Squarepusher

Squarepusher

Il camaleonte intelligente

Personalità istrionica, il gallese Tom Jenkinson ha saputo fondere con encomiabile personalità la corrente drum'n'bass, diretta discendente della rivoluzione "intelligent", l'acid-techno delle lunghe notti rave e una moderna forma di jazz sperimentale, arrivando in più occasioni a essere soffocato dalle sua stessa variegatissima creatività. Viaggio nella carriera del più eclettico fra gli esponenti del movimento Idm

di Matteo Meda

La cornice temporale in cui si colloca l'opera di Tom Jenkinson è caratterizzata da un panorama musicale, specialmente in ambito elettronico, profondamente segnato ed indissolubilmente legato alla rivoluzione "intelligent" preannunciata da Aphex Twin nel 1992 ed esposta ufficialmente con il manifesto della Warp Records, la serie "Artificial Intelligence". Una rivoluzione basata ai suoi albori e sviluppatasi poi sulla ricerca della simbiotica fusione fra elementi opposti e contrastanti (l'ambient e la techno, la melodia e il ritmo, l'analogico e il digitale, l'euforia e la quiete) prendendo spunto contemporaneamente dalle avanguardie classiche, da quelle rock (kraut-rock, industrial), dall'ambient music di Brian Eno e dalle più estreme lande della techno (rave, acid-house).
Completato il suo percorso di nascita, questa nuova forma musicale, dopo essersi unita alla materia per la prima volta dando vita al suo primogenito, l'ambient-techno, ha poi proseguito, prima ponendosi a sua volta come genere vero e proprio (Intelligent Dance Music), poi partorendo altre due nuove correnti sonore: la drum 'n' bass e la breakbeat, entrambe derivate principalmente dagli influssi rave e caratterizzate da strutture ritmico-melodiche molto simili, differenziate fra di loro dagli strumenti utilizzati (nella prima, quasi esclusivamente basso e batteria, sia reali che riprodotti elettronicamente) e, soprattutto, dalla velocità (notevolmente maggiore nella breakbeat).
Fondamentale, in questa vera e propria evoluzione dell'elettronica, l'opera di artisti legati, in particolar modo, a tre case discografiche: la già citata Warp, la Planet-Mu di Mike Paradinas e la Rephlex Records di proprietà di Richard David James. Quest'ultima, in particolar modo, funge da vera e propria talent-scout, lanciando nomi come lo stesso Paradinas, Luke Vibert, Mike Dred, Jeremy Simmonds e Chris Jeffs. Ma l'ultima, grande scoperta della label inglese è quella di un particolare personaggio, fuori da ogni canone e di difficilissima inquadratura: bassista, ma amante del trattamento elettronico (la glitch e l'avvento del digitale devono ancora venire), manipolatore di suoni memore di notti a base di rave, ma con il pallino del jazz. Si tratta dell'allora ventunenne Tom Jenkinson, ma noi tutti lo conosceremo con il suo principale pseudonimo: Squarepusher.

Polistrumentista, autoditatta, esuberante: così potrebbe essere riassunta in tre parole la figura di Jenkinson e in particolare, con l'ultimo aggettivo, è possibile definire chiaramente la sua anima musicale, che sarà nell'arco della sua carriera, l'elemento di maggior interesse, ma anche il suo limite più grande. Tra gli alfieri di casa Warp, infatti, Squarepusher non risulterà né avere un ruolo di innovatore e pioniere come, per esempio, Aphex Twin, Autechre e Boards Of Canada, né tantomeno essere un caposaldo di un particolare movimento: la sua è un'arte all'insegna della varietà estrema, di cambi di percorso radicali e improvvisi, alle volte quasi inconcepibili. E' l'eclettismo l'elemento primo della musica di Squarepusher, il rinnovamento costante, raramente legato a un'evoluzione stilistica progressiva.

Cresciuto a pane e jazz, ben presto si avvicina all'elettronica, dapprima iniziando a seguire con interesse la scena techno di Detroit, poi inserendosi nel movimento "intelligent". Dopo qualche remix e un'attività piuttosto contenuta come dj, Jenkinson inizia a produrre la propria musica, inizialmente pubblicando due Ep a suo nome con alcune case discografiche indipendenti. Dei due ci perviene solo il primo, Crot, del 1994: trattasi di un lavoro intriso di sonorità rave e acid-house, a cavallo tra il primo Aphex Twin e gli 808 State, specialmente nelle due metà di "The Burglar". Non è però ancora un esempio particolarmente eclatante degli sviluppi futuri della sua carriera, ancora decisamente distante dagli influssi drum'n'bass che andranno a comporre la ricetta valida per i suoi lavori migliori.
Trascorre un anno e arrivano altri due extended play, Alroy Road Tracks, sotto il moniker di Duke Of Arringay, e Conumber, prima release a nome Squarepusher: due divagazioni jazz-fusion, entrambe povere di elementi elettronici, ma maggiormente indicative di quella che sarà una delle matrici caratteristiche del gallese.

squarepusher2Il 1996 è l'anno della svolta per la carriera di Jenkinson: dopo due Ep per la Worm Interface in rigorosa edizione limitata, uno dei quali in coppia con il poco noto alfiere dell'elettronica indie Nigel Smith (aka Dunderhead), viene raggiunto dalla Rephlex, rimasta colpita dall'ascolto di Alroy Road Tracks, e messo sotto contratto. Solo due mesi dopo, con lo pseudonimo di Squarepusher, pubblica il suo primo album.
Feed Me Weird Things è il punto di partenza, ancor poco approfondito, di quel che sarà probabilmente il miglior Squarepusher: il basso di Jenkinson e le sue radici jazz sono gli elementi dominanti in metà dei brani, mentre la ricerca sonora elettronica caratterizza la restante parte. La concomitanza dei due elementi si sviluppa, in maniera ancora acerba benché incredibilmente "nuova", lungo tutto il corso del disco. L'iniziale "Squarepusher Theme" traccia il cammino su cui prosegue l'intero lavoro: una base ritmica velocissima e schizoide, tipicamente drum 'n' bass, circonda un affresco dalle tinte be bop e funky, dettato in prima linea da un atipico basso melodico.
A proseguire sulla stessa strada sono la spettrale e oscura marcia jazz di "The Swifty", il teatrino free di "Smedleys Melodies", il post-bop marziale "Windscale 2" e il soft-funk di "Kodak".
I restanti brani si inseriscono invece in un clima puramente elettronico: l'acida breakbeat di "Dimotane Co.", l'elegia meccanica di "North Circular", che ricorda non troppo da lontano gli Autechre della svolta rumoristica, l'impazzito juke-box zuccherino di "Theme For Ernest Borgnine" (a cavallo tra l'Aphex Twin più melodico e il µ-Ziq di "Tango N' Vectif") e la conclusiva acid-jungle di "Future Gibbon". "UFO's Over Leytonstone" e "Goodnight Jade" sono, infine, passaggi dall'accentuato carattere ambientale: ipnotico e dub il primo, leggero e malinconico il secondo.
Il debutto di Squarepusher è più spiazzante per l'incredibile molteplicità di elementi al suo interno che per un particolare rinnovamento degli stessi: uno degli album più atipici dell'intera scena intelligent, riesce a saltare con maestria tra le più svariate forme musicali, benché si tratti ancora di un'esposizione di intenti più che di un vero e proprio loro sviluppo. Quest'ultimo passaggio avverrà invece nel successivo album, la vetta creativa e artistica più alta di Jenkinson.

