Il quartier generale della Brainfeeder è da diversi anni uno dei migliori avamposti per produrre black music e dintorni di assoluta qualità. Un aggregatore unico nel suo genere di musicisti semplicemente enormi (Thundercat, Taylor McFerrin) e manipolatori con le palle la cui fantasia ai controlli non conosce limiti (Gaslamp Killer, Ras G, Martyn). Steven Ellison è riuscito a creare nel corso del tempo una piccola grande famiglia, non c'è che dire. Ma soprattutto, è riuscito nell'impresa di fiutare e accaparrarsi di volta in volta elementi dai tratti diversissimi, ciascuno legato alla propria maniera ai canoni della musica nera del passato. In questo cerchio magico, non poteva dunque mancare un gigante come Kamasi Washington: sassofonista altrettanto enorme e nel giro che conta da diverso tempo (Wayne Shorter, Stanley Clark, Herbie Hancock, Harvey Mason, Gerald Wilson), amico e collaboratore della graziosa e sempre amabile Lauryn Hill e chiamato a dar man forte nelle ultime produzioni dello stesso FlyLo, e dulcis in fundo di un certo Kendrick Lamar.
Insomma, Kamasi non poteva non essere il prescelto ideale per costituire la punta di peso che forse mancava a questa fitta schiera di talenti. Un acquisto (se così si può dire) di quelli grossi, da cui aspettarsi solo il meglio. Trentaquattrenne, losangelino (e non potrebbe essere altrimenti), Kamasi Washington ha studiato presso l'Accademia della Musica della Hamilton High School di Los Angeles, specializzandosi in etnomusicologia. Al suo attivo ha ben tre Lp, tutti autoprodotti con la forza di chi se va in giro ogni notte nel tentativo di (pro)seguire e difendere il verbo di quella cosa chiamata musica jazz. Kamasi è un talento puro, un visionario del proprio strumento. Leggende come Coltrane, Ayler e Coleman rappresentano per lui quella luce da cui inesorabilmente partire e ampliare il proprio spettro, magari attraverso un gioco di specchi che esuli da schemi precostituiti, e che punti dritto alle più bizzarre angolazioni musicali mediante un approccio di fondo tutt'altro che classicheggiante.
Washington ha deciso di superare le convenzioni dell'etichetta del buon Ellison, mettendo in piedi un'opera di oltre centosettanta minuti, contenuta in ben tre volumi, e intitolata per l'appunto "The Epic". Per farlo si è avvalso di una nutrita squadra a dir poco eccellente di fidati musicisti (Miles Mosley, Ronald Bruner Jr., Leon Mobley, Ryan Porter, la cantante Patrice Quinn), venti coristi e una fitta sezione d'archi. Dunque, "The Epic" si presenta come un vero e proprio kolossal musicale, ne possiede il physique du role. Un progetto ambiziosissimo le cui fondamenta poggiano sopra una base solida, e che vuole farsi carico di ingenti aspettative fin dall'impetuosa copertina. Nello sguardo forte e fiero di un Kamasi che sovrasta un improbabile e non identificato panorama stellare, traspare la manifesta volontà del musicista di sorvolare gli spazi abituali e di trasportare l'ascoltatore in una sorta di universo parallelo nel quale gettare le armi, sospinto da fiati, bassi, violini, tastiere e percussioni possibilmente terzomondiste. Un mondo da cui scorgere le accecanti figure di Jon Coltrane e Sun Ra da diversi profili.
Prendono forma lunghe suite strumentali che traggono linfa dal classico schema jazzy: tema d'apertura, libero sfogo dei singoli componenti nella fase centrale e tema di chiusura a riprendere la melodia iniziale sui cui ruota l'intero brano. Le lunghissime "Change Of The Guard", "Askim" e "Isabelle" aprono il disco susseguendosi in un groviglio di cori angelici, svolazzi pianistici, improvvise ripartenze al sax poste in un climax di assoluta e incantevole perdizione sensoriale. Ad ammorbidire il tutto è il basso supremo di Thundercat, dal tratto sempre più inconfondibile, capace di disorientare letteralmente l'ascoltatore con le sue scale impossibili e le sue micro-variazioni.
L'idea è di dar vita a un suono ultraterreno, jazz cosmico alla stregua del già citato musicista e filosofo Herman Poole Blount, in arte Sun Ra. Un modello a cui tendere, tuttavia, senza strafare o deviare più di tanto i propri costrutti strumentali. L'imperativo è lasciarsi andare ma con cognizione di causa, come accade nella turbolenta e ancor più estesa "The Next Step", con il sassofono di Kamasi a trainare la ciurma, ora struggente, ora epico e ascendente.
"The Epic" è innanzitutto un disco concepito per tutti, non solo per i particolari ambienti del Leimert Park Village. Lo dimostrano le suadenti "The Rhythm Changes" e "Henrietta Our Hero", con la vocalist Patrice Quinn nelle vesti di una Shirley Horn a tratti meno impegnata, e in altri terribilmente suggestiva, tesa in qualche maniera al raggiungimento di cime più elevate.
Ad aprire la seconda parte dell'opera, è la jazz-fusion alienata di "Miss Understanding", prima che la successiva "Leroy And Lanisha" non finisca per perdersi in un eccesso di stucchevoli giochini autoreferenziali, ponendo qualche primo lecito dubbio sulla necessità di doversi dilungare così tanto, e con la pretesa inconscia di non correre alcun rischio sulla lunga distanza. Al contrario, "Re Run" riaffronta il tema epico e corale delle prime tracce, adagiandosi su scale che puntano dritto al cielo stellato, in un continuo stop & go di mutamenti armonici atti a calibrare un sound tanto evocativo quanto evasivo.
I toni si affievoliscono nella disincantata "Seven Prayers", con l'intera strumentazione intenta ad allievare i sensi attraverso un morbidissimo intarsio sonoro. È pura estasi, con Kamasi nelle vesti del cerimoniere alato e dello sciamano di turno. In cotanta sinergia, non poteva mancare qualche elemento bossa e funky sparpagliato in tracce come "Re Run Home", finanche della gustosissima attitudine soulful in vaga scia Blue Note. Stesso dicasi nel rauco soul-jazz da club di "Malcom's Theme", a precedere l'inafferrabile "The Message", nella quale riprende vita l'evasione più completa, con l'intera strumentazione particolarmente indomita e il buon Kamasi a soffiare come un dannato, seguito da una ritmica mai così ossessiva.
"The Epic" è in definitiva un album di notevole spessore. Un progetto tanto temerario quanto esclusivo per i circoli a cui cerca di aprirsi. Allo stesso tempo, è anche un lavoro per certi versi eccessivo, talvolta dispersivo, e con il quale bisogna fare i conti azzerando qua e là le lancette dell'orologio. Ciononostante, Kamasi Washington è riuscito a spingersi oltre determinati parametri sia con la saggezza del musicista ormai navigato, sia con la sfrontatezza del giovane compositore in cerca di qualche nuovo mondo possibile da cui far partire le proprie note, la propria singolare magia.
09/11/2015