A partire dai primi anni della sua adolescenza, il californiano Harold Budd inizia a coltivare la passione per la musica come aspirante batterista, affascinato dal vigore della scena newyorkese, in cui cresce il fermento per il jazz rivoluzionario del suo idolo, John Coltrane.
All'età di ventuno anni, comincia a frequentare il Los Angeles Community College e per la prima volta viene proiettato nel mondo della composizione e dello studio teorico, a cui si appassiona profondamente.
Il compimento dei suoi studi, tuttavia, avviene solo nel 1966, anno in cui si laurea in composizione musicale alla University Of Southern California. Con l'approfondirsi delle sue conoscenze, Budd sviluppa la propensione alla decostruzione e al rimodellamento delle basi accademiche fino ad allora apprese, quasi in risposta agli impulsi visivi trasmessi dall'espressionismo "concreto" e modulare di artisti del dopo-guerra come Mark Rothko.
La frequentazione delle compagnie d'avanguardia e, in particolare, l'influenza di Feldman e Cage si palesa in una crescente rarefazione sonora: nel 1970 un nuovo punto d'incontro tra il sintetizzatore di Budd e le composizioni di Richard Maxfiled, The Oak Of The Golden Dreams/Coeur D'Orr, si pone come manifesto di questo percorso artistico all'insegna di un'essenzialità elettronica d'avanguardia, ma quasi arida, rappresentata anche dal lungo pezzo per gong "Lirio", oltre che dalla suite in re bemolle maggiore "Candy-Apple Revision".
Ma i canoni del minimalismo à-la La Monte Young sembrano non soddisfare il genio di Budd, che dopo due anni di gestazione artistica riesce a trovare una nuova vocazione, nella prospettiva in cui tutti i suoi ammiratori sono in grado di riconoscerne la presenza. Nel 1972, con "Madrigals Of The Rose Angels", si realizza l'intento, grazie a una rinnovata infatuazione per la dolcezza armonica prodotta dagli strumenti più amati: arpa, celesta, cori angelici e percussioni dal battito leggero.Così, bisognoso di dare corpo alla propria arte, Budd impara a suonare il piano con la tecnica che da allora lo contraddistinguerà sempre: uno stile unico, che concilia soffici toccate romantiche a uno spirito esecutivo proteso all'improvvisazione jazz. In questa veste, Budd attira subito l'attenzione del collega Brian Eno, che si offre di produrre l'opera prima di un compositore che sembra finalmente aver trovato la giusta formula espressiva.
Registrato tra il 1976 e il 1978, The Pavilion Of Dreams raccoglie il lavoro e la maturazione raggiunta alla fine di quel decennio in un monumento all'estasi contemplativa, in bilico tra il silenzioso abbandono e l'eternità di un appello spirituale. Recuperando e reinserendo "Madrigals Of The Rose Angels", Budd ha saputo forgiare una dimensione narcisistica e ideale, evocativa sin dal principio. Apre l'album la religiosa "Bismillahi 'Rrahmani 'Rrahimm", una lunga composizione in cui accenni di piano e di arpa riflettono limpidamente una flebile luce serotina in un seducente invito al sonno, interrotto solo dal sassofono di Marlon Brown, che irrompe nella scena idilliaca con un'enfasi sinuosa, che toglie il respiro.
Il sogno si consuma lentamente con "Two Songs: Let Us Go Into The House Of The Lord/Butterfly Sunday", in cui il soprano Lynda Richardson piange il suo lamento struggente, accompagnata dall'arpista Maggie Thomas, dalla fuga delicata, decadente e piacevolmente narrativa.
I tintinnii del pezzo d'apertura ritornano con "Juno", in un tripudio di sontuosità che meglio esprime la sintesi tematica di questa opera, dedita a confortare i sensi e la mente con quelle lunghe e avvolgenti sequenze che verranno riproposte (seppur variate) nel resto della sua discografia.
Dopo uno dei migliori episodi della sua carriera, Budd si avvale ancora di questa fruttuosa collaborazione per il secondo album dell'ambiziosa serie Ambient di Eno. The Plateaux Of Mirror, pubblicato sempre dalla Obscure nel 1980, ripropone le medesime atmosfere, rinunciando tuttavia agli elementi ritmici e preferendo una ciclica semplicità al lirismo ieratico che aveva caratterizzato il precedente lavoro. I due musicisti si trovano a dipingere frammenti sonori che levitano sopra la grazie di un pianoforte ripetitivo e ovattato ("First Light") che si concede a trattamenti elettronici a volte sommessamente subordinati alla melodia ("An Arc Of Doves"; "Among Fields Of Crystal"), altre volte corali ("Not Yet Remembered"), se non addirittura protagonisti ("Wind In Lonely Fences").