Feed Me Weird Things
lancia il gallese come il nome nuovo contemporaneamente dell'elettronica nineties e della jazz-fusion: questo primo album, infatti, non è ancora esplicativo di quale sia dei due l'elemento predominante, ambiguità questa risolta nella simbiosi metodica del suo secondo lavoro. Ciò nonostante, la fusion, nata in origine come punto d'incontro tra jazz e rock, vede in Squarepusher una nuova via, quella della "fusione" con una forma di elettronica quantomai distante dal jazz canonico; ed è senz'alcun dubbio questa questa la vera, grande innovazione portata dall'opera di Jenkinson, più ancora delle sue velleità elettroniche, di ispirazione chiaramente intelligent ma mai in grado di apportare particolari innovazioni al genere stesso.

Assieme all'album, la Rephlex pubblica l'Ep Squarepusher Plays..., contenente l'overture dell'Lp e due outtake inseriti esclusivamente nell'edizione giapponese dello stesso: trattasi della seconda e ultima release di Jenkinson per la label, in quanto, come già accaduto per nomi come Luke Vibert e lo stesso Aphex Twin, ad accaparrarsi l'esclusiva sulla sua produzione è nello stesso anno la Warp Records, che lo ingaggia aggiungendolo così al suo già nutrito parco di grandi nomi.

Questo nuovo matrimonio, che perdura tutt'oggi, si apre con l'uscita dell'Ep Port Rhombus, piccola raccolta dalle sonorità drum 'n' bass con un marcato retrogusto dark-funky, premonitore del suo secondo lavoro sulla lunga distanza, primo per Warp. Hard Normal Daddy arriva a distanza di pochi mesi dall'Ep e si pone come il vero manifesto del miglior Squarepusher: una fusione di complessi ritmi frenetici, armonie jazz e taglienti languori acid in superficie, partendo dai quali Jenkinson attraversa linguaggi sonori totalmente slegati e distanti fra loro, mostrando la sua dote più grande nella capacità di equilibrarli.
"Cooper's World", cui spetta il ruolo di aprire le danze, è un post-bop melodico e sostenuto, alimentato da rapidissimi e strutturati beat analogici, mentre "Beep Street" s'immette temporaneamente in un sentiero vagamente ambientale, prima di lasciare il campo al puro drum and acid di "Rustic Raver", tra Luke Vibert e Cylob. "Anirog D9", balletto jungle a suon d'archi, anticipa l'incursione nell'industrial rumoroso e quasi concreto di "Chin Hippy" e il ritratto acid-jazz à-la-James Taylor di "Papalon".
L'acida miniatura di "E8 Boogie" viene scossa da una cascata di feedback di basso, prima che in "Fat Controller" Jenkinson opti per l'ennesima virata spiazzante, con un ritmo rockeggiante e una chitarra contorta tra distorsioni metalliche e lancinanti memori della "Metal Machine Music" di Lou Reed.
"Vic Acid" è definizione formale di di drum 'n' bass nei suoi canoni più classici e "Male Mill, Pt. 13" prosegue sullo stesso tema, introducendo progressivamente una melodia ambient-jazz fino alla poderosa conclusione. A chiudere, il divertissment soft-jazz "Rat P's And Q's" e la rapida e delicata "Rebus", etereo e candido pastiche ambient-techno, nonché brano più intimo e rilassato del disco.

La seconda fatica di Squarepusher presenta e amalgama gli stilemi sonori di Jenkinson, raggiungendo, grazie a una varietà sviluppata su una solida base comune, un equilibrio che il gallese non riuscirà più a ripetere, lasciandosi trasportare in maniera eccessiva dal suo animo musicalmente multipolare. Proseguendo nel percorrere una via personalissima, originata dall'opera di gran parte dei pionieri Idm ma sempre in grado di distanziarsene notevolmente, Squarepusher dà alla luce probabilmente il suo miglior album, forse l'unico in grado di raggiungere appieno la definizione di capolavoro, impresa che nel futuro faticherà notevolmente a conseguire: trasportato dalle svariate influenze a cambiare rotta a ogni lavoro (o addirittura all'interno di uno stesso disco), finirà infatti per perdere per strada, oltre alla gran parte delle intuizioni, anche l'equilibrio raggiunto in questo suo secondo album.

Se, infatti, la piccola-grande rivoluzione che l'aveva lanciato (soprattutto nel primo album) era il tentativo (qui riuscitissimo) di coniare una nuova forma musicale che fondesse le sue origini jazz con le deduzioni della scena elettronica del decennio 90, questa, completata e formalizzata al meglio proprio in Hard Normal Daddy, verrà messa quasi del tutto da parte a partire dal successivo Music Is One Rotten Note. A cambiare, radicalmente e ad ogni uscita, saranno invece i territori esplorati dalla sua ricerca, spesso troppo distanti fra loro e dalla base comune che era stata in grado di tenerli in equilibrio al meglio. Più che l'eccessiva varietà di richiami, sarà l'incapacità di mantenersi coerente agli stessi a impedire a Squarepusher di portare in alto il livello di tutte delle sue uscite, che risulteranno spesso essere di buona fattura e ricche di spunti meritevoli di approfondimento, puntualmente abbandonati in favore di radicali sterzate, o contaminate dalla presenza di altrettanti passi più lunghi della gamba.
Nonostante questo, Hard Normal Daddy, data anche la sua locazione di prima (e unica) opera piena rappresentante di uno stile coerente e lineare nelle sue evoluzioni, può considerarsi il suo capolavoro e una vetta altissima per l'intera scena Idm.
Nello stesso anno, l'Ep Big Loada mostra uno Squarepusher ben distante dalle sue precedenti espressioni, alle prese con rimandi kraftwerkiani ("A Journey To Reedham"), goliardie vintage à-la-µ-Ziq ("Massif") e incursioni nella breakbeat più martellante ("Full Rinse" e "Come On My Selector").
Sorta di inchino ai suoi maestri, è un lavoro interlocutorio e non certo indicativo riguardo il prosieguo della sua attività, una sorta di "pausa" prima di riprendere in mano il suo progetto principale.
A conclusione dell'anno, arriva anche la compilation Burningn'n Tree, che raccoglie gli Ep pubblicati con Spymania (Conumber e Alroy Road Tracks) più una manciata di inediti risalenti agli esordi di Jenkinson e ricalcanti il colorato funky dei due mini-album.

