blue eyed soul dei bei tempi come Kenny Loggins e Michael McDonald nel brano "Show You The Way". Bruner spazia tra un umore più cupo e un altro più acceso a seconda dell'ospite. Con il buon Whiz Khalifa, prova a chiedersi fino a che punto possa spingersi una ragazza disposta a tutto durante un party oltremodo sfrenato, contrapponendo la banalità dell'estetica capitalistica alla semplicità della natura metaforizzata dall'accoglienza fornita dallo spazio esterno al locale. C'è poi anche l'amico ed estimatore Pharrell Williams nella straniante "The Turn Down", con i due che affrontano alla propria maniera temi come inquinamento, razzismo, lavaggio del cervello mediatico e Black Lives Matter, il movimento per i diritti degli afro-americani fondato da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi.
Con il sopracitato Lamar, invece, Thundercat mette in piedi una tenerissima e melanconica soul ballad, tra storie di tirannia politica sparsa da sempre in ogni angolo del pianeta, passando dal Sud America all'Africa, e un ritornello che ben lascia intendere il climax complessivo dell'album: "At the end of it all/ No one wants to drink alone/ Baby that's how it goes/ Don't walk away from me".
A rendere in definitiva singolare e ammiccante "Drunk", è la capacità di Steve Bruner di saper racchiudere nella stessa ampolla magica tutte le sue inebrianti partiture melodiche. Di certo, siamo dinanzi a un lavoro complesso e ricco di spunti, solo a un primo impatto eccessivamente denso di rimandi e soluzioni difficili da cogliere. Parimenti, "Drunk" è un lavoro che conferma a pieno titolo, e forse più di ogni altro, la completa fioritura di un'etichetta come la Brainfeeder e di tutta l'allegra ciurma di Ellison, nella quale Bruner gioca il ruolo sia del metronomo sia del fantasista. E così, la città degli angeli, dopo averci regalato avamposti di sperimentale candore come la Stones Throw di Peanut Butter Wolf, continua a essere il miglior centro di fusione, ricerca e sviluppo dell'universo black contemporaneo.
01/03/2017