Il risultato è un album distinto per una delicata e ben studiata monotonia, sintomo di un dialogo crescente tra i due maestri, che imparano a conoscere le rispettive arti con il fine ultimo di creare una musica intimista, soffusa e confortante nelle sue espressioni semplici e lineari.
Temporaneamente senza Eno, Budd licenzia nel 1981 Serpent In Quicksilver, un Ep che in soli venti minuti ripercorre i sentieri tracciati dall'esordio in una struttura quantitativamente più discreta, ma che raggiunge comunque vette di inarrivabile bellezza. Ogni secondo è permeato da un profondo senso di malinconia e desolazione, che da un primo affettuoso abbraccio ("Afar") si svela gradualmente in un'intimità ferita, che impietosisce per la sua rassegnata docilità ("Children On The Hill"). Suoni caldi che vanno a tessere sofferenti melodie al piano, per poi riemergere alla luce del sole, ritrovando la serenità in un affabile ed encomiastico colloquio tra sintetizzatore e pianoforte ("Serpent In Quicksilver"), concludendo così un piccolo capolavoro che ha l'unico difetto di essere troppo breve.
Non aiutano nemmeno le ristampe successive, che lo includono in un unico album insieme alle due lunghe composizioni Abandoned Cities e Dark Star, composte nel 1984 per un'installazione da galleria; queste ultime si discostano dal registro dimesso e contenuto di "Serpent In Quicksilver", optando per un suono più drammatico e disteso, preludio delle atmosfere predominanti in "Lovely Thunder". Se nella prima prevalgono infinite tonalità oscure e angoscianti, nell'altra risaltano freddi sprazzi futuristici, accordati alla precedente traccia per mezzo di un comune e prepotente concetto di minacciosa sacralità, quasi a voler infondere in chi ascolta un qualche sentimento di riverenza.
Nello stesso anno, Budd rinnova la liason con Eno e pubblica The Pearl, prodotto dallo stesso Eno e da Daniel Lanois. Riprendendo parzialmente gli schemi tracciati nella precedente collaborazione, l'album avanza in una ricerca più approfondita nel proponimento di suoni naturali. Il piano di Budd, non più in primo piano, si associa a un'elettronica morbida, propensa alla new age ("Late October") e che ama perdersi in languide digressioni sintetiche ("Lost In The Humming Air"). Se prima le atmosfere rimembrate si contraddistinguevano per caratteri eterei e cristallini, ora acquisiscono una componente fortemente sensuale, oscura ("Against The Sky"; "Dark-Eyed Sister"), inquietante ("An Echo Of The Night"; "Their Memories", rifacimento di "The Chill Air").
Dal minimalismo, Harold Budd e Brian Enohanno animato una nuova energia, maturata rispetto al passato, misteriosa nella sua complessità, asfissiante nell'abbondanza, ostile al torpore finora suscitato.
Il 1986 vede Budd impegnato su due fronti: una collaborazione con i Cocteau Twins e un nuovo progetto solista.
The Moon And The Melodies, firmato Budd/Raymonde/Guthrie/Fraser, raccorda i classici fraseggi di Budd alle melodie euforiche e sognanti della band scozzese. L'album, fortemente elettronico, alterna momenti convincenti ("Sea, Swallow Me"; "The Ghost Has No Home") a esperimenti non del tutto riusciti ("Eyes Are Mosaics"), anche se il vincente connubio tra la chitarra di Guthrie e le tastiere di Budd mantiene l'ascolto costante in un mood piacevole e romantico.