Il terzo album di Squarepusher arriva nel 1998 ed è intitolato Music Is One Rotten Note. Si tratta di una svolta totale verso un sound conteso tra jazz e ambizioni avantgarde, nonché il primo di una serie di episodi sottotono e contrastanti fra di loro. Vera e propria consacrazione del lato più eclettico del gallese, abbandona quasi del tutto ogni partitura elettronica, in favore di uno sviluppo delle sezioni elettro-acustiche. La doppietta d'apertura "Chunk-S"-"Don't Go Panic" è pienamente rappresentativa di quanto detto: due immersioni in pieno territorio jazz-fusion, ad un passo dai Weather Report, dove il polistrumentista si diletta tra basso, batteria, tastiere e percussioni. Gli oscuri presagi di "Dust Switch" si avvicinano invece molto più alle intuizioni canterburyane di Soft Machine e Caravan, mentre "Curve 1" e "137 (Rinse)" sposano, senza alcun successo, un'avanguardia rumoristica e quasi dissonante, tra sampling, distorsioni e improvvisi sprazzi elettrici.
"Parallelogram Bin" è un inutile, breve staccato di puri campionamenti concreti, così come "Ruin" e "Step 1". L'avant-jazz di "Circular Flexing" e "III Descent" si astrae dalla dimensione terrena del sound squarepusheriano, virando verso una sperimentazione pura e concettuale, questa volta perseguita in maniera egregia. Si ritorna al sensibile con il pittoresco slow funky di "My Sound" e il suo incedere ipnotico, e con il picco creativo del lavoro, "Theme from Vertical Hold", una gelida cavalcata modale acid-jazz dalle tinte misteriose e desolanti. Episodi isolati dal resto del disco risutano essere invece "Shin Triad", interpretazione acustico-ambientale delle velleità drum 'n' bass, e "Last Ap Roach", inquietante e lentissima marcia minimale dal rilievo dark-ambient à-la-Raison D'Etre.

Se Hard Normal Daddy si può considerare come il manifesto più completo ed equilibrato del miglior Squarepusher, Music From One Rotten Note rappresenta invece appieno le contraddizioni che caratterizzeranno l'attività del gallese lungo buona parte del suo percorso. Alternando germogli sonori pronti a crescere nel prato di una rivoluzione jazz-fusion e interessanti divagazioni inquiete ad abbozzati e perlopiù malriusciti tentativi di sperimentare spingendosi verso i lidi di un'avanguardia scialba e inconsistente, il terzo capitolo della saga Squarepusher risulta quindi un'opera incompiuta, un potenziale ottimo album minato però dall'eccessiva foga del suo autore di oltrepassare anzitempo la distanza percorsa dalla sua ricerca, finendo così per stabilirsi contemporaneamente in più ambiti senza riuscire a svilupparne nessuno. L'ottima fattura di almeno metà dei brani (nonché la ridotta durata degli episodi peggiori) riesce a rialzarne il livello e a renderlo, suo malgrado, un'ennesima dimostrazione di strabordante creatività, minata però da una marcatissima esuberanza e quindi ben lontana dal precario e (proprio per questo) straordinario equilibrio di Hard Normal Daddy.

Un temporaneo ritorno presso la Rephlex conclude l'annata, con l'uscita, sotto il moniker di Chaos A.D., di un album, Buzz Caner, e un Ep contenente alcuni suoi remix. Sorta di primo vero avvicinamento all'acid-house più estrema, a cavallo tra Mike Dred, 808 State, LFO e Aphex Twin dei primi Ep, funge perlopiù da piccolo regalo alla label che per prima l'ha lanciato: nessuna evoluzione né interpretazione di tale formula è infatti presente nell'album, i cui brani si limitano invece a ricalcarne le sonorità tipiche con una buona dose di manierismo tecnico.

squarepusher1L'anno successivo si apre con l'uscita di Budakhan Mindphone, presentato inizialmente come nuovo album ma successivamente ri-classificato, data la sua brevità, come extended play. Questo si prefigura essenzialmente come un surrogato delle migliori esplorazioni di Music Is One Rotten Note, con l'abbandono quasi totale di skit ed esplorazioni concrete e un maggiore sviluppo della componente avant-jazz ("The Tide", "Splask", "Varkatope"), un nostalgico e fugace ritorno in terra natia Idm ("Fly Street", "Gong Acid") e la presenza di uno dei suoi brani più intimi, l'affresco ambient-dub melanconico e toccante "Lambic 5 Poetry", tra Biosphere, Michael Stearns e "Selected Ambient Works II" del "maestro" Aphex Twin. Eliminando quelle spedizioni verso la terra di nessuno in grado di rovinare gli spunti migliori del precedente lavoro, con questo piccolo gioiello Jenkinson riesce, anche se solo temporaneamente, a re-incamminarsi verso sentieri più solidi e a rimettere a fuoco la sua ispirazione.
Ma già a distanza di pochi mesi, un nuovo Ep, Maximum Priest, desta nuovamente le perplessità che parevano lasciate alle spalle: l'ottima incursione ambient-dub di "Song: Our Unwater Torch" è seguita dal furibondo e scipito balletto drum 'n' bass di "Decathion Oxide", da una sorta di sua versione acustica e rallentata che nulla ne guadagna ("You're Going Down") e dai 32 inutili secondi di urla e brividi glitch in "Cranium Oxide". E' l'anticamera al successivo, allucinante capitolo della saga Squarepusher.

Selection Sixteen dista poco più di tre mesi da Maximum Priest ed è un'altra volta un album tutto fuorché povero di spunti ottimi, ma letteralmente disintegrato da un clima di totale incoerenza e superficialità nell'affrontare gli stessi. A ciò si aggiunge, nuovamente, una forzatissima convivenza di tutte le forme musicali affrontate in precedenza (con l'elettronica questa volta assoluta protagonista a discapito del jazz), con l'aggiunta di ulteriori incursioni nella psichedelia e nell'avanguardia pura. Il tutto a dar vita a una raccolta di bozzetti rapidissimi (meno della metà i brani sopra i due minuti di durata), peraltro totalmente distaccati e contrastanti fra di loro e mai in grado di lasciare un segno o di trattare la materia oltre il semplice sguardo.
I risultati migliori si trovano nei brani più "facili", canonici e vicini al compianto mood di Hard Normal Daddy, come le brulicanti fabbriche di beat "Square Rave" e "Mind Rubbers", l'ambient-techno cristallina di "Dedicated Loops", l'autechriana "Tomorrow World" e il basso psichedelico di "Freeway".
Per il resto: nuove malriuscite traversate alla ricerca dell'avanguardia, come l'iniziale "The 'Eye" per sola batteria e qualche eco acida, il jazz-noise di "Schizm Track #1", la dissonante icona "Yo"; pastiche elettronici senza capo né coda, fra i quali spiaccano l'orrenda mitraglia analogica di "Time Borb", la comica danza goffa di "Snake Pass", che vorrebbe essere μ-Ziq e suona invece piuttosto simile alla pessima collaborazione di quest'ultimo con Richard James e l'innocua breakbeat vintage di "Acid Tape Track". Ma l'album raggiunge il suo punto più basso con i penultimi venti secondi di "Tesko": una scanzonata base jazz su cui si alternano campioni di urla umane, versi, eruttazioni e vari altri rumori di ogni genere: qualcosa che vorrebbe divertire e riesce invece solo a innervosire terribilmente.
Selection Sixteen può essere considerato il compendio elettronico del jazzato Music Is One Rotten Note: manifesta gli stessi problemi (esuberanza, eccessiva ambizione) e ricade negli stessi, identici errori (superficialità, mancanza di sviluppo e di coerenza), con la differenza di non poter vantare quella metà di ottimi brani che rialzava le quotazioni di quest'ultimo. Jenkinson riesce nella difficile impresa di ripudiare quell'innovativa simbiosi tra estremi che aveva fatto la fortuna di Hard Normal Daddy e di farsi sopraffare dalla sua stessa frenesia creativa.

Trascorrono due anni prima che Squarepusher si riaffacci alle scene. Quello che può sembrare un temporaneo stop del fotosintetico flusso creativo del gallese va invece considerato come una vera e propria pausa di riflessione: dopo il tonfo dolorosissimo di Selection Sixteen, Jenkinson riaffila quindi le armi e, complice una probabile autocritica, riesce a rimettere a fuoco la sua istrionica creatività, senza per questo rinunciare né alla varietà né a un minimo di esibizionismo, da sempre tasselli indelebili nella sua arte. Quel che ne deriva è il suo secondo miglior risultato dopo Hard Normal Daddy, nonché un disco finalmente compatto e unitario. Go Plastic esce nel 1999 ed è quindi nuovamente una sterzata, un cambio totale di direzione, un'inversione a 180°.
La prima, vera novità del nuovo Squarepusher è la rinuncia totale a ogni influsso jazz e alle pompose frenesie drum 'n' bass: al loro posto, una breakbeat compassata, quasi minimale, ricoperta di sample e di pattern ipnotici. Il duo d'apertura "My Red Hot Car"-"Boneville Occident", fra voci femminili, battiti alchemici e qualche spruzzo acido qua e là, indica già dove si sia ancorata ora la base di partenza delle esplorazioni di Jenkinson, e cioè a cavallo tra l'Idm degli Autechre secondi (da "TriRepetae++" a "Confield"), la scena concettuale minimal (Alva Noto e Ryoji Ikeda) e l'ipnotica deep-house dei Global Communication. "Go Spastic!" accentua gli elementi minimali, mentre la breve "Metteng Excuske V1.2" è un divertissement concreto, un breve ritorno ai "vizi d'avanguardia" che però nel complesso riesce a trovare un senso nella sua collocazione.
Il lento e martellante incedere di "The Exploding Psychology" precede l'aphextwiniana "I Wish You Could Talk", prima di abbandonare l'ascoltatore ai frenetici rumorismi à-la-Cylob di "Greenways Trajectory". Di nuovo un breve acquarello, stavolta di stampo ambientale e dotato di rara bellezza, "Tommib", introduce la doppietta conclusiva, "My Fucking Sound"-"Plaistow Flex Out", che chiude il lavoro all'insegna di una deep-house lenta e marziale, quasi silenziosa.

Go Plastic pare essere l'album maturo e consapevole di un artista capace di rialzare la testa dopo essere crollato, dando vita, per la prima volta nella sua storia, a un lavoro omogeneo e stilisticamente unitario, benché non privo di una giusta e misurata dose di sfaccettature. Laddove ogni sua precedente uscita era stata in grado di affrontare territori sempre più variegati e lontani fra di loro, di sposarsi e divorziare di continuo con stili e influenze diverse, dapprima con ottimi risultati e successivamente scadendo nell'ipocrisia e nell'eccesso, Go Plastic si focalizza sullo sviluppo di un solo ambito, ovvero quello elettronico, adattando il suo sound alle tendenze del nuovo millennio (la glitch e la minimal a sostituire Idm e ambient-techno), pur mantenendo inalterate le sue spiccate radici drum 'n' bass. Inferiore a Hard Normal Daddy solo per la mancanza dell'enorme carica di idee e dell'innovativa caratura di quest'ultimo, l'album ne rappresenta un ideale opposto e risulta essere ad ogni modo una delle migliori prove di Squarepusher. Ma la convinzione che Go Plastic possa rappresentarne l'agognata maturità creativa si rivelerà illusoria, perché questo nuovo e placido equilibrio non sarà destinato a durare a lungo.

L'enorme successo di pubblico e critica riscosso dall'album rilancia infatti l'ispirata estasi dei tempi passati, grazie alla quale Jenkinson riprende nuovamente a saturare il mercato riuscendo quasi nell'impresa di pubblicare un album all'anno. La novità è però l'abbandono del formato-Ep: tutte le sue uscite saranno infatti sulla lunga durata. Il via a questo nuovo "ciclone" lo dà nel 2002 l'interlocutorio, fin dal titolo, Do You Know Squarepusher?. In questa domanda si celano contemporaneamente l'eterno interrogativo a cui ogni nuovo lavoro rende più difficile rispondere affermativamente e un nuovo dubbio sorto all'istante e più che mai avvallato dopo l'ascolto dell'album: che forse, prima di ogni altro, sia lo stesso Jenkinson a non conoscere Squarepusher, se si può considerare quest'ultimo come la sua variegatissima ed eclettica anima musicale, il più delle volte in grado di sovrastare la sua stessa personalità. Un'anima in grado di partorire capitoli magnifici quando governata a dovere, ma altrettanto capace di rovinare spunti ottimi se liberata dal "guinzaglio". Una situazione già vissuta, un limite che pareva superato in Go Plastic e si ripresenta, invece, più che mai attuale anche in questo lavoro. Che, va precisato, è tutto fuorché un brutto album: di nuovo si tratta di una raccolta di buoni esercizi di stile e qualche spunto pervaso di genialità, ma altrettanto nuovamente questi elementi risultano essere sconnessi tra di loro e gettati assieme, senza la benché minima cura, nello stesso ambiente.
L'album è una conferma della deriva completamente elettronica del "nuovo Squarepusher", che però cambia ancora strada, sposando, per tre quarti del lavoro, da un lato una totale astrazione claustrofobica (piuttosto simile a quanto provato dagli Autechre con "Confield"), dall'altro un cliché interamente ritmico-industriale (con la rinuncia al minimale deep di "Go Plastic"), salvo poi concludere con tre brani privi di qualsivoglia relazione con quelli che li hanno preceduti.
La title track d'apertura è l'unico episodio che pare rimandare all'ottimo predecessore, mentre il robotico e astratto (e malriuscito) esperimento di "F-Train", il violento incrocio di pattern "Kilk Robot" e l'impazzito scroscio obliquo di "Anstromm-Feck 4" si allineano appieno a una rivisitazione in chiave autechriana del minimalismo di "Go Plastic": trattamento, quest'ultimo, che riesce di nuovo ad abbattere l'equilibrio raggiunto in precedenza, dando vita a tre buoni brani di matrice intelligent, totalmente privi, però, dell'eleganza magniloquente diffusa in quel lavoro.
Ma il delirio e le contraddizioni raggiungono il loro apice nel terzetto conclusivo: prima un ennesimo, inutile postit d'avanguardia noise ("Conc 2 Symmetriac"), poi una suite di dieci minuti che parte all'insegna di un'ambient dronica, prima di essere bombardata da una grandinata di violentissime distorsioni elettroniche per concludersi con un atterraggio su suoli lunari cari ai Tangerine Dream di "Electronic Meditation": un vero capolavoro, forse il brano più innovativo mai composto da Jenkinson, una sarcastica fusione di presente (Idm e sviluppo digitale), passato (industrial e kraut) e futuro (drone, noise e glitch). Una perfetta chiusura di album, che avrebbe da sola alzato incredibilmente il livello di quest'ultimo. E invece il ruolo del congedo spetta a una cover di "Love Will Tear Us Apart" dei Joy Division, per giunta dal sound di evidente stampo New Order, per nulla riuscita e assolutamente fuori luogo nel contesto dell'album, dove la parvenza finale è che ogni singolo brano vada a scontrarsi, stilisticamente e musicalmente, con tutti gli altri.
L'impressione conclusiva è che ci si trovi dinanzi a un album in cui, più che mai, la domanda di Jenkinson sia rivolta esclusivamente a se stesso: in fondo, chi conosce Squarepusher? Il gallese dimostra con questo lavoro che, se questa conoscenza c'è, di certo nella maggioranza dei casi non è biunivoca: è l'ennesimo trionfo di Squarepusher su Jenkinson, che finisce però per essere ancora molto più doloroso proprio per il primo, che, come già avvenuto (su stilemi sonori totalmente diversi) in Music Is One Rotten Note, getta all'aria la possibilità di dar vita a un altro grande lavoro, arricchito dalla presenza di un vero e proprio trattato musicale, riuscendo a partorire solo una compilation a tratti buona ed enormemente altalenante.