Parallelamente, Lovely Thunder prende vita in una solenne penombra, sagomata da suoni sintetici corposi e drammatici. Dalla copertina disegnata da Russell Mills, in cui un fondale blu celestiale fa da cornice a un quadretto apocalittico, è possibile intuire quali sarà il leit-motiv dell'album. Aprendosi sin dal principio in una tenebrosa tragicità ("The Gunfighter") e raramente concedendo distrazioni melodiche ("Sandtreader"; "Olancha Farewell"), Lovely Thunder risulta pomposo ed epico, vacillando tra confini di ammaliante flessuosità ("Ice Floes In Eden") e lirismo crepuscolare (la bellissima "Gypsy Violin"). La baroccheggiante "Valse Pur Le Fin Du Temp" è forse l'unico vero punto morto di un album che si distingue nella discografia per un'impressionante ricchezza musicale.
Dopo l'interessante esperimento world music con Jon Hassell e Gavin Bryars in Myths 3: La Nouvelle Serenite, Budd presenta The White Arcades, registrato nel 1987 e pubblicato l'anno seguente. Sostanzialmente si assiste a un ripristino della forma già sfruttata nel precedente disco solista, nonostante siano notevolmente diverse le emozioni che l'album intende suscitare. I trattamenti e le coloriture di Eno gravano pesantemente sulla solita strumentazione (piano e sintetizzatore) ed enfatizzano una maestosità che procede più lenta e riflessiva. L'album si divincola parzialmente dalle tenebre ("The White Arcades"; "Algebra Of Darkness") e si espone ad atmosfere astrali e pacate ("Balthus Bemused By Color"; "The Kiss"), riuscendo quasi sempre a raggiungere risultati meravigliosamente sorprendenti, come in "The Real Dream Of Sails", un pezzo che da sé vale l'intero lavoro.
Con By The Dawn's Early Light (1991), Budd decide di accompagnare alla musica la lettura di poesie, che purtroppo non fanno altro che infastidire e distrarre dall'organicità dell'opera.Abbandonate le aspirazioni cosmiche, si osserva un ritorno alle origini con sonorità più scarne e acustiche che, se paragonate al passato, sembrano voler suggerire un distacco emotivo. In realtà rimangono comunque salde l'ambiguità e la seduzione, trionfanti in brani come "Boy About Ten" e "The Photo Of Santiago McKinn", in cui la chitarra latineggiante di Bill Nelson si sposa perfettamente alla viola romantica ed eterea di Mabel Wong. Talvolta si respira l'aria dell'esordio ("Albion Farwell"), altre volte si rimane un po' perplessi per una mancata coesione degli elementi ("The Place Of Dead Roads"), soprattutto nei pezzi che tendono alla struttura di una ballad sofisticata.
Tuttavia il lieve declino è brillantemente recuperato dal seguente Music For Three Pianos (1992), accreditato a Budd, Ruben Garcia e Daniel Lentz. Un breve album di ambient colto, in cui pare più che remota la mancanza dell'elettronica, accantonata in favore di un suono interamente acustico e tradizionale. Tre pianoforti in perfetta sintonia si scambiano note commoventi ed eleganti che, pur nella loro semplicità, riflettono un fondamento di horror vacui, espresso dall'avviluppamento continuo delle melodie in un intreccio meravigliosamente composto.
Budd continua a recitare poesie (purtroppo) e a comporre musica per ensemble, anche se questa volta l'esito non è dei migliori.
She Is A Phanton (1993) aggiunge fiati e percussioni al classico sound, riuscendo a convincere solo in brevi ma stucchevoli momenti ("Breathless..."; "Nearly Awakened"; "Handsome. The Spineless...") e annoiando quasi sempre con melodie deprimenti ("Tiny Heads, Big Ideas"), o del tutto inconcludenti e dallo stile orribilmente marziale ("Like A Perfume..."; "And Then I Alone Am Alone"). E con i successivi Through The Hill (1994) e Glyph del (1995) va ancora peggio. La collaborazione con Andy Partridge è descritta come l'incontro tra due sconosciuti. E tale è, se non fosse che Budd ha palesemente contenuto il suo apporto, forse intenzionato a dare spazio a novità che si rivelano purtroppo tutt'altro che positive. Il contributo del leader degli Xtc è più kitsch che stravagante, noioso quando lo si tollera ("Tenochtitlan's Numberless Bridges"), a dir poco imbarazzante in pezzi come "Hand 20" e "Anima Mundi". Hector Zazou si dimostra meno deludente, pur in una sostanziale impersonalità della musica.
Escludendo la sempre più irritante voce di Budd, rimane una sezione pianistica accattivante, simpatici battiti techno-dub ("Pandas In Tandem") e l'apporto interessante di jazz ed esotico ("Gorgon's Anxious Pansy", "Autre Django"). Nonostante ciò, a lungo andare la mano dei due preme eccessivamente su atmosfere fumose, tra un funky datato e una world music leziosa.
Un album che punta presuntuosamente a una dimensione surreal-chic, ma che si ritrova in un più plausibile contesto da cocktail bar.
Dei Glyph Remixes (1996) è meglio non parlare.
Il terribile vezzo per la poesia raggiunge il suo apice con Walk Into My Voice (American Beat Poetry) del 1996, collaborazione tra Budd, Daniel Lentz e Jessica Karraker. Una musica quasi sempre affascinante, che viene però soffocata da recitati insopportabili per chi non è minimamente interessato al contenuto dei versi.
Merita più attenzione Luxa (1996), un omaggio agli artisti più influenti del ventesimo secolo secondo Budd, con contributi di Marion Brown (buono) e Steven Brown (deprecabile). Senza stupire, l'album comincia con pezzi "classici", che ricordano al meglio la teatralità delle opere passate, per poi procedere barcollando in composizioni ambient insipide e già sentite.Se si esclude una piccola verve ("Niki D."), tutto il resto è ridondanza buddiana: piacevole, ma nulla di più. Gli anni Novanta giungono finalmente al termine, dopo aver messo a dura prova la creatività di Budd. che sembrava aver inesorabilmente imboccato la via del declino.
Per fortuna, The Room (2000) rievoca al meglio il passato, pur non riuscendo a spiccare per particolari spunti di innovazione alcuna. Lustrate le vecchie armi, Budd compone bellissime perle ambientali, meditative e misteriose, nuovamente efficaci nell'evocare le calme distese dell'inconscio, con tastiere vintage e campanellini celestiali. Davvero poche le note fuori posto per un lavoro che senz'altro riscatta dagli episodi peggiori.
Dopo la pubblicazione della modesta raccolta Agua (2002), Budd riesce a mantenere la giusta rotta con La Bella Vista (2003), una raccolta di pièce per solo piano che uniscono amabilmente lo stile del compositore con influenze che rimandano a Satie e Debussy.
Nel doppio Translucence/Drift Music (2003), Harold Budd e John Foxx sorprendono in un album incantevole, delicato, forse addirittura superiore agli esperimenti con Eno. L'elettronica e le tastiere si fondono in una lineare progressione di soundscape, sonorità liquide sostanzialmente prive di una struttura melodica portante, ma che costituiscono frammenti colmi di sublimi sfumature. Una musica che si pone all'ascolto come un flusso continuo di echi e riverberi, che si discosta finalmente dall'opprimente etichetta new age e si fa apprezzare per una bellezza non particolarmente originale, ma sicuramente pregiata e sincera.
Pubblicato dalla Samadhisound di David Sylvian, Avalon Sutra (2004) viene presentato come il parto di una vivacissima carriera trentennale, che non avrebbe visto alcun seguito. Nonostante Budd avesse innocentemente mentito sulle sue reali intenzioni, l'umiltà che traspare dalle sue parole è autentica ed è evidente anche nella sua musica. L'album, infatti, è la sinossi perfetta di tutto ciò che Budd ha rappresentato per la formazione della musica ambient.
Distinguendosi per un forte e peculiare carattere tematico, Avalon Sutra si apre con "Arabesque 3", il primo pezzo che svela l'anima impressionista dell'opera: alla classica base sintetica si sovrappone il sassofono di Jon Gibson, il cui suono basso e contenuto difficilmente si sarebbe potuto sentire in un disco di Budd prima di allora. Seguono sfumate orchestrazioni, che con "It's Steeper Near The Roses" preludono alla disarmante "L'enfant Perdu", in cui archi malinconici svettano su una vaporosa eco pianistica. "Chrysalis Nu", ancora più sublime e folgorante nei suoi acuti, è seguita dalla dolceamara "Three Faces West" e da "Arabesque 2", in cui Budd e Gibson ristabiliscono il principio dell'album in una struggente seconda ouverture.