squarepusher3La pubblicazione di Do You Know Squarepusher? è seguita da un'intensa e costante attività live, di cui ottima testimonianza si trova nell'edizione bonus del suddetto album, e di una costante crescita di popolarità. Quest'ennesima novità sarà per Jenkinson di fondamentale apporto nella composizione del suo settimo album, che uscirà nel 2004 facendo proseguire il flusso non-stop iniziato con Go Plastic.
Ultravisitor
è già dalla copertina manifesto di un cambiamento, questa volta anche nell'approccio personale oltre che nella musica. La faccia di Jenkinson campeggia per la prima volta in copertina, ad annunciare una presa di fiducia particolare del gallese: l'ombroso e misterioso uomo dalle mille personalità si svela ora e produce per la prima volta un album indirizzato al pubblico, ai fan, all'ascolto, piuttosto che alla sperimentazione o alla soddisfazione della sua insaziabile fame stilistica. E così Ultravisitor è album uniforme (pur non rinunciando al solito variegatissimo cameo), canonico, decisamente più "facile", quasi "orecchiabile". Un album che si pone come sorta di sunto di tutte le esperienze affrontate nell'arco della sua carriera, un manifesto per coloro che vogliono approcciarsi alla sua musica.
La title track, di nuovo apertura delle danze, eredita tutto o quasi dal "Richard D. James Album" di Aphex Twin, tra battiti acidi, pattern e distese sintetiche; mentre a fuoriuscire nel solo di basso di "I Fulcrum" è un inedito lato acustico, lo stesso che pervade l'acquarello di chitarra "Andrei", la breve e malinconica "Tomibb Help Buss" e la conclusiva spiazzante gemma limpida di "Every Day I Love", eseguita alla chitarra classica. Non manca nemmeno qualche nostalgico ritorno alla jazz-fusion, come la dolce "Lambic 9 Poetry", il basso blues di "C-Town Smash", il solo ritmico "Circlewave" e la jam canterburyana "Tetra-Sync".
Le solite incursioni in territori sperimentali, rappresentate dall'inchino glitch à-la-Chris Watson di "An Arched Pathway", dalle field recordings di "Menelec" e dal proto-kraut "District Line II", riescono questa volta a non sfigurare minimamente. I risultati migliori, in ogni caso, arrivano con i brani più "elettronici" e "movimentati": l'orrorifico teatro breakbeat di "Steinbolt", memore di "drukQs" di Aphex Twin e dell'ultimo Lfo e la spettrale marcia aliena di "50 Cycles", proveniente direttamente dall'ultramondo.
Ultravisitor non è, come può erroneamente trasparire, né un nuovo grande album né l'ennesimo sperato raggiungimento di un equilibrio: è, anzi, la definitiva prova di come questo termine sia totalmente incompatibile con l'anima musicale di Squarepusher. E', però, un lavoro dove la spontaneità sa dosarsi, dove Jenkinson sfrutta Squarepusher anziché liberarne l'esuberanza, operazione che nella maggioranza dei casi in un artista coincide con una perdita di personalità ed è quindi negativa, ma che nel caso del gallese eccezionalmente risulta fondamentale. La varietà stilistica è parte integrante di un progetto stabilito, anziché frutto di divagazioni incontrollate e, soprattutto, i territori esplorati, pur non mancando di manierismo, riescono a essere descritti e interpretati in maniera impeccabile, senza le cadute di stile precedentemente evidenziatesi. A mancare, in quest'album, sono gli spunti, i guizzi e le intuizioni di gran parte dei precedenti (anche i meno riusciti), ma il loro, necessario sacrificio in cambio di una moderazione della matrice eclettica finisce per giovare alla riuscita del lavoro in maniera decisiva.

Ultravisitor funge, come sperato dal suo autore, da biglietto da visita verso il pubblico (lo si potrebbe definire il suo primo album "commerciale") che lo segue ininterrottamente durante tutto il 2005, un anno trascorso all'insegna di numerosi live set in giro per il mondo. Dopo una prima fase di carriera votata a una totale introversione e alla produzione di lavori quantomai di nicchia, Jenkinson da il là a una seconda molto più votata all'estroversione, pur senza rinunciare alla sua istrionica varietà: questa formula caratterizza un nuovo capitolo di ottimo livello, Hello Everything, per la prima volta un album sulla falsariga del precedente anziché la solita inversione di marcia.
In questo nuovo disco, Jenkinson rinuncia a tutte le spigolose velleità sperimentali dei precedenti: del suo passato resta solida solo la matrice drum 'n' bass, che si coadiuva però con un susseguirsi di accattivanti linee melodiche, ora dolci ora più aggressive, e con qualche elemento jazz di natura però particolarmente soffice. L'apertura "Hello Everything" è un balletto zuccheroso e variegatissimo, in quello stile che sarà poi affrontato al meglio da Hudson Mohawke parecchi anni dopo, mentre il cotonato jazz-pop di "Theme From Sprite" è l'eloquente dichiarazione di intenti di Jenkinson, l'addio ai rimandi modali di "Hard Normal Daddy" e il nuovo matrimonio, tra gli altri, con il pop.
"Bubble Life" e "Planetarium" si concentrano maggiormente su caratteri ambientali, senza per questo fare a meno di una sezione melodica molto vintage; altrettanto capita nel bellissimo e caleidoscopico anthem "Welcome To Europe", mentre uniche digressioni in pieno territorio ambient sono l'acustica "Circlewave 2" (ideale seguito dell'omonimo brano di Ultravisitor dai marcatissimi echi enoiani) e l'oscura "Vacuum Garden". Non mancano nemmeno le "solite" catarsi ritmiche, rappresentate dalla breakbeat  frenetica di "The Modern Bass Guitar" (di nuovo molto Lfo), dalla macedonia acido-industriale di "Rotate Electrolyte" e dal jazzato hardcore di "Plotinus".
A concludere, un po' come era avvenuto in Do You Know Squarepusher?, ci pensa una suite di 10 minuti totalmente fuori dal coro, "Orient Orange", una vera e propria litania oscura di ritual-ambient in pieno territorio Zero Kama: la miglior chiusura per quello che è un altro ottimo disco, decisamente più a fuoco del precedente e riuscito quasi in ogni sua parte. Un album che prosegue sul cammino tracciato della "standardizzazione" progressiva del sound di Jenkinson, il più misurato e uniforme (ancor più di Go Plastic), che riesce a colmare i pochi vuoti del suo predecessore e a porsi come la miglior sintesi del nuovo Squarepusher: mainstream ma non troppo, multiforme ma conciso, ispiratissimo ma contenuto a dovere, è un'altra (la terza) vetta creativa, antecedente però a un ennesimo crollo.

Crollo che si manifesta a distanza di neanche un anno in Just A Souvenir, vera e propria deriva di puro stampo elettro-pop. Un disco che pare essere stato composto al solo fine di sfruttare "la cresta dell'onda" raggiunta un anno prima, accontentare i fan e la Warp e appagare contemporaneamente anche il portafoglio; nel tentativo di nascondere quest'intento, Jenkinson e la Warp montano una storia attorno all'album, secondo la quale a ispirare al gallese la composizione dei brani sarebbe stato un sogno nel quale una rock band suonava un concerto fra incredibili ambientazioni (su un kayak in mezzo a un fiume o alle spalle di un enorme e pericolante attaccapanni, con la chitarra che accelerava e decelerava ritmo da sola e le parti della batteria che si intercambiavano tra di loro).
L'album si divide equamente tra forzatissime marcette funky-pop, come l'ouverture di "Star Time 2", la smania acida di "The Glass Road" e il funk di "Duotone Moonbean" o "Quadrature" e accenni al pop-rock facile da classifica (con tanto di cantato filtrato a vocoder) negli echi new wave di "The Coathanger", nel kraftwerkiano electro di "A Real Woman" o negli ammiccamenti rockettari in "Delta-V". A questi si aggiungono due esercizi in stile big-beat à-la-Prodigy ("Planet Gear" e "Tensor In Green"), anch'essi marcatamente canzonettari e di facile presa sul pubblico, tre strumentali per chitarra classica di brevissima durata ("Open Society", "Fluxgater" e la conclusiva "Yes Sequitur") e un quadretto soft-jazz su fondale distorto ("The Glass Road").
Just A Souvenir può essere considerato, in base ai diversi punti di vista, l'ennesimo frutto dell'esuberanza di Squarepusher (che l'ha portato questa volta a esagerare nel "commercializzare" la sua musica) o un'operazione volutamente condotta per rifondare il suo personaggio, data anche la consapevolezza della fine evidente del movimento intelligent, le cui fondamentali intuizioni sono ora le basi di nuove scene di sperimentazione elettronica, ma non più certo le innovative frontiere che rappresentavano negli anni 90. Considerati gli sviluppi successivi della carriera di Jenkinson, le due tesi possono essere considerate entrambe valide, anche se nel caso di questo Just A Souvenir la seconda pare essere la più plausibile.

squarepusher4Ciò nonosante, l'album riscuote un gran successo e diviene di gran lunga il più venduto di Squarepusher, passato da camaleontico sperimentatore a divulgatore di una formula patinata e di grande appeal. Ma un nuovo sussulto dell'indomabile e istrionica anima del gallese pare rifiutare questo ruolo. Così, dopo un anno di "stacco", Squarepusher torna nel 2009 tentando per due volte di cambiare nuovamente strada. Il primo di questi tentativi è il fallimentare Ep Numbers Lucent, nostalgica riproposizione di clichés Idm e melodie appiccicose senza capo né coda, con l'incredibile novità di una spiccata tendenza all'autocitazionismo. Il turno successivo spetta a quello che possiamo considerare a tutti gli effetti un side-project, nonché l'album più concettuale del suo cammino: una raccolta di (perlopiù) brevi strumentali per basso elettrico intitolata Solo Electric Bass 1. L'impressione è che questo sia l'album che Jenkinson aspettava di fare da sempre, da prima ancora che il suo esordio Feed Me Weird Things prendesse forma. Le composizioni sono in gran parte improvvisate, piece delicate e astratte, a cavallo tra languori jazz e una certa propensione, per la primissima volta, a una matrice di tipo classico. Il disco non è decisamente di quelli che lasciano il segno, benché conceda un ascolto di alta caratura tecnica, che finisce spesso però per scadere nell'apatia.

Dopo questo temporaneo excursus su sentieri ancor più distanti da quanto affrontato in precedenza, e l'ulteriore (ma a questo punto decisamente non necessaria) controprova dell'immortalità del conflitto fra la sua esuberanza stilistico-creativa e il tentativo di indirizzarla, Jenkinson congela temporaneamente Squarepusher per dedicarsi a un nuovo progetto: una vera e propria band, con tanto di due chitarre, tastiere e batteria, dove il nostro si limita esclusivamente al ruolo di cantante (sempre assistito dal vocoder) e bassista. Il gruppo, che prende il nome di Shobaleader One, pubblica nel 2010 il suo primo e ad oggi unico album, d'Demonstrator, un frullato di big beat, chill-out, elementi math e tanta melodia pop.
Il disco vive di alti e bassi, pochi crolli ma nessun guizzo, grazie a una formula variegata ma riciclata quasi in tutti i brani. Tra i momenti migliori, il gelido e cristallino math-pop di "Into The Blue", il liturgico strumentale "Frisco Wave", la cavalcata a metà fra Kraftwerk e Depeche Mode di "Cryptic Motion", la love song per robot "Abstract Lover" e il conclusivo techno-industrial di "Maximum Planck", vero unico apice creativo dagli echi battlesiani. A figurare sottotono sono invece i vari tentativi di adattamento pop, come lo stucchevole r'n'b d'apertura "Plug Me In" che pare un brano di Rihanna trattato elettronicamente, la big beat melodica di "Laser Rock", l'elettro-rock tribale à-la-Chemical Brothers di "Megazine" e il collage dance di "Endless Night".