"Little Heart" riesce incredibilmente a suonare freschissima nonostante la solita strumentazione: campanellini come gocce di rugiada, distillati dai tenui contorni di un acquerello dipinto dal sintetizzatore e dalle timide note del pianoforte. Segue una vetta di impalpabile dolcezza con "How Vacantly You Stare At Me", mentre "Walk In The Park With Nancy" rapisce per la sua intensa malinconia. "Rue Casmir Delavigne" costruisce invece un'inedita dimensione di pace, in un climax di suoni ripetitivi e combinati dalle risonanze del piano elettrico. "Arabesque 1", "Porcelain Ginger" e "Faraon" coinvolgono in una crescente astrazione, tra suoni e silenzi magistralmente disposti, fino al raggiungimento di un sogno supremo. "As Long As I Can Hold My Breath" è un tripudio di toni estatici, ornati da leggere toccate di piano e spirali di accordature ambientali.
L'opera è chiusa da un remix (settanta minuti) di "Akira Rebelais", in cui drone e archi si susseguono in un loop ipnotico, costellato da sporadici accenni di piano e da improvvisi rilievi violinistici.Nonostante la breve durata dei brani, queste splendide miniature racchiudono l'essenza di una spontaneità matura e consapevole, propria solo di un'artista che non ha più nulla da dimostrare o da ostentare.
Il risultato è (forse) l'album migliore di tutta la sua carriera.
A questo capolavoro, segue la vicinissima pubblicazione di Music For "Fragments From Inside", collaborazione tra Budd e il musicista italiano Eraldo Bernocchi. L'album, che racchiude i pezzi composti per un'installazione audio-visiva senese, raramente raggiunge stadi di decenza. La colpa non è di Budd, ma di Bernocchi e dei suoi orribili pattern elettronici, così insulsi e banali da sembrare i sample predefiniti di "Fruit-loops"! La grazia è concessa in "Fragment One", l'unico brano in cui Bernocchi ha avuto il pudore di limitare il suo contributo al massimo sopportabile. Altrettanto vicina cronologicamente è la più felice collaborazione di Budd con il vecchio compagno Robin Guthrie per la colonna sonora del film Mysterious Skin. In un apparente contrasto con la gravità dei temi trattati nel film, il sodalizio tra i due porta alla composizione di un album altamente evocativo, dalle atmosfere infantili, fantastiche, impregnate da un velo di quella costante inquietudine che suggella una perfetta sintonia con l'opera cinematografica di Gregg Araki.
Lo stesso effetto viene riproposto nei due gemelli After The Night Falls/Before The Day Breakes (2007) e nel più recente Bordeaux (2011), in cui si accentuano le manipolazioni elettroniche di Guthrie e la sezione ritmica, prevalentemente ottenuta dall'utilizzo di drum machine. Registrati insieme a Clive Wright, A Song For Lost Blossoms (2008) e Candylion (2009) sono due esperimenti dall'esito piuttosto incerto. Nel primo, quando non prevale la noia, la chitarra anonima di Wright, spoken words ed effetti fastidiosamente metallici riescono solo a rovinare le poche idee appena abbozzate. Con il secondo va meglio: migliorano melodie ed elettronica, ma a tradire è sempre la chitarra.
Purtroppo nessun progresso anche nel successivo Little Windows (2010).
Tra alti e bassi, Budd continua brillantemente ad accrescere la sua arte e a compiacere un pubblico attempato, ormai fedele e felicemente abituato al suo stile unico e versatile.
Un artista anomalo e solitario, che guarda al pubblico con il distacco di chi vive la musica come un prolungamento del proprio essere e non come una corsa al successo commerciale; per questo motivo non ci si stupisce che Budd abbia sempre operato in sordina, lontano dai clamori e dai riconoscimenti che gli sarebbero spettati.
Che la si ami o la si disprezzi, non si può non riconoscere il pregio di una musica consueta, che libera dalle pressioni di una rabbiosa e sterile ambizione e che, nell'isterica frenesia collettiva, rimane una solida e consolante certezza.
Nel 2011 esce invece In The Mist, nel quale risulta palese un ritorno a quel minimalismo che stava alla base della formazione dell'artista in questione, ma tale aspetto, tanto lampante quanto trascurabile, può tuttavia costituire l'irreparabile anomalia del disco, che effettivamente manca di quegli splendidi ghirigori che avevano reso memorabile il suo ultimo lavoro solista, Avalon Sutra. Detto ciò, tutto si riduce ad una questione di gusti, ma si badi a non associare a questa essenzialità un qualche genere di freddezza o di distacco, perché non è così: l'album è obiettivamente bello, vissuto e partecipe, ispirato persino nella sua ripetitività, armoniosa, semplicemente buddiana.