Il doppio fuoripista di questo nuovo progetto e del precedente Solo Electric Bass 1 suona come un campanello d'allarme di non poco conto: anche Jenkinson, ovvero il pozzo senza fondo alimentato da un'irrequieta e irrefrenabile creatività, a tratti geniale e ad altri terribilmente goffa, ma sempre e comunque in grado di partorire un'idea dietro l'altra, può essere in grado di esaurire le sue risorse? Come la gran parte dei quesiti riguardo il gallese, anche questo sarà di ben difficile risoluzione.

Due anni di silenzio vengono rotti, a inizio 2012, con una dichiarazione, caso raro per una personalità di ben poche parole come Jenkinson, che annuncia l'arrivo dell'undicesimo capitolo della saga Squarepusher, a ben cinque anni di distanza dall'ultimo lavoro "elettronico": "Dopo le ultime uscite, di stampo quasi acustico, ho voluto di nuovo dedicarmi a qualcosa di interamente elettronico per questo nuovo album. Qualcosa di molto melodico, ma anche molto aggressivo".
Una vera e propria presentazione di quel che Jenkinson attuerà effettivamente nel nuovo album, intitolato Ufabulum. Lanciato da un'enorme campagna marketing, Ufabulum è, infatti, una zuccherosa e appiccicosa marmellata harsh-pop, tra scheletri ritmici esplosivi e melodie accattivanti e orecchiabili, inquadrabile da un orecchio poco attento come una versione maggiormente pompata di Hello Everything, con il quale invece ben poco ha da spartire (nulla hanno in comune l'intimo melodismo di quest'ultimo con l'estroversione ritmica dell'altro).
Il disco, se considerato dal punto di vista prettamente artistico/evolutivo, potrebbe suonare come l'epitaffio di Squarepusher, per via del definitivo abbandono di qualsiasi tentativo di progresso, di innovazione del suo sound e addirittura di personalizzazione dello stesso, per uno come lui che su questi elementi aveva incentrato l'intera sua carriera, in favore di un adattamento alle tendenze commerciali del momento, fin troppo dominate da figure come, per esempio, quella di Skrillex. Se il disco viene inquadrato da una prospettiva esclusivamente musicale, invece, le carte in tavola cambiano notevolmente, per via dell'incredibile capacità del suo sfacciato sound di conquistare e appagare. Queste caratteristiche sono espresse al meglio nella base techno sommersa da sostrato melodico dell'iniziale "4001", dell'acido carillon su inclinati beat à-la-µ-Ziq di "Unreal Square", in "Dark Steering", singolo di lancio in cui Jenkinson si allinea al sound di Skrillex per poi ridicolizzarlo, e nella chiusura elettro-pop di "Estatic Shock": tutti brani con il potenziale per vendere tanto e animare i dj-set delle migliori discoteche.
Vi sono poi richiami al pop nostalgico e cristallino dei Daft Punk nelle distese sintetiche di "Stadium Ice" e, soprattutto, "Endless Wizard", qualche ritorno nei lidi drum 'n' bass grazie a "The Metallurgist" e "303 Scopem Hard", memori rispettivamente di Luke Vibert e Lfo, e un outsider, la cavalcata "Drax 2", dieci minuti scarsi di deep-house su telai breakbeat per niente distante da quel Go Plastic che rappresenta il punto più alto del Jenkinson elettromane.
Distante ancora una volta da qualsiasi precedente esplorazione firmata Squarepusher, Ufabulum è di nuovo una deriva, come svariate ce ne sono state nella sua carriera, benché meno radicale di quelle avvenute in passato. Per questa ragione, risulta criptico nella sua incapacità di rispondere al quesito di cui sopra, e piuttosto capace di dar vita a due correnti di pensiero: musicista maturo o bollito? Adattamento del proprio sound alle tendenze attuali o spersonalizzazione? Capacità di cavalcare l'onda come la migliore delle popstar o svendita al mercato dell'industria musicale? Qualsiasi sia la risposta a tali quesiti, questa di certo non è suggerita dal disco, che ha però il merito di regalare un'ora scarsa di musica fresca e coinvolgente - dalla quale si può tranquillamente togliere l'inutile bonus dell'Ep Enstrobia -, seppur nettamente inferiore alle migliori produzioni del gallese e non priva di qualche ammiccamento di troppo a un sound a tutti i costi facile, quasi scontato.

Al disco segue una lunga tournée che tocca anche l'Italia all'interno del Meet In Town, le cui date vedono Jenkinson presentarsi alle spalle di enormi maxi-schermi indossando una maschera. I primi rapprsentano forse la vera forza d'impatto, grazie ai giochi di luci, flash e pixel che vengono poi riprodotti sulla seconda. A deficitare, però, è il lato musicale: non si tratta infatti, come annunciato, di concerti, bensì di veri e propri dj-set, in cui il musicista si limita ad assemblare con una certa stanca sezioni inedite preregistrate ed estratti da Ufabulum. A mancare sono anche gli interventi di basso trattato, in precedenza autentico marchio di fabbrica delle sue esibizioni. In omaggio ai partecipanti è per altro offerto l'Ep KCRW Sessions, contenente cinque rivisitazioni di alcuni brani da Ufabulum, che nulla aggiungono né tolgono al senso del lavoro.

Gasato come non mai dalla svolta cybertech e ormai sempre più interessato a cavalcare la frontiera della tecnologia, un anno più tardi Jenkinson offre la sua musica come volontaria per far da cavia ad un progetto di un pool di studiosi di robotica giapponsi. L'obiettivo, ambizioso sulla carta ma in realtà nato vecchio già dal principio, è quello di creare un sistema perfetto che riproduca in tutto e per tutto una band umana: nasce così Z-Machines, un trio di robot esteticamente meravigliosi, intenti a riprodurre l'intera strumentazione di un trio chitarra-basso-batteria con surrogati elettronici. Avvenieristico a livello teorico e decisamente sopra le righe tanto quanto lo era stato il design visuale di Ufabulum, il progetto si rivela decisamente meno innovativo sul pratico: dal punto di vista tecnologico, i tre robot si limitano sostanzialmente a ripercorrere esperimenti ormai superati dall'applicazione dell'informatica alla musica, riuscendo a stupire e fornire una dose di novità (ma non certo di innovazione) solo per l'integrazione cinetica della gestualità. Il robot che, controllato informaticamente, materialmente suona non lo avevamo ancora visto in azione, ma di robot in grado di cimentarsi in imprese ben più complesse magari pure con un briciolo di intelligenza artificiale se ne vedono da tempo. Il contributo musicale di Squarepusher è sostanzialmente una riproposizione in chiave più organica dei suoni del disco precedente, con una temibile spinta di stampo breakcore che viene però (questo sì sorprendentemente, considerato il personaggio) tenuta a bada. L'Ep Music For Robots testimonia tramite cinque pezzi l'intera operazione e ne rappresenta bene il suo valore: una breve e gradevole raccolta di elettronica più adatta al salotto che al dancefloor, per la quale non era certo necessario scomodare un concept così altisonante.