La medesima strada viene percorsa in maniera decisamente più traballante, nei due lavori successivi: Bandits Of Stature incorpora elementi esterni accentuando la dimensione cameristica e i richiami alla scuola storica del minimalismo senza convincere a fondo, mentre l'ultimo Jane 1-11 intraprende la ricerca di un comun denominatore fra i mondi dei suoi due predecessori. Il suo bicchiere risulta a conti fatti mezzo pieno, di un miscuglio che è però composto in copiosa quantità da quella classe cristallina della quale nulla e nessuno potrà mai privare un qualsiasi disco di Harold Budd. Una classe che finisce però per essere forma pura, se non unita a una sostanza che questa volta è ridotta all'osso.
L'impressione è che, giunto a ben trentacinque anni di carriera, il più grande pittore dell'ambient music continui a saper creare tonalità sopraffine ma abbia perso la capacità di riprodurvi quegli scenari che erano stati da sempre la sua specialità. E questa, a prescindere da dischi nel complesso salvabili, è tutto fuorché una buona notizia. La speranza è di poter assistere al più presto ad una smentita, a un ritorno a quelle evocazioni poetiche, magiche, delicate e intangibili nelle quali nessuno, ad oggi, è stato in grado di superare l'acquerellista californiano.
Contributi di Matteo Meda ("Jane 1-11")
The Oak Of The Golden Dreams/ Coeur D'Orr (with works by Richard Maxfield) (New World Records, 1970) | ||
Harold Budd (Advance, 1971) | ||
The Pavilion Of Dreams (Editions EG, 1978) | 8,5 | |
The Plateaux Of Mirror (with Brian Eno) (Editions EG, 1980) | 7 | |
The Serpent (Ep, Cantil, 1981) | 8 | |
Abandoned Cities/Dark Star (Cantil, 1984) | 7 | |
The Pearl (with Brian Eno) (Editions EG, 1984) | 7,5 | |
Lovely Thunder (Editions EG, 1986) | 6,5 | |
The Moon And The Melodies (with Cocteau Twins) (4AD, 1986) | 5,5 | |
Myths 3: La Nouvelle Serenite (with Gavin Bryars & Jon Hassell) (Sub Rosa, 1986) | 6,5 | |
The White Arcades (Opal, 1988) | 7 | |
By The Dawn's Early Light (with Bill Nelson) (Opal, 1991) | 6 | |
Music For 3 Pianos (with Daniel Lentz & Ruben Garcia) (Hannibal, 1992) | 8 | |
She Is A Phantom (New Albion, 1994) | 4 | |
Through The Hill (with Andy Partridge) (Hannibal, 1994) | 4 | |
Glyph (with Hector Zazou) (Made To Measure, 1995) | 5 | |
Glyph Remixes (12" Lp, with Hector Zazou, SSR, 1996) | 4 | |
Walk Into My Voice: American Beat Poetry (with Daniel Lentz & Jessica Karraker, 1996) | 4 | |
Luxa (All Saints, 1996) | 5 | |
The Room (Atlantic, 2000) | 6,5 | |
La Bella Vista (Shout Factory, 2003) | 7 | |
Translucence/Drift Music (with John Foxx) (Edsel, 2003) | 8 | |
Avalon Sutra/ As Long As I Can Hold My Breath (Samadhi Sound, 2004) | 9 | |
Music For "Fragments From The Inside" (with Eraldo Bernocchi) (Sub Rosa, 2005) | 3 | |
Mysterious Skin - Music From The Film (with Robin Guthrie) (Commotion, 2005) | 7,5 | |
After The Night Falls (with Robin Guthrie) (Darla, 2007) | 7 | |
Before The Day Breaks (with Robin Guthrie) (Darla, 2007) | 7 | |
A Song For Lost Blossoms (with Clive Wright) (Darla, 2008) | 5 | |
Candylion (with Clive Wright) (Darla, 2009) | 5,5 | |
Little Windows (with Clive Wright) (Darla, 2010) | 5 | |
Bordeaux (with Robin Guthrie) (Darla, 2011) | 6,5 | |
In The Mist (Darla, 2011) | 7 | |
Bandits Of Stature (Darla, 2012) | 6 | |
Jane 1-11(Darla, 2013) | 6 |
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