Dopo una carriera trascorsa fra sprazzi di innovativa genialità e cadute in marasmi profondi, all'insegna di un eclettismo multipolare sinonimo a tratti di straordinaria polivocità, ad altri di esuberante incoerenza, Jenkinson pare aver definitivamente deciso per un prosieguo di attività diviso tra una svolta verso un sound sempre più commerciale e lo svago di qualche occasionale progetto parallelo: certo è che, per ovvie ragioni, un eventuale, futuro colpo di coda sarebbe tutto fuorché stupefacente.

Il lavoro targato 2015 si intitola Damogen Furies, e ha il pregio di riportare in auge un modo di intendere l’elettronica che punta dritto al sodo, senza troppe menate fusion o persino simil prog, che avevano appesantito o portato fuori dai binari alcune recenti mosse di Tom Jenkinson. Questa volta l’artista noto come Squarepusher ci mette tanta cattiveria, organizza suoni devastanti, urticanti, e li riversa dentro un dischetto di quelli concepiti per restare.
In alcuni episodi la foga è incontenibile (già l’iniziale “Stor Eiglass” toglie il fiato, pur essendo fondamentalmente un giochino pop, ma allestito in maniera molto personale, e provate anche voi a scorgerci dentro i Cure di “Just Like Heaven”…), in altri si stagliano tenebrosi landscape ambientali, puntualmente disturbati da intromissioni nevrasteniche (“Baltang Ort”), intermittenze ansiogene ("Rayc Fire 2"), oppure tappetini di pop obliquo sui quali si adagiano synth sempre ben manovrati (“Baltang Arg”).
“Damogen Furies” è un lavoro ripieno di ossessioni, l’inquietante colonna sonora di un incubo nel quale qualcuno ci insegue, con intenti misteriosi, ma non possiamo escludere con certezza che tutto sia esclusivamente frutto della nostra fantasia, attraverso una forma di percezione distorta della realtà.
Il nuovo step di Squarepusher è sfidante, magari oggi il suo intento non vuol più necessariamente essere quello di presupporre ipotetici ed avanguardistici scenari futuri, bensì quello di produrre un’istantanea attendibile dello stato dell’arte di certa elettronica contemporanea, mantenendo sempre un’opportuna coerenza di fondo.

Si disinteressa della contemporaneità invece il successivo Be Up A Hello, che esce (dopo il live Elektrac, nuovamente a nome Shobaleader One) all'inizio del 2020. Il disco prende forma dall'esperienza di due eventi personali piuttosto traumatizzanti per Jenkinson, quali la rottura del polso e la perdita dell'amico fraterno Chris Marshall (compagno delle prime esperienze musicali elettroniche), che spostano il baricentro dell'opera verso un sentito ritorno alle origini dal punto di vista stilistico (con l'utilizzo esclusivo di macchine analogiche di metà anni novanta), anche per onorare il ricordo di Marshall.
Dopo un opener dall'ampio respiro melodico ("Oberlove") si passa a episodi più marcatamente drill'n'bass, alcuni dei quali piuttosto feroci ("Nervelevers", "Terminal Slam", "Speedcrank"), che solleticano la fanbase storica ed esternano la necessità (a tratti anche piuttosto dolorosa) di tornare a un epoca (la scena post rave di metà anni novanta, appunto) in cui tutto era fresco e lucente. Resta prepotente una complessità di dettagli nevrotica, che fa smascellare tanto quanto analoghe incursioni in quei territori ad opera di altre divinità del pantheon Warp, quali lo stesso Aphex Twin o gli Autechre, e che ringhia restando indifferente all'estetica conceptronica di fine decennio. 
Un disco dove Squarepusher fa Squarepusher, preso tra nuovi dubbi e vecchie certezze, abile nel togliere spazio ad aspettative sulla sua contemporaneità e a conservare la forza che lo rende ancora imprevedibile.

Sulla stessa linea si muove il successivo Dostrotime del 2024, proponendo un verbo elettronico eretto tra schizofrenia drill'n'bass e strutture iperdettagliate. L’attacco di “Dostrotime”, affidato al primo dei tre capitoli acustici intitolati “Arkteon”, appare una negazione di tale tendenza, ma è sufficiente arrivare al crescendo senza sosta di “Enbounce” per ritrovare la maestria delle trame ritmico/melodiche più esplosive, che marcano lo sviluppo del disco di fino a “Duneray”. Da qui in poi Jenkinson vira verso soluzioni atmosferiche guidate dalle linee fluide del basso (“Kronmec”) o breakbeat compassati in improvvisa impennata (“Akkranen”) segnando una tregua necessaria, che definisce però la sezione meno incisiva del lavoro.
I giri tornano ad aumentare vertiginosamente con “Stromcor” e la convulsa “Domelash” – tra le tracce migliori del lotto – prima di placarsi definitivamente in una doppia deriva meditabonda che ha il sapore di un’estensione superflua. Depurato di alcuni passaggi a vuoto “Dostrotime” rientrerebbe certamente tra le produzioni migliori di Squarepusher, con un Jenkinson ancora una volta abile nel rinverdire i fasti di una cifra unica, ma a tratti fin troppo autoindulgente.



Contributi di Claudio Lancia ("Damogen Furies"), Paolo Ciro ("Be Up A Hello") e Peppe Trotta ("Dostrotime")

Squarepusher

Discografia

TOM JENKINSON
12''
Crot (Rumble Tum Jum, 1994)
Stereotype (ltd, Nothings Clear, 1994)
Dragon Disc 2 (ltd, with Dunderhead, Worm Interface, 1996)
The Buckseesh (ltd, Worm Interface, 1996)
DUKE OF ARRINGAY
12''
Alroy Road Tracks (Spymania, 1995)
SQUAREPUSHER
CD & LP
Feed Me Weird Things (Rephlex, 1996)
Hard Normal Daddy (Warp, 1997)
Burningn'n Tree (antologia, Warp, 1997)
Music Is One Rotten Note (Warp, 1998)
Selection Sixteen (Warp, 1999)
Go Plastic (Warp, 2001)
Do You Know Squarepusher (Warp, 2002)
Ultravisitor (Warp, 2004)
Hello Everything (Warp, 2006)
Just A Souvenir (Warp, 2007)
Solo Electric Bass 1 (Warp, 2009)
Ufabulum (Warp, 2012)
Damogen Furies (Warp, 2015)
Be Up A Hello(Warp, 2020)
Dostrotime(Warp, 2024)
EP & 12''
Conumber (Spymania, 1995)
Squarepusher Plays... (Rephlex, 1996)
Port Rhombus (Warp, 1996)
Big Loada (Warp, 1997)
Budakhan Mindphone (Warp, 1999)
Maximum Priest (Warp, 1999)
Numbers Lucent (Warp, 2009)
KRCW Sessions (Warp, 2012)
Music For Robots (with Z-Machines, Warp, 2014)

CHAOS A.D.

Buzz Caner (Lp, Rephlex, 1998)
Remixes (12'', Rephlex, 1998)
SHOBALEADER ONE
d'Demonstrator (CD/LP, Warp, 2010)
Elektrac(live, Warp, 2017)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Dark Steerig
(videoclip da Ufabulum, 2012)

Drax 2
(videoclip da Ufabulum, 2012)